Gli atti del
Convegno di Padova “Il limite dell’utile” saranno raccolti in un “Quaderno di lavoro”.
Poiché questo richiede tempi relativamente lunghi anticipiamo, nel Sito della
Gilda nazionale, le relazioni e gli interventi dei partecipanti, a mano a mano
che essi ci pervengono.
I lettori
perdoneranno eventuali refusi o imperfezioni: si tratta di una stesura
semi-definitiva, che sarà successivamente perfezionata.
Relazione: di Angela MartiniRelazione: di Renza BertuzziRelazione: di Ledo StefaniniRelazione: di Massimo Bontempelli |
CONVEGNO
INTERREGIONALE SULLE TRASFORMAZIONI IN ATTO NELLA SCUOLA ITALIANA
(regioni
Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Veneto, Lombardia, Piemonte, Valle
D’Aosta, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Umbria)
venerdì 23 febbraio
ore 11.00: saluto
Alessandro Ameli: Coordinatore nazionale
ore 11.30: Prolusione
Lino Giove: Gilda di Padova
ore 12.00: Le coordinate del processo di trasformazione ed il limite dell’utile
Serafina Gnech: Coordinatrice del Centro Studi Gilda
ore 12.30: Recenti politiche scolastiche nel contesto internazionale
Angela Martini, Preside, IRSAEE Veneto
ore 13.00 – 15.00 pausa pranzo
ore 15.00: Modelli d’oltreoceano.
Giuseppe Del Re: Ordinario di chimica teorica all’Università di Napoli
ore 15.30: Quali curricoli?
Renza Bertuzzi, membro della Commissione dei Saggi, responsabile di redazione “Professione Docente”
ore 16.00: Prospettive per gli insegnamenti disciplinari: l’insegnamento della fisica nella scuola superiore.
Ledo Stefanini, Ingegneria dell’ambiente presso l’Università di Pavia
ore 16.30: DIBATTITO
sabato 24 febbraio
ore 9.00: Autonomia: un contenitore funzionale
Massimo Bontempelli:Docente Liceo classico “Galilei” di Pisa
ore 9.30: Una soluzione diversa a problemi reali
Luciana Lepri, Fondazione internazionale “Nova Spes”
ore 10.00: INTERVENTI (Dario Generali, direttore della rivista “Il Voltaire” ed altri)
ore 11.00: DIBATTITO
ore 13.00 – 15.00 pausa pranzo
ore 15.00: CONCLUSIONI E INCONTRO CON LA CITTADINANZA
di Lino Giove
1. Con l’avvento della scuola di massa i meccanismi di selezione, com’è noto, sono saltati.
Si tratta di un fenomeno sotto gli occhi di tutti
(basta pensare un attimo alla riforma degli esami di maturità o all’abolizione
degli esami – quelli di settembre, ad esempio).
E’ luogo comune ormai che basti la frequenza.[1]
Un preside doc di Belluno in un testo riportato nel numero di marzo 2001 di
“Materiali Veneti” (L’angolo di Zorro,
pag. 32) rimprovera i suoi insegnanti d’essere selettivi ed afferma che
promuovere “cani e porci” è ormai tendenza consolidata in tutti gli istituti...
Il risultato è non solo il drastico abbassamento del livello degli studi nel senso
quantitativo, ma l’alterazione della
qualità degli studi. Per capirci:
non si studiano meno cose, ma soprattutto si
studia male.
Le ulteriori
conseguenze sono sotto gli occhi di tutti:
a. perdita d’autorevolezza degli insegnanti (collegata all’appannarsi della funzione e della responsabilità di giudice, che è connaturata a quella d’educatore). Perdita
dell’autorevolezza non solo di fronte agli studenti, ma anche di fronte ai
genitori e quindi sul piano sociale; [2]
b. danno,
oltre che conoscitivo, anche etico per gli studenti (perdita della responsabilità, in quanto viene meno il concetto di
merito legato allo sforzo ed alle capacità ed viene minato di conseguenza il concetto
di giustizia - vedi Aristotele). Da
qui il senso di vuoto e l’aumento della violenza[3].
Tra le altre cose, la frequenza degli studenti a scuola è ovviamente diminuita
drasticamente e per molti genitori è diventato normale che i loro figli
frequentino la scuola in modo discontinuo. Altro che “non perderne nemmeno
uno”, come afferma il Ministro De Mauro! Ci sono poi notevoli difficoltà nell’orientamento, poiché lo
studente non mette, se non in casi rari, alla prova se stesso.
L’orientamento si sposta fuori della scuola, è
sempre più un orientamento di consumatore e, in ogni caso, prescinde da
capacità provate.
I rimedi
istituzionali sono vuoti o inefficaci: i corsi di recupero sono in genere fallimentari,
perché mancano di qualsiasi elemento selettivo. Lo stesso discorso vale per il
meccanismo dei debiti (solo in qualche caso c’è una minima utilità, ad esempio
nei casi in cui si fa qualche esercizio in più di latino o di matematica, ma si
tratta in ogni caso di effetti limitatissimi).
Dietro a ciò
l’egualitarismo conformista
dei teorici ministeriali, oltre che aspetti di una tradizione
pedagogico-didattica anglosassone fallimentare e perciò oggi messa in
discussione sia in Inghilterra che negli USA (vedi, a questo proposito, gli
studi di Hirsch).
2. Perdita non solo di autorità razionale, ma della competenza
disciplinare-contenutistica.
La linea è
quella di una tendenza irrazionalistica e formalistica di una parte della
pedagogia-didattica, purtroppo consolidatasi con gli anni sia nelle Facoltà di
Pedagogia che nella burocrazia
ministeriale del nostro paese. Si tende
cioè a concepire un saper insegnare indipendente dalla competenza
contenutistico-disciplinare, concezione
che fa il paio con “l’imparare ad imparare” per gli studenti.
Hirsch ha
recentemente denunciato la pericolosità di questa tendenza, ma già negli anni ‘50 Annah Arendt vedeva in ciò una
delle radici della crisi dell’insegnamento: “Influenzata dalla psicologia
moderna e dai dogmi del pragmatismo, la pedagogia moderna si è trasformata in
una scienza dell’insegnamento in genere
indipendente dalla materia che di fatto s’insegna. Secondo questo concetto
un insegnante è una persona capace di insegnare non importa che cosa ; una
persona abilitata dal proprio tirocinio all’insegnamento, non alla padronanza
di qualche specifica materia (A.Arendt, Tra
passato e futuro, p.238).
E ancora: “
L’intenzione non è d’insegnare una conoscenza , ma di inculcare una tecnica”.
Si dimentica che qualsiasi ricerca, qualsiasi
problema, come ci ha insegnato Popper (probabilmente
il massimo epistemologo del nostro secolo),
presuppone e si staglia su un sapere di
sfondo ben consolidato e, come afferma Gadamer,
(uno dei padri della teoria ermeneutica)
ci si ripensa, ci si conosce , comprendendosi in una tradizione. Non
s’impara, cioè, a comprendere in
astratto.
Dietro alla pedagogia-didattica di regime molti
i luoghi comuni, quali il formare “la
testa” e le capacità astratte o la
necessità di stare alla pari con le
trasformazioni rapide della tecnologia e l’impossibilità di stabilire i
contenuti necessari...
Dove vediamo già tale impostazione dispotica nella vita effettiva delle nostre scuole?
Nella tendenza ad imporre l’insegnamento per moduli (i moduli servono solo là dove
c’è un apprendimento tecnico-circoscrivibile o un approfondimento collaterale
all’insegnamento disciplinare)[4].
Si pensi solo, come esempio, all’insegnamento della storia alle superiori
attraverso moduli. I libri di storia stanno per essere trasformati in una sorta
di Ikea.
Ma allo svuotamento dei contenuti contribuisce anche
la moltiplicazione delle materie collaterali, ovvero il trionfo del
progettificio ed il conseguente spostamento del fulcro dell’insegnamento fuori dell’orario normale (perfino
Gardner se n’accorge), nell’ottica dell’equivalenza
contenutistica, secondo la quale un insegnamento vale l’altro.
A questo contribuisce moltissimo la concorrenza recentemente innescatasi tra
le scuole, che pone al centro l’effetto vetrina.
La riforma universitaria basata sulla laurea breve triennale, a cui fa
seguito un biennio prevalentemente pedagogico-didattico presso le Scuole
regionali di specializzazione si muove in
questa direzione (“Materiali Veneti”, op. cit., pag. 25).
La cosiddetta didattica
breve rientra nella stessa logica: si dice che il recupero fallisce perché
contenutistico, mentre deve servire solo ad imparare ad imparare, cioè ad insegnare il metodo nella sua purezza
astratta (!).
C’è qualcosa
di più grave, perché coinvolge anche le ambizioni di una minoranza della
categoria: il fatto di voler spostare il “merito” fuori dell’insegnamento con
la classe, con gli studenti, sul piano
dell’organizzazione-amministrazione-didattica (si parla di carriera, di
premiare il merito, di identificare chi lavora di più nella scuola...).
C’è dietro l’idea di creare nella scuola “ la
prospettiva di una carriera degli insegnanti che colloca ai gradi superiori
quelli più disposti ad abbandonare qualsiasi impegno di studio e a prendere le
distanze dal lavoro quotidiano nelle classi”(Massimo Bontempelli, L’agonia della scuola italiana). Spesso ci troviamo di fronte
a gruppi - e in tale senso la cosa è pensata - che diventano i trasmettitori della didattica di stato
o didattica di regime se si preferisce. Anche
alcuni colleghi della Gilda, ho l’impressione, spesso non comprendono come sia
in gioco qui la libertà professionale.
Ne deriva la
svalutazione dello studio degli insegnanti, della lettura, della passione per i contenuti della materia.
I meccanismi selettivi della formazione degli insegnanti si muovono in questa
direzione.
Io penso che la prima riforma di cui ha bisogno la
nostra scuola dovrebbe consistere nella rivalutazione dello studio disciplinare
e della competenza disciplinare degli insegnanti.
Una delle
conseguenze dello svuotamento a cui ho fatto cenno è la crisi della formazione
umana (paideia) che nasce dal rapporto dialettico–critico con la civiltà
d’appartenenza ( vedi gli studi di Gadamer, di Ricoeur, di Jauss e la scuola di
Costanza, ma non solo).
3. Le ultime affermazioni ci
portano a una terza questione: la limitazione
della libertà d’insegnamento. Una propaganda ingenua, quando non ipocrita,
ci parla dell’autonomia (o quanto meno di quest’autonomia) come di crescita
della libertà e della professionalità.
In realtà ci troviamo di fronte a una vera e propria
didattica di regime per giunta
fallimentare.
E’ il modello inglese (che vale anche per
l’Australia e, mi si dice, anche per moltissime scuole USA): sono le prove d’esame (oltre ai coordinatori di
dipartimento, in Inghilterra ad esempio) che determinano la didattica, ci
impongono cioè una limitazione della libertà d’insegnamento più stringente di
qualsiasi modello autoritario del passato.
Cito dalla mia esperienza: l’imposizione delle prove oggettive - quiz o altro-
contiene la critica ad una valutazione di tipo qualitativo. Il modello di
valutazione degli esami di maturità porta ad un impoverimento dello studio, che
si riduce a collezione di formule e banale nozionismo. C’è poi la svalutazione della prova orale
disciplinare, che proprio il “Guardian” segnalava come uno dei difetti
della scuola anglosassone.
Si aggiunga la svalutazione della lezione (nei corsi universitari di Padova si dice: “Basta con
la lezione-commento in letteratura”,
basta cioè con l’analisi e la riflessione,
come se la lezione non fosse parecchie cose – e molto diverse...
Cosa ci sta dietro: una concezione della centralità
dello studente, che non è l’ovvietà che la scuola è fatta per lo studente, ma è un’idea di insegnamento
senza alcuna forma di costrizione e/o autocostrizione, ma l’imparare come gioco (H.Arendt, op. cit., pp.239-240) e l’egualitarismo formale.
Personalmente sperimento e considero la didattica
come ricetta, precettistica limitata, non prescrittiva, non teoria pura, ma
cosa flessibile e non programmabile.
Ovviamente ritengo utili gli studi psicologici – ad
esempio il cognitivismo, vedi Gardner- ma
penso che le applicazioni didattiche immediate siano solo forme di
“cretineria”.
4.
Modernizzazione: c’è un’ideologia folle, ma diffusa, che considera il cambiamento come buono in ogni caso.
Esiste poi un’idea del rapporto tra società e scuola semplificato, quando non addirittura
sbagliato. Secondo Anna Arendt la
scuola per esistere, per non sparire nella società, deve mantenere una certa
distanza, una certa separazione dai suoi tempi. E’ un grave errore, a suo
avviso, immergere troppo presto i
bambini nel sociale. I bambini vanno difesi dall’immediatezza poiché non sono uomini in piccolo. “La
responsabilità della crescita del bambino è in certo senso contraria al mondo:
il bambino deve essere protetto con
cure speciali, perché non lo tocchi nessuna delle facoltà distruttive del
mondo” (op. cit.).
Il contemporaneismo
è un errore didattico e di formazione umana terribile, a volte persino
delittuoso. Toglie ogni possibilità di distanziamento, trasforma lo studente in
consumatore, costringe a continue campagne
- politicamente corrette -
all’interno delle scuole per riparare la formazione povera, lo scetticismo
che si genera, il senso di vuoto e di nulla. Cosa c’è di più penoso della
visione di quei bambini davanti alla
televisione... a ripetere i luoghi comuni degli adulti... quei bambini
violentati!
Il contemporaneismo trova la sua manifestazione più ripugnante
nella riduzione del problema pedagogico-didattico alle campagne “inglese più
computer”.
Queste campagne corrispondono a una dimissione del
problema di una formazione umana.
Infine - mi spiace dirlo, ma non posso evitarlo -
noi vediamo arrivare dalle elementari e dalle medie studenti sempre meno capaci
di scrivere o di sostenere un qualche ragionamento logico-matematico. Il problema in genere è risolto con un
invito ad estendere alle superiori – e recentemente anche all’Università -
certi compiti, certa didattica, salvo ovviamente affermare, se le cose comunque
non vanno, che la riforma è mal applicata.
Quel che è successo in Spagna ci conforta.
Non sono in grado di dire se la riforma ora proposta
in Spagna sia peggiore del male, cioè della riforma che noi stiamo adottando
ora, ma le critiche della Cgil sono confortanti: si rimettono in auge i
contenuti e la selezione, e, Dio ne scampi, si aumentano le ore di Filosofia.
Comunque un dato è certo: tutto il parlamento
Spagnolo riconosce il fallimento drammatico della riforma che noi vogliamo
imitare e persino in peggio...
Le
coordinate del processo di trasformazione ed il limite dell’utile
di
Serafina Gnech
Sono già stati toccati gli aspetti più salienti del processo di trasformazione in atto nella scuola ed i cui esiti, di certo non confortanti, sono già sotto gli occhi di tutti.
Io
vorrei, per quel che mi riguarda, fare un tentativo di analisi che getti luce
sullo sfondo, rilevi le coordinate del progetto e gli orizzonti di pensiero, a
mio avviso angusti, in cui esso si colloca.
L’intero
progetto si innesta su di una realtà sociale di disgregazione.
Abbiamo
da un lato la disgregazione di quel tessuto sociale che vedeva la presenza,
accanto alla scuola vera e propria, di una scuola “impropria”[1]
- alludo per esempio alla famiglia, a cui era tradizionalmente
affidata la socializzazione primaria, e alla chiesa; dall’altro una disgregazione
sociale più ampia, che tende a trasformare la società da comunità a
somma di individui. Fenomeno, questo - direbbe George Bataille[2]
- legato al trionfo dell’economia borghese, che fa dell’individuo il valore
supremo, e al modello capitalistico: sistema impersonale,
dotato di vita propria, che vive sul dispendio privato, ma è
caratterizzato da un’estrema indifferenza sia per l’interesse pubblico che
per l’interesse privato.
Alla
rottura del continuum spaziale si accompagna, all’interno del
processo che vede il predominio indiscusso della categoria dell’utile, la
disgregazione del continuum temporale, che tende a frantumarsi a fronte
di un presente impositivo,
violento, complesso, molteplice. Un presente che si consuma in fretta e che
non si sedimenta in passato carico di senso.
La
disgregazione che investe il piano etico è altrettanto evidente, come
evidente appare il legame fra individualismo,
relativismo assiologico e sacralizzazione delle opinioni o - se vogliamo, con
termine più in auge - liberalismo della neutralità[3].
Aggiungerei
a questo la disgregazione delle differenze, siano esse di età o di ruolo,
funzionale ad una società consumistica che può sopravvivere solo
espandendosi all’infinito e funzionale ad un impianto – e questo costituisce
un fenomeno storico di non scarsa rilevanza –
che riesce a coniugare massificazione consumistica ad egualitarismo di
matrice ideologica, evitando così di mettere in discussione le basi su cui si
regge la nostra società.
Come si sono posti gli artefici di questa
riforma di fronte a questi fenomeni che esplicitano una crisi di civiltà di
grandi proporzioni?
Vi hanno risposto con un senso di accettazione e di ineluttabilità, che sembra non voler porre alternative all’esistente. Vi hanno risposto con interventi riparatori, terapie - quando va bene - o addirittura con l’esaltazione di talune tendenze in atto.
Ed
entro ora subito nel merito delle coordinate della riforma.
Parlavo
prima di una sorta di disgregazione sociale, che vede la famiglia e la
comunità incapaci di contribuire al fatto educativo e di operare sul piano
della socializzazione.
A
fronte di questo fenomeno viene dato alla scuola l’intero carico di ciò
che non può essere assunto da altri. Carico impossibile da sostenere.
Carico che soprattutto non compete alla scuola, che deve restare luogo delle
conoscenze e della formazione, pena la sua stessa morte. Questa necessità di
trasformare la scuola in istituzione totale, trova ora una chiara esplicitazione
nell’anarchia di progetti, cioè nell’inversione fra normalità curriculare
ed attività integrative - che spesso ben poco hanno a che vedere con le finalità
della scuola – che caratterizza l’intero impianto del Riordino dei Cicli d’Istruzione.
Cammin
facendo, nel mentre si avviava nel
nostro paese il graduale passaggio dal sistema economico “renano” a quello
“anglo-americano”, che progressivamente subordinava la burocrazia statale
all’economia[4], la scuola si è venuta
sempre più trasformando da istituzione in servizio. Con la legge 59
sull’autonomia delle istituzioni scolastiche, conosciuta come legge Bassanini,
la scuola è stata lanciata nel
vortice della concorrenza di mercato ed “il tutto” che la scuola deve offrire è divenuto
“il tutto” che alla scuola può e deve essere richiesto, perché se
di servizio si tratta e se la logica è di mercato, il cliente ha diritto al
massimo dell’offerta.
Ma
la disgregazione non è connessa solo alla famiglia, alla chiesa o alla comunità: essa investe il tessuto sociale
in modo ben più ampio.
In
un recente studio Pierpaolo Donati [5]mette
in rilievo quanto sia calato nei
giovani il senso della generazionalità, che si definisce in base al legame
con le generazioni preesistenti ed
in base al senso dell’essere generazione che si raffronta alle
altre generazioni coesistenti (bambini, adulti, anziani) “nella
prospettiva di un tempo storico che scorre, e che porta le sue sfide per
tutti”[6].
Dallo studio emerge una realtà di
individui in crescita che si muovono in una realtà virtuale fuori dal tempo e
dallo spazio, realtà in cui vengono a mancare punti di riferimento[7]
ed in cui in cui il sentire emozionale orienta le scelte individuali.
Quale
la risposta insita nel riordino dei cicli?
Un
rafforzamento dell’individualismo narcisistico, un’esaltazione del diritto
alla scelta, basata sul
presupposto teorico che “la vita dei giovani è tanto migliore quanto più
ampie sono le possibilità di scegliere tra questo e quello, laddove nessuna di
tali scelte possa essere intesa come avente un valore ultimo, non negoziabile”[8].
Su questo assunto si basa l’intero impianto dei moduli e dei crediti[9],
configurato allo scopo di poter offrire possibilità di individuazione di
percorsi autonomi di studio che, lo si dà per scontato, proprio perché
autonomamente scelti e configurati e sempre reversibili, non possono che
generare soddisfazione e benessere.
Ad
una generazione giovanile, che non si connota più come generazione
“bruciata”, in continuo scontro con gli adulti, come negli anni ’50, né
come movimento collettivo che esprime un malessere sociale, come negli anni
’60, ma che si connota nello stile di consumo, la scuola della
riforma offre prodotti veloci, sostituibili, da gettare e promette quella
soddisfazione che si presume essere
legata ad essi e che si traduce nella promessa del successo formativo. Si
assicura il successo a scuola esattamente come si garantirebbe ad un calvo la
soluzione del problema della crescita dei capelli. L’allievo viene
così posto al centro del processo d’istruzione, non come soggetto da
educare ma come cliente da soddisfare.
Per
questa via e con queste scelte, sempre legate
al contingente ed alla soddisfazione di esso, il continuum temporale
si spezza e la scuola rinuncia alla sua storica specificità: la perenne
rifondazione della convivenza sociale che è possibile solo nella triplice
dimensione di memoria del passato, intelligenza cioè comprensione del presente
e progettualità esistenziale e sociale cioè costruzione responsabile della
società futura (Proposta per la riqualificazione culturale della scuola [10]).
Molte altre sono in realtà le conseguenze di un progetto che erge il paradigma della scelta a totem della nuova scuola.
Negando
alla giovinezza lo stato di un divenire (ed accettando quindi il processo
disgregativo che nega le differenze di età), che implica una tensione
relazionale fra le età precedenti e susseguenti della vita, sancendo
quella connotazione di condizione autoreferenzialità che la
giovinezza ha già assunto nel più ampio ambito sociale, gli adulti - e,
nello specifico, i docenti - perdono ogni identità, venendo ad assumere
quasi il ruolo di puri catalizzatori di un processo.
Va
da sé che cade la loro possibilità di porsi a giudici e che il giudizio non può
che trasformarsi in pura presa d’atto dello stato di un processo, processo che
essi sono chiamati unicamente ad accompagnare[11].
In
realtà ci troviamo oggi di fronte ad un fenomeno senza precedenti: il fatto che
non esista più una teoria dell’educazione in quanto tale. Scrive Maria Teresa
Moscato: “Per elaborare una paideia, comunque costruita, una società
storica deve supporre almeno l’educabilità dell’uomo. La riflessione
del mondo antico, e soprattutto della modernità, rispetto
all’educazione, si è concentrata sempre – e qualche volta aspramente – su
quale fosse la migliore educazione possibile per l’uomo... senza mai
mettere in dubbio che l’educazione preesistesse alla riflessione pedagogica. O
che essa fosse – in ogni caso – possibile, ragionevole e quindi eticamente
lecita”[12].
In
questo vuoto, l’unica legittimazione che la scuola possa darsi è quella che
conduce il suo operare
all’interno della categoria dell’utile. Una scuola per l’impresa
dunque, per i mestieri e le professioni, una scuola che sviluppi competenze ed
abilità, quali il mercato richiede.
E poiché il mercato, checché se ne dica, non richiede ora competenze medie di alto livello a che servono Einstein o Montale, a che pro pretendere l’acquisizione di conoscenze o l’elaborazione concettuale: meglio un buon catechismo.
Ed
è su questo piano che si realizza la composizione dei contrari, perché la
scuola “berlingueriana” assume tinte “berlusconiane” e se non si attua
un progetto educativo, si attua un indefinito quanto indefinibile progetto
secondario (economico? politico?) che solo pochi anni fa sarebbe stato ritenuto
impensabile.
***
Ritengo che questa riforma, che nasce dal vuoto culturale e che, maldestramente clonando il fallimentare modello anglosassone, si basa sull’accettazione e l’esasperazione dell’esistente, non possa dare una risposta ai grossi problemi posti da una società sempre più complessa e mutevole.
Essa
ci pone di fronte ad un interrogativo che dalla scuola ci riporta al più ampio
contesto storico sociale del nostro tempo.
Di
fronte alla crisi della cultura disinteressata, ci chiediamo,
come Edmund Husserl, se non ci troviamo di fronte alla crisi più generale
dell’umanità europea e della sua identità spirituale che si
estendeva, per Husserl, anche al di là dell’Europa geografica, fino
all’America. Questa identità spirituale, nata con la filosofia greca classica
ha sempre inteso il mondo come “una questione da risolvere”[13].
E lo interrogava “non per soddisfare questo o quel bisogno pratico, ma perché
l’umanità era pervasa dalla passione del conoscere”[14].
Il
volto chinato di fronte al mito della produzione, quella “gigantesca
elaborazione secondaria che allucina in termini razionali la predisposizione
dell’uomo alla trasformazione del mondo”[15],
l’uomo che Descartes aveva eletto a “signore e padrone della natura”,
imbocca il buio tunnel dell’ “oblio dell’essere”, divenendo così “una semplice cosa per le forze (della tecnica, della
politica, della Storia) che lo superano, lo travalicano, lo possiedono”[16].
Inizia
la sua umiliante vita da talpa, mal
rischiarata dalla luce artificiale della morale utilitaria. Ed è così, ci dice
George Bataille, che “il cielo si richiude su di lui” ed “egli disconosce
la poesia, la gloria, e il sole ai suoi occhi è solo una fonte di calore”[17].
E’
la paura della cecità che ha ispirato il nostro Convegno.
E’
“IL LIMITE DELL’UTILE”.
[1] “La ‘scuola impropria’,come la chiamò Michelangelo Pira (1978), e cioè la trasmissione di saperi e saper fare svolgentesi entro la ‘bottega familiare’ e attraverso l’iniziazione religiosa e le chiese – la scuola impropria per tremila e più anni, da quando esistono e dove sono esistite istituzioni scolastiche, ne ha fiancheggiato l’attività formativa, integrandola e talora supplendovi.”(Nicola Rossi, L’istruzione in Italia: solo un pezzo di carta?, Il Mulino 1997, pag. 484).
[2] “... Bataille riconobbe in tutto il mondo moderno una sorta di fatale cecità legata al predominio indiscusso della categoria dell’utile, a cui tutto viene subordinato, oscurando così la necessità del superfluo: il che non può non avere vaste conseguenze, per lo più deleterie, su tutta l’intelaiatura della nostra vita.” (Felice Ciro Papparo, postfazione a George Bataille, Il limite dell’utile, Adelphi 2000).
[3] Vedi, a questo proposito, oltre ad Allan Bloom, La chiusura della mente americana, anche Charles Taylor, Il disagio della modernità, Laterza 1999.
[4] Il modello economico “renano” (a lungo applicato in Francia, Germania, Olanda, Italia, Giappone, Scandinavia e Israele) è – secondo la definizione del banchiere francese Michel Albert - quello in cui “l’apparato assistenziale dello stato fornisce una rete di sicurezza relativamente fitta nel campo delle pensioni, dell’educazione e della sanità”, mentre quello “angloamericano” lascia più spazio al capitalismo del libero mercato in tutti i settori e quindi allenta “la rete di sicurezza fornita dall’ambito pubblico.” (Richard Sennet, L’uomo flessibile, Feltrinelli 2000, pagg. 51-52).
[5] Pierpaolo Donati e Ivo Colozzi, Giovani e generazioni. Quando si cresce in una società eticamente neutra, Il Mulino 1997.
[6] Ibidem, pag. 12.
[7] La mancanza di punti di riferimento, collegata alla crisi dell’autorità, è stata recentemente stigmatizzata da Giuliana Ukman, nel suo saggio Se mi vuoi bene, dimmi di no, Franco Angeli 2000. L’autrice descrive come un incubo la vita di un giovane al quale non siano dati dei “no” positivi. Egli si aggira come un uomo in una stanza buia, nella quale non ci sia alcun punto a cui aggrapparsi: non un muro, non una porta: solo il nulla. “Se siete riusciti ad entrare emotivamente in questo stato d’animo, potete capire perfettamente la situazione psicologica di un bambino che venga allevato senza regole, ossia senza scontrarsi mai con dei muri che gli permettano di costruirsi un adeguato senso di orientamento per muoversi nella vita. Potete capire la sua angoscia, la sua insaziabilità... Chiedere, chiedere, chiedere sempre di più, a volte chiedere le cose più strane, rappresenta, per restare nell’esempio del sogno, il correre per trovare un punto di riferimento” (pagg. 66-67).
[8] Pierpaolo Donati e Ivo Colozzi, op. cit., p. 33.
[9] Sui moduli e i crediti vedi l’articolo di Angela Martini, Crediti, moduli e competenze pubblicato in Punti Critici, Libri Liberi, n° 4, febbraio 2001.
[10] La “Proposta per la riqualificazione culturale della scuola” è stata elaborata dalla Fondazione Internazionale Nova Spes, il Centro Studi Gilda, l’Istituto per gli Studi Filosofici di Napoli e l’Associazione Prisma (vedi Sito Gilda: www, gildains. it).
[11] Il nuovo ruolo del docente catalizzatore di un processo è puntualmente teorizzato in un documento di lavoro della Commissione delle Comunità Europee: Memorandum sull’istruzione e la formazione permanente. Esso recita: “Il profilo professionale del docente cambierà sostanzialmente nei prossimi decenni: insegnanti e formatori diventeranno consulenti, tutori e mediatori. Il loro ruolo – un ruolo d’importanza cruciale – consisterà nell’assistere gli allievi che, per quanto possibile, dovranno farsi carico della loro formazione. La capacità di definire e mettere in pratica metodi aperti e partecipativi d’insegnamento e di apprendimento dovrà essere una delle competenze professionali di base di insegnanti e formatori, sia nel quadro dell’apprendimento formale che di quello non formale. Un apprendimento attivo presuppone la volontà di apprendere, la capacità di emettere giudizi critici e sapere come apprendere. Il ruolo insostituibile dell’insegnante consiste nell’istruire questa capacità dell’essere umano di creare e utilizzare il sapere”.
[12] Per una rifondazione pedagogica della scuola, in Il bene cultura. Il male scuola. A cura di Luciana Lepri, Armando Editore 1999, pag. 77.
[13] Citato da Milan Kundera, L’arte del romanzo, Adelphi 1995, p. 15.
[14] Ibidem.
[15] J. Baudrillard, Le miroir de la production, Galilée, Parigi 1975.
[16] Milan Kundera, op. cit., pag. 16.
[17] Georges Bataille, op. cit., pag. 26.
di Angela
Martini
Il varo or ora avvenuto dei curricoli della scuola
di base e la prevista uscita, sebbene
rinviata - sembra - di un anno - di quelli della scuola secondaria,
focalizzando su di sé l'attenzione dei commentatori, degli addetti ai lavori e
dell'opinione pubblica in generale, rischia di far passare in secondo piano il
quadro complessivo delle politiche scolastiche che, a partire circa dalla metà
degli anni '80, sono state poste in atto dai governi di vari paesi dell'area
OCSE - fra cui l'Italia - e al cui interno anche la riforma dei cicli e dei
curricoli si collocano e traggono significato. Tali politiche mostrano alcune
caratteristiche analogie, sebbene la diversità - di tradizioni storiche e
istituzionali e di condizioni reali - dei contesti in cui sono calate ne
rendano di fatto differenti l'impatto e i processi di concreta realizzazione.
I principali tratti distintivi che esse manifestano
- e che non necessariamente si ritrovano tutti contemporaneamente presenti nei
singoli casi - sono sommariamente così individuabili:
1)una ridistribuzione delle competenze decisionali fra
i vari livelli di governo del sistema scolastico, in direzione di un aumento
dei poteri sia degli Enti locali sia dell'autonomia delle scuole, ma talvolta
anche in direzione opposta: mentre paesi a forte e antica tradizione di
accentramento amministrativo (come la Francia) hanno adottato provvedimenti di
decentralizzazione, paesi con un sistema scolastico da sempre fortemente
decentrato (come l'Inghilterra) hanno indebolito il potere delle LEAs (Local Education Authorities)[5]
e rafforzato i controlli a livello centrale (introduzione di un national curriculum, sistema di assessment dell'apprendimento degli
alunni nella fascia dell'obbligo e di ispezione periodica delle scuole). In
generale, comunque, si può dire che mentre i compiti di gestione diretta tendono
ad essere affidati alla periferia del sistema, il centro conserva o si
attribuisce ex novo poche, ma spesso cruciali, competenze in materia di
indirizzo e di controllo, in genere esercitate attraverso Agenzie specializzate
o Organismi indipendenti (ad esempio, in Olanda, il CITO - Istituto Nazionale
per la misurazione del profitto - e lo
SLO - Istituto per lo sviluppo del curricolo).
2)Una modificazione delle "tecniche di
governo" del sistema scolastico, che sempre più si deburocratizzano,
superando le modalità di regolamentazione per via di prescrizioni normative e
focalizzandosi sui risultati conseguiti in termini di efficacia ed efficienza.
Il governo del sistema, in altre parole, tende a divire un governo “a
distanza”, che si esercita attraverso la la valutazione degli esiti cui i
processi scolastici mettono capo (instaurando in alcuni casi un vero e proprio
sistema di accountability degli
istituti scolastici)
3)La tendenza ad espandere le possibilità di scelta
dell'istituto da parte delle famiglie - all'interno di sistemi integrati
pubblico-privato ma anche al di fuori del settore pubblico - e ad introdurre
meccanismi di finanziamento delle scuole basati sul numero di iscritti secondo
il principio del “denaro che segue l’alunno”, fino alla instaurazione di veri e
propri sistemi di "quasi-mercato" nella fornitura del servizio
scolastico[6].
4)Un potenziamento del ruolo dei capi d’istituto e/o
degli organismi di gestione locale delle scuole sulla base del criterio del site-based/school-based management.
5)La relativa assenza dei docenti dal luogo centrale
della scena del riformismo scolastico, occupato da altri protagonisti
(amministratori a diverso livello, esperti e consulenti vari, funzionari
ministeriali, ecc.).
6)Da ultimo, per completare l'elenco, si potrebbe
aggiungere che un’altra caratteristica che accomuna le politiche in questione è
la loro relativa indipendenza dalle maggioranze di volta in volta al governo in
questo o quel paese. Un caso eclatante da questo punto di vista è la Svezia, paese
a tradizione socialdemocratica, nel quale alcuni dei provvedimenti sopra
esaminati sono stati introdotti inizialmente da maggioranze conservatrici
(tornate al potere per la prima volta nel 1976 dopo una lunghissima assenza) ma
sono poi stati sostanzialmente conservati e sviluppati dai governi di
centro-sinistra, che si sono da allora alternati con quelli di centro-destra.
Altrettanto dicasi per il Regno Unito, dove la riforma scolastica inizialmente
voluta e attuata con l'Education Refom Act del 1988 dal governo di Margaret
Thatcher è stata poi mantenuta nelle sue linee essenziali dal laburista Tony
Blair.
Ciascuno dei punti su elencati meriterebbe - per
poterne chiarire implicazioni e conseguenze osservate e ipotizzabili -
un'analisi che da sola impegnerebbe il tempo assegnatomi per questo intervento.
Mi limito perciò a soffermarmi, e in forma comunque parziale, su due di essi.
Il primo punto su cui vorrei fermarmi è costituito
dalla spinta alla decentralizzazione del controllo sulle scuole. La rivendicazione
per gli istituti di un maggior potere decisionale è un leit-motiv costante delle recenti politiche dell'istruzione, che
risuona trasversalmente a tutti i paesi interessati, ma i processi cui dà luogo
assumono una fisionomia e un'accelerazione diversi a seconda del paese e
dell'area, in particolare per quanto riguarda l'Europa del Nord e l'Europa
centro-meridionale.
Tuttavia, al di là di ciò, comuni sono le
argomentazioni con cui viene giustificata l'attribuzione di maggiori spazi di
autogoverno alle scuole: in una realtà complessa e in rapido cambiamento come
quella in cui viviamo, la qualità dell’istruzione e la responsabilizzazione
degli istituti per i risultati che ottengono aumenta - si afferma - se chi decide è direttamente coinvolto nelle decisioni
adottate e se le decisioni sono prese là dove il servizio scolastico è erogato,
cosa che permetterebbe di adeguare
meglio l'offerta formativa alle esigenze e ai bisogni locali.
L'attendibilità delle aspettative connesse
all'autonomia passa ovviamente, in primo luogo, attraverso la verifica del
reale grado di potere decisionale accordato alle scuole e, in secondo luogo,
attraverso il controllo empirico dell’esistenza di un effettivo legame tra
autonomia da un lato e aumento dell’efficienza gestionale e della qualità
dell’istruzione - misurata dai risultati cui essa mette capo - dall'altro lato.
Per quanto riguarda il primo aspetto, l’OCSE ha
condotto a tre riprese (1991/92, 1992/93 1997/98) un’indagine sulla
distribuzione delle competenze decisionali per valutare l'effettivo grado di
autonomia decisionale delle scuole in vari paesi sviluppati, utilizzando tre
categorie di analisi: 1)il livello a cui le decisioni sono assunte, 2) gli
ambiti di decisione e 3)le modalità di decisione.
L’ultima indagine condotta (cfr.: Bottani, 2000) ha
confermato la tendenza verso la decentralizzazione in gran parte del mondo
industriale avanzato, talché oggi in esso buona parte delle decisioni in tema
di istruzione sono prese a livelli diversi da quello centrale, più spesso tuttavia a quello degli Enti
locali intermedi che non delle singole scuole. Non è emerso in ogni caso alcun
rapporto tra struttura dello stato e livello di autonomia scolastica: in paesi
federalisti come gli Stati Uniti e la Svizzera il grado di autonomia
decisionale delle scuole è più basso di quanto non accada, ad esempio, in paesi
a tradizione di forte accentramento amministrativo, come la Francia. Fra tutti
i paesi, la Svezia appare quella che più ha innovato in questo campo, passando
da un sistema di governo ancora per molti aspetti centralizzato una ventina
d'anni fa alla situazione odierna, nella quale le scuole godono
comparativamente della più larga autonomia[7],
seguite a stretto giro di ruota da quelle inglesi.
Per quanto concerne il secondo aspetto - l'aumento
della qualità dell'istruzione che deriverebbe dall'autonomia - nessuna evidenza
empirica si ha al momento di un legame fra le due. A questo proposito, può
esser interessante, tuttavia, citare il caso della città di Chicago che ha assistito
dapprima ad un radicale trasferimento di poteri alle scuole con la legislazione
di riforma del 1988 e successivamente, di fronte agli esiti fallimentari, ad
una successiva ricentralizzazione nelle mani del sindaco Richard Daley a
partire dal 1995 (cfr.: Dorn, 2000).
Ma, mettendo ora da parte la questione dei poteri di
decisione affidati alle scuole nell'ambito delle politiche di autonomia e degli
effetti reali di queste ultime, un tentativo di lettura che vada oltre le
giustificazioni ufficiali ci suggerisce che esse possono esser considerate
anche come un abile modo per scaricare alla periferia conflitti di natura
politica e sociale che non si ha il coraggio, la volontà o la capacità di
affrontare in maniera esplicita nelle sedi dove andrebbero affrontati. In un
recente libro, che esamina estesamente le politiche scolastiche di "devolution and choice" in 5 stati
(Australia, Nuova Zelanda, Stati Uniti, Gran Bretagna e Svezia), si legge
questo passo che desidero citare per esteso (Whitty et al., 1998, p. 44):
«La devoluzione può esser vista come una abdicazione
di responsabilità da parte dello stato, 'un deliberato processo di inganno,
distorsione, occultamento e intenzionale abbandono con cui lo stato cerca di
sfuggire, in un modo abbastanza privo di dignità, alla sua storica
responsabilità di garantire la qualità dell'istruzione pubblica', o come una
ritirata selettiva da aree in cui ha difficoltà ad ottenere risultati, come
l'eguaglianza di opportunità. In un modo o nell'altro, il rendere le decisioni in
tema d'istruzione una responsabilità delle singole istituzioni scolastiche e
delle famiglie è una strategia efficace per 'shifting the blame' (spostare la colpa). Il fallimento delle
singole scuole nel fiorire come istituzioni autonome può esser attribuito a
carenza della leadership o alla
qualità dell'insegnamento. Similmente, l'ineguaglianza di risultati educativi
fra gli alunni può essere spiegata con le carenze e l'incapacità della famiglia
o di esercitare efficacemente il nuovo diritto di scelta, o di impegnarsi con
le scuole come partners attivi e partecipi. L'onere di sostenere un'ideologia
meritocratica è così scaricato dalle spalle di chi governa».
Il secondo punto su cui mi vorrei soffermare - il
terzo dell'elenco - concerne la tendenza ad espandere la possibilità di scelta
della scuola come strumento per accrescere la qualità dell'istruzione per tutti, in un regime di aperta concorrenza fra gli istituti. Questa
ricetta, applicata in Gran Bretagna, ha prodotto non la scomparsa delle
"cattive scuole" per lasciare spazio solo alle "buone", e
nemmeno un complessivo incremento degli standard formativi degli alunni, come
era nelle intenzioni dichiarate dai fautori, ma piuttosto un aumento della
differenziazione sociale tra gli istituti per effetto dell'instaurarsi di forme
surrettizie di reclutamento selettivo degli allievi e, alla fine, anziché
l'auspicata diversità orizzontale delle opzioni pedagogiche e didattiche, un
rafforzamento delle esistenti gerarchie. Come gli autori del libro prima citato
osservano, le politiche scolastiche sopra descritte hanno condotto «ad una
situazione in cui le scuole 'di successo' vanno consolidando la loro posizione
di mercato attraverso processi di scrematura (cream-skimming) delle richieste di iscrizione» (Whitty et al., p.
105), mentre nello stesso tempo «per la maggior parte dei membri dei gruppi
svantaggiati, in contrasto coi pochi che riescono a evadere dalle scuole al
fondo della gerarchia, i nuovi ordinamenti sembrano essere una maniera più
sofisticata di riprodurre le tradizionali distinzioni tra differenti tipi di
scuola e tra le persone che le frequentano» (ibidem, p. 42).
Vorrei concludere il mio intervento sottolineando
alcune peculiarità che, in un panorama internazionale percorso da linee di
tendenza, come si è detto, per molti versi omologhe, contraddistinguono la
situazione del nostro paese in questo frangente storico:
in primo luogo, l'estrema ambiguità e incoerenza che
caratterizza nella fase attuale le politiche di ordinamento e l'intero quadro
delle riforme dell'istruzione, dalla scuola all'Università. Di tale incoerenza,
che rasenta talvolta la schizofrenia, minacciando la tenuta del sistema e la
sua capacità di produrre un qualsiasi risultato che non sia la riproduzione in
forma via via più allargata delle proprie contraddizioni, si potrebbero citare
esempi molteplici ma mi limiterò ad accennare a due soltanto:
mentre si avvia una riforma della scuola secondaria
che l'avvicina ad un modello comprensivo di tipo anglosassone, si tralascia di importare
il sistema di selezione nell'accesso all'Università - tanto più rigoroso quanto
maggiore è il prestigio accademico dell'istituzione - che di quel modello è
parte integrante.
Analogamente, mentre si introduce un sistema di
crediti e certificazioni (sorvolo, per carità di patria, sui debiti formativi
che non esistono in nessun paese del mondo), se ne prospetta una gestione in
forma "burocratizzata" e si continua a mantenere il valore legale dei
titoli di studio.
La seconda peculiarità che ci distingue è l'assenza
di un'analisi e di un dibattito serio -
presenti invece altrove - sul senso e sulle poste in gioco delle politiche di
trasformazione in atto. Riprendendo il titolo del libro di un economista francese,
Jean Paul Fitoussi, si potrebbe dire che se c'è oggi in Italia un
"dibattito proibito" questo è il dibattito sulla scuola. I tentativi
intrapresi da qualche intellettuale per aprirne uno e variamente ripresi dalla
stampa nazionale o sono stati lasciati cadere nel vuoto o sono stati rapidamente
ridotti ai loro termini più banali (si pensi al caso recente della polemica sul
7 in condotta inaugurata da Mario Pirani su Repubblica).
In particolare, sembra mancare la volontà di una riflessione approfondita sui
nuovi problemi e le inedite difficoltà che solleva, nell'epoca della
globalizzazione, la crisi del welfare
e del ruolo dello stato nazionale (di cui i sistemi di istruzione di massa sono
stati ad un tempo mezzo e prodotto della sua compiuta realizzazione nel secolo
scorso) per quanto concerne gli scopi della scolarizzazione e la ricerca di un
punto d'equilibrio teso a conciliare la duplice, irrinunciabile esigenza di
perseguire sia l'eccellenza che l'equità nel sistema pubblico d'istruzione.
Solo la consapevolezza critica delle nuove contraddizioni, e talvolta degli
autentici paradossi, cui il mondo post-moderno ci pone di fronte, - ad esempio,
tra la libertà riconosciuta agli attori del sistema e l'obiettivo
dell'eguaglianza di opportunità - solo l'abbandono di ogni trionfalismo e di
ogni retorica delle riforme, assieme al sentimento della responsabilità
collettiva, potrebbero sostenerci sulla impervia strada della individuazione di
nuove risposte.
La riforma della scuola richiede che siano
affrontate le più fondamentali questioni del senso e del significato
dell'educazione e del rapporto tra l'istituzione scolastica e la società nel
suo complesso. Quale tipo di società vogliamo? Quale educazione dobbiamo
proporre agli studenti per una società che intenda proseguire sulla via di uno
sviluppo democratico? E infine, quali condizioni sono necessarie perché una
tale educazione sia resa possibile?
Riferimenti bibliografici
Bottani, N. (2000), Autonomy and decentralisation: between hopes and illusions. A comparative study of reforms in five European countries, relazione al congresso annuale AERA 2000, New Orleans, 24-28 Aprile
Dorn S.
(2000), "America Y2K: the obsolescence of reform", Education Policy Analysis Archives, vol.
8, n. 2, gennaio 2000
Somaini E. (1997), Scuola e mercato, Roma: Donzelli
Whitty G.,
Power S., Halpin D. (1998), Devolution
and choice in education. The school, the State and the market, Melbourne:
ACER Press
[1] In realtà anche la frequenza sta diventando aleatoria a fronte della caduta di ogni meccanismo selettivo e con l’indebolimento delle regole disciplinari.
[2] Notevole per analogia è considerare l’esperienza sovietica degli anni 20 . Poco dopo avere preso il potere il regime sovietico decise di rivoluzionare l’istruzione elementare e secondaria. “Venne creata una rete uniforme di scuole professionali unificate con lo stesso programma , inferiore per i bambini dagli otto ai tredici anni , e superiore, per i ragazzi dai quattordici ai diciassette anni. Mentre nel vecchio sistema uno studente aveva bisogno del diploma di un certo tipo di scuola secondaria per essere ammesso alle diverse facoltà universitarie , da quel momento in poi ci sarebbe stata solo una “scala” che portava dall’asilo all’università ….Nelle nuove scuole l’autorità del corpo insegnante era drasticamente ridotta …La qualifica fu trasformata da “maestri (ucitel) in “lavoratori scolastici …e fu vietato loro di punire gli allievi, di sottoporli a verifiche, di assegnare compiti a casa o di dare voti .
I progressi degli studenti dovevano essere valutati da un collettivo . L’amministrazione scolastica era demandata a comitati in cui i “lavoratori scolastici” condividevano l’autorità con gli allievi più grandi e con operai delle fabbriche vicine.
Lunacarskij , che ammirarva la filosofia pedagogica di John Dewey voleva che gli allievi “imparassero facendo”.
Era convinto che unendo lavoro e gioco avrebbe esercitato un’attrazione irresistibile sui giovani.
In sostanza cercò di attuare su vasta scala i principi della pedagogia progressista occidentale , come la “scuola attiva di Dewey , il “sistema Dalton” inglese, e i metodo Montessori, che in occidente erano applicati solo ad istituti sperimentali…..”. L’effetto fu molto lontano dalle intenzioni.
Gli insegnanti ,pagati miseramente” non avevano la minima idea di che cosa si volesse da loro”.
La Krupskaia scriveva ad un’amica “ le cose vanno male …Le scuole professionali unificate producono realmente solo assurdità …” . Quello che si rileva in quella lontana esperienza è il contrasto tra intenzioni e realtà.
“ Da altri documenti emerge che presero piede soltanto le innovazioni intese a minare gli standard minimi di istruzione e l’autorità degli insegnanti”. Vedasi R.Pipes, Il regime bolscevico, Mondatori 2000 pp.366-369.
[3] Certo il senso di vuoto si lega anche a un altro fenomeno e cioè alla perdita di un legame tra ascesa sociale e esito degli studi. I problemi della società di massa e di scuola di massa hanno il loro prevedibile impatto.
[4] Su questo sta per uscire sulla rivista Punti critici un ottimo articolo della Preside Angela Martini.
[5] Fra i provvedimenti introdotti dall'Education Reform Act del 1988 vi è stata la possibilità per le scuole prima dipendenti dalle LEA o di gestire direttamente la maggior parte dei fondi in base al numero di iscritti (Local School Management) addirittura di "opt out", vale a dire di uscire dal controllo delle LEA e ricevere direttamente fondi dal governo centrale, divenendo GSM (grant-maintained-schools)
[6] Ricordo che secondo Somaini (1997), il quale teorizza l'opportunità di creare un sistema di tal genere nel settore dell'istruzione, tra le principali caratteristiche che lo contraddistinguono vi sono: a)la separazione tra il soggetto finanziatore del servizio e il soggetto (o i soggetti) erogatore; b)la possibilità per gli utenti di scegliere liberamente la scuola, statale o privata, dove iscrivere i propri figli; b)l'autonomia delle scuole nel definire la propria offerta formativa; c)meccanismi di allocazione delle risorse finanziarie agli istituti collegati alle scelte degli utenti; d)rapporti di concorrenza tra le scuole.
[7] Fatto 100 il totale delle decisioni prese ad ogni livello di governo del sistema scolastico, da quello centrale a quello più periferico, il 66% delle decisioni sono oggi prese a livello d'istituto in Svezia (OECD, 1998, citato in: Bottani, 2000)
Curriculi e libertà d’ insegnamento nella Scuola dell’ autonomia.
di
Renza Bertuzzi
Della
legge 59 / 1997, nota anche come legge Bassanini
, molto si è detto in positivo e in negativo.
Come
è noto, si tratta della legge che ha conferito delega al Governo per l’
attribuzione di funzioni e compiti
amministrativi alle Regioni ed agli enti locali. Una riforma della pubblica amministrazione, con l’ obiettivo di
decentrare, semplificare i procedimenti
amministrativi e i rapporti tra amministrazione e cittadini , introdurre
efficacia ed efficienza, cooperazione ed altro.
Il
sistema scolastico entra in questa svolta, che possiamo indubbiamente
considerare ‘epocale’. L’ articolo 21 della legge in questione , composto
di ben 21 commi, disegna la fisionomia di un nuovo sistema scolastico , nel
quale le funzioni dell’ Amministrazione centrale e periferica della pubblica
istruzione in materia del servizio di istruzione ( esclusi alcuni elementi
comuni , ancora definiti dalla Stato ) sono progressivamente attribuite alle
istituzioni scolastiche. ( L.59 / ’97 , art.21,
comma 1).
Questo
articolo indica norme generali che sono state, poi, delegate con
disposizioni diverse ( D.lgs 6
Marzo 1988, n. 59, sulla dirigenza ai capi d’ istituto ; D.P.R. 18 Giugno
1998, n. 233 , sul dimensionamento ottimale delle istituzioni scolastiche;
D.P.R. 8 Marzo 1999, n. 275 , sull' autonomia delle istituzioni scolastiche ) .
Il
Riordino dei Cicli scolastici ( L. 10 Febbraio 2000, n. 30 )
non rientra negli atti obbligati della legge 59, nel senso che avrebbe
potuto esservi autonomia senza modifica del sistema d’ istruzione.
La
scelta di trasformare gli storici
tre cicli dell’ istruzione in soli due contempla la necessità di riformulare
i contenuti . Ma, questa operazione avrebbe dovuto rapportarsi all’
autonomia, alle sue norme, al suo ‘ spirito’.
Il
primo atto concreto che raccorda i
nuovi cicli con l’ autonomia è stata la
definizione dei Curriculi .
Allo
Stato non spetta più la stesura dei Programmi, ma solamente la definizione
degli ‘obiettivi generali del processo formativo’ e degli
‘obiettivi specifici di apprendimento’ ( D.P.R. 275 / ’99, art. 8 ) .
Anzi,
il concetto di ‘ programma’ è stato considerato impositivo e limitativo
della progettualità degli insegnanti . Un ‘ feticcio’ da cui liberarsi, ha
dichiarato più volte il ministro De Mauro.
Per
questo i nuovi curriculi ( per ora solamente quelli relativi alla scuola di base
) dovrebbero corrispondere alle
disposizioni che lo Stato medesimo si è dato.
Se
ciò sia avvenuto, ognuno lo potrà constatare , verificando i punti
fondamentali del testo sui nuovi curriculi, ormai diffuso e completo, senza che
i docenti siano stati consultati.
Nella
quantità non indifferente di leggi e decreti che l’ autonomia ha introdotto,
alcuni sono fondamentali per il
problema dei curriculi e del ruolo degli insegnanti in questo ambito, di
assoluta e indubbia pertinenza della professionalità docente. Si tratta della
legge 59/ 97 ( in modo particolare, il comma 9 dell’ art. 21 ) , del D.P.R.
275 dell’ 8 Marzo 1999, del Decreto n. 234 del 26 giugno 2000.
Sulla
base di quest norme, cercheremo di definire :
a)
Che cosa sono e chi ha il compito di fissare i curriculi nazionali.
b)
Che cosa sono, quali caratteristiche devono avere i curriculi locali (
ovvero la quota locale del 15% ,
del 20 % e anche del 40% che dovranno gestire le scuole )
Il
D.P.R n. 275 dell’ 8 Marzo 1999, che dètta il Regolamento recante
norme in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche, ai sensi
dell’ art. 21 della legge 15 Marzo 1997, n. 59,
è il testo base che precisa
le condizioni di esercizio effettivo dell’ autonomia, tracciandone il progetto
culturale e organizzativo.
L’
articolo 8 di questo D.P.R
attribuisce al Ministero della Pubblica Istruzione , tra le altre, la facoltà
di definire :
a)
gli obiettivi generali del processo formativo;
b)
gli obiettivi specifici di apprendimento relativi alle competenze degli
alunni;
c)
le discipline e le attività costituenti la quota nazionale dei curriculi
e il relativo monte ore annuale.
Obiettivi
generali sono, per esempio, ‘
la crescita e la valorizzazione della persona umana’, ‘ l’ elevazione del
livello di educazione di ciascun cittadino’.( 1)
Questi
obiettivi possono essere , come si dice con un brutto termine ‘
operazionalizzati’ , ovvero, definiti in termini , per così dire,
osservabili e misurabili . E potremo così avere l’ obiettivo ‘ far
giungere al diploma secondario almeno l’ 80 % di ogni classe di età, almeno a
partire dal 2010’.
Gli obiettivi specifici di apprendimento sono
relativi ai singoli ambiti disciplinari ( la parola ‘ disciplina’, come è
noto’ è ormai interdetta ). Esempio
di obiettivo specifico di apprendimento, può essere la ‘ conoscenza del
romanzo di formazione da Goethe a Kafka, passando almeno per Stendhal, Balzac,
Flaubert, Dickens ecc…’
Il ministero, dunque, dopo aver precisato ‘ la
discipline e le attività costituenti la quota nazionale dei curriculi e il
relativo monte ore annuale’ ( art. 8, comma 1, punto c
del già citato D.P.R..) non ha più il compito di stendere ‘
programmi’ , pieni dell’ indicazione dei contenuti e perfino dei modi
necessari per impadronirsene. Questo è ormai un compito
interamente devoluto alla professionalità dei docenti e all’ autonomia di
ricerca e di sviluppo della scuola,
come dichiara il comma 9 della Legge 59 , 15 Marzo 1997.
E’
, questo, un passaggio delicato , importante, e, forse, poco acquisito.
Secondo questo comma, si intende per ‘ autonomia
didattica’ la ‘ scelta libera e programmata di metodologie, strumenti, …da
adottare nel rispetto della possibile pluralità di opzioni metodologiche.’ In
pratica, il discorso sul metodo, cuore della ‘ libertà d’ insegnamento’,
sancita dalla Costituzione, viene qui riconfermato nella sua natura di scelta
professionale.
I curriculi nazionali non devono ( o non dovrebbero ) indicare né contenuti, né ,
tantomeno, metodi privilegiati da adottare.
Superata la fase che spetta
al Ministero, le singole scuole devono intervenire sia nella quota nazionale,
che nella quota locale.
In sostanza, spetta alle scuole, alla professionalità
dei docenti, trasformare
gli obiettivi specifici di apprendimento, in obiettivi formativi e
competenze.
Infatti, secondo la letteratura consolidata che si
occupa di queste categorie, obiettivi formativi e competenze
si riferiscono a studenti concreti , in classi concrete
e, per questo, - è bene ribadirlo- sono prerogativa esclusiva della
professionalità dei docenti.
Anche qui, il D.P.R 275 non si presta a dubbi. L’
art. 8, comma 2 assegna alle istituzioni scolastiche la facoltà di ‘
determinare , nel Piano dell’ offerta formativa il curriculo obbligatorio per
i propri alunni in modo da integrare, a norma del comma 1, la quota definita a
livello nazionale con la quota loro riservata che comprende le discipline e le
attività da esse liberamente scelte’. Mentre
l’ articolo 16, comma 3 riconosce che
‘i docenti hanno il compito e la responsabilità della
progettazione e dell’ attuazione del processo di insegnamento e di
apprendimento’. Il
decreto del Ministro della P. I. n. 234 , 26 Giugno 2000 ( Regolamento recante
norme in materia di curriculi nell’ autonomia) , conferma l’ impostazione
all’ art. 2 …’ ciascuna
istituzione scolastica può organizzare, in sede di P.O.F., i propri percorsi
didattici secondo modalità fondate su obiettivi formativi specifici di
apprendimento e competenze’.
Per riprendere l’ esempio che avevamo indicato
prima sul ‘ romanzo di formazione’ , sarà
responsabilità della scuola , e quindi dei docenti, non solo declinare
l’ obiettivo specifico di apprendimento in obiettivo adeguato alle
classi e agli allievi che si hanno di fronte, ma soprattutto decidere, di volta
in volta, quali autori affrontare il primo piuttosto che l’ ultimo anno del
triennio; se con pagine antologiche e /o con romanzi integrali ; con quale
metodologia critica affrontarli
( per
estremizzare, alla Croce o alla De Saussure ?).
La quota locale
del curriculo, che può variare da un 25% per la scuola di base , fino ad un 40 % per il triennio della
scuola superiore, si intende in relazione al monte ore annuale delle singole
discipline.
L’ impiego di questa quota è assegnato alle
istituzioni scolastiche, che dovranno inserire i curriculi nel P.O.F.
In sostanza, si potrà confermare l’ attuale
assetto ordinamentale ( cioé lasciare a ogni disciplina il suo monte ore ) ,
oppure, realizzare compensazioni tra le discipline o / introdurre nuove
discipline ( ovvero, prelevare ore
da una disciplina per rinforzarne un’ altra o per introdurne una nuova )
.
Il provvedimento, non facile e non incruento, sarà
responsabilità del Collegio dei docenti e non di altri , e farà parte del
P.O.F.
Forse è bene ricordare che il Piano dell’ Offerta formativa
deve comprendere e riconoscere ‘ le diverse opzioni metodologiche,
anche di gruppi minoritari, e ( deve) valorizza(re)
le corrispondenti professionalità’ ( D.P.R., 275, art.3, comma 2 ) .
L’ autonomia, nelle sue norme e nel suo spirito,
non si tradisce. Né tradisce quella libertà d’ insegnamento , voluta dalla
Costituzione e intesa come
libertà da pressioni o intromissioni
da parte di altri soggetti, in primo luogo lo Stato, ma più concretamente le
autorità scolastiche, e che si sostanzia nella possibilità , per l’
insegnante, di esercitare la sua funzione in conformità alle proprie
convinzioni in ordine alle discipline che insegna, senza essere condizionato né
da una verità ufficiale alla quale adeguarsi, né da una dottrina, elaborata
in altra sede e elevata a dogma,da riferire agli studenti.
Tutto
bene , dunque ? Evidentemente no.
Infatti, ciò che darà corpo ai curriculi nazionali
e locali non saranno tanto le leggi, quanto certi
contenuti, che, abilmente diffusi, si mostreranno al docente non avveduto
come i soli contenuti , compatibili
con i nuovi curriculi e con l’ autonomia.
In sostanza, è già cominciato un grande processo
‘ culturale’ , che intende agire sulla mentalità dei docenti. Attraverso
canali, ‘ informativi’ e non
normativi, gli insegnanti verranno
‘ aggiornati’ sulle nuove epistemologie, che avrebbero rivoluzionato il
concetto di ‘ conoscenza’ , tradizionalmente inteso in senso ‘
disinteressato’ . Per cui, tutto ciò che si insegnerà a scuola dovrà avere
carattere di immediata utilità pratica ( e la filosofia, la letteratura, i
principi matematici e fisici…?)
Verranno, inoltre,
informati che le discipline dovranno
farsi da parte , per cedere il passo agli ‘ambiti
disciplinari’ , che si tradurranno solo ed esclusivamente nei ‘
progetti’ o nei moduli.
Parte di questa ‘ rivoluzione culturale’ è
divenuta anche obbligo. Prova ne
sia che le leggi, assumendo una
precisa terminologia pedagogica, impongono un’ unica epistemologia: non a
caso, viene imposta la pedagogia degli obiettivi ( D.P.R. 275 e Decreto n.234 )
e delle ‘competenze’, che richiedono il ‘saper fare’, contro il ‘
sapere’ .
Una scuola delle istruzioni, piuttosto che una scuola
del sapere critico.
Sarà possibile opporsi alla mutazione culturale che
sistematicamente sta avanzando?
Di certo vi è il fatto della ‘ lunga durata’
della mentalità . Non si cambiano, né
con i decreti legge, né con gli aggiornamenti di massa, modi di far scuola, radicati nella cultura docente.
Tuttavia, certi processi possono diventare
accelerati, se non si analizzano e
non si comprendono .
L’ autonomia è soprattutto una dimensione individuale. ‘Sul versante delle scienze giuridiche si sostiene che
questo concetto ha un’ origine filosofica ed è poi transitato nel campo del
diritto.
La
migliore definizione filosofica ci
è data da Kant con riferimento alla morale : l’ ‘ autonomia’ è correlata
alla libertà del soggetto di determinarsi .
Autonomia è il porre
a sé medesimo la propria legge . Il suo contrario è l’eteronomia,
ossia il far dipendere e determinare la volontà da qualcosa che è altro da
lei’ ( 2 ).
Per
questo, gli insegnanti, in quanto individui,
potranno e dovranno avere chiari
alcuni principi.
Che
‘i diritti si esercitano. Nei limiti
stabiliti dalla legge, certo. Di sicuro non si eseguono, tantomeno su ordine o commissione o analitica disposizione
di qualcuno. Nascono , invece, dall’ apprezzamento razionale, dalla libertà e
dalla responsabilità diretta di chi li possiede, sia esso soggetto individuale
o collettivo. Per dirla con il famosissimo saggio di Kant del 1874 sono il segno
tangibile <<dell’ uscita dallo stato di minorità>>, e mai si
possono lasciare <<calpestare impunemente da altri >>, salvo che,
sono sempre le forti parole kantiane, <<uno si faccia verme >>. (3).
Che
la collegialità d’ azione si deve nutrire di atti individuali , ‘con il
massimo di lontananza rispetto agli eventi di tipo burocratico.’( 4 ).
Per
questo, le associazioni, formate da
individui, potranno e dovranno
avere chiari gli stessi principi e dovranno cercare di contrastare il modello culturale imperante , ricordando
sempre che l’ individualità ( e
non l’ individualismo ) asseconda un
progetto che richiede di vivere e di insegnare
grazie a sé stessi, e non grazie
agli altri.
Renza Bertuzzi
1)
Traggo questo, come altri esempi e riflessioni , da G. Bertagna, S. Govi, M. Pavone, POF Autonomia delle scuole e offerta
formativa ,Editrice la Scuola, Brescia, 2001.
2)
A.A.
V.V., Autonomia ?, Edizioni Junior,Bergamo, 2000, pag. 86.
3)
G.
Bertagna, S. Govi, M. Pavone, POF Autonomia delle scuole e offerta formativa,
cit. , pag. 6 .
4)
M.
Falanga, Il regolamento dell’ autonomia scolastica. Lettura e commento,
Editrice La Scuola, Brescia,2001, pag. 5.
INSEGNAMENTO DELLA FISICA E TEATRO
DELL’ASSURDO
di Ledo Stefanini
Habent sua fata scholae : così la fisica scolastica. L’insegnamento della fisica nella scuola media superiore ha cominciato ad acquisire importanza dopo la seconda guerra mondiale. E’ stato dopo la scoperta della bomba che la professione di fisico si è caricata, nell’immaginario popolare e in quello ministeriale, di significati prima impensati. E la materia ha acquisito una collocazione privilegiata che la distingue dalle altre scienze naturali. Si cominciò allora a pensare che una buona formazione in fisica sia condizione necessaria per un’apprezzabile formazione culturale e uno degli accessi educativi più favorevoli ad una successiva formazione scientifica. Per rendersene conto basta studiare l’evoluzione dei manuali scolastici di fisica per i licei, cresciuti progressivamente e di numero e di mole e di complessità. Tuttavia, senza un intervento regolatore, un indirizzo da parte del Ministero della Pubblica Istruzione; spontaneamente, come una sorta di evento naturale, che obbedisce ad un principio di minima. Infatti, non vi è stato alcun intervento di rilievo sulla scuola secondaria da parte ministeriale, volto a indirizzare contenuti e metodi di insegnamento della fisica. [Con una notevole eccezione che risale all’inizio degli anni ‘70: il sostegno dato alla diffusione dell’americano corso P.S.S.C. Ma anche questa esperienza si esaurì dopo pochi anni, almeno come oggetto di provocazione e riferimento.]
In questo vuoto pedagogico ( dell’università e del Ministero) i contenuti e i metodi dell’insegnamento sono stati determinati dalle case editrici di manuali scolastici. Per rendersi conto della peculiarità del caso “fisica” nella scuola italiana è necessario tener presente che la fondazione culturale specifica della maggior parte degli insegnanti è costituita da due corsi di fisica seguiti nel primo biennio dell’università. Non si può a questo proposito non osservare che la new age pedagogica che è calata sulla scuola ( questa sì con l’appoggio ministeriale) dà per scontata la competenza disciplinare degli insegnanti. O, forse, semplicemente, la ritiene priva di importanza.
Questo aiuta a capire il ruolo determinante che il libro di testo viene ad assumere nell’insegnamento della fisica [ Almeno per gli insegnanti più responsabili, che si rifiutano di approfittare delle condizioni reali della scuola per rinunciare tout court all’insegnamento della fisica: è più frequente di quanto si creda]: é l’unico riferimento culturale. Perché un insegnante di lettere o storia o filosofia avrà la ventura di leggere un romanzo durante le ferie; ma un insegnante di fisica ? Eppure ha sotto gli occhi “questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi ( io dico l’universo) “. Ma il punto importante è proprio questo: che “ non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto”. Condizione di tutta evidenza; ma che sembra non condivisa da coloro che hanno fatto dell’innovazione scolastica una professione.
Riguardo alla professione del docente di fisica, si è affermato uno stile che è peculiare della nostra scuola, che si è diffuso proprio grazie alle sue caratteristiche di chiusura e provincialismo, favorito anche da gravi carenze culturali della nostra università. L’insegnante stanco ripetitore di formule, che identifica la fisica con il libro di testo [ che, ovviamente, desidera confezionato a sua immagine e somiglianza] che non è in grado di riconoscere nel mondo reale il mondo di carta che gli procura lo stipendio, questo tipo di insegnante è il risultato di decenni di cinica politica scolastica di cui il Paese verrà chiamato a pagare il prezzo.
Tra le agenzie educative che hanno contribuito a determinare questo profilo dell’insegnante vi è la scuola italiana, come si è storicamente determinata a partire dagli anni ‘70 [ E non per colpa del ‘68 che è un’altra leggenda metropolitana: l’evoluzione della scuola non è stata determinata dal folklore studentesco, ma da grigi funzionari di partito, ministeriali e sindacali]. Una struttura che è stata progressivamente allontanata dall’originaria funzione di trasmissione culturale per assumere quello, vago, di luogo di generica socializzazione. L’università italiana porta pesanti responsabilità, avendo troncato ogni via di comunicazione con la scuola, nella strana convinzione che per occuparsi di laser sia necessario essere un fisico; mentre chiunque sia in grado di svolgere una funzione formativa in fisica.[Solo negli ultimi tempi qualcuno - non il ministro - comincia a rendersi conto che il disastro della scuola secondaria ha pesanti conseguenze sull’efficacia dei corsi universitari]. In questa situazione già gravemente compromessa, su un corpo scolastico già in grave difficoltà , si sono fatti largo i “pedagogisti” portatori di un nuovo verbo: l’efficacia didattica non dipende dalla preparazione disciplinare; richiede semplicemente l’applicazione di precisi protocolli elaborati da studiosi della DIDATTICA su imperscrutabili basi scientifiche. Così l’insegnante viene, in un solo colpo, privato di due competenze: quella disciplinare - perché è irrilevante che chi insegna fisica sia un fisico [ il che non ha nulla a che vedere con il tipo di laurea] - e quella didattica - perché i modi della sua azione sono decisi altrove. La fragilità culturale e professionale degli insegnanti di fisica italiani è la prima ragione del successo - largamente favorito dal ministero - che sembra arridere alla gioiosa macchina da guerra dei pedagogisti all’italiana .Il fatto è che la fisica è difficile; più difficile ancora insegnarla. E per insegnarla non bisogna “saperla”: bisogna professarla. La scuola , in particolare la secondaria, è chiamata a due compiti. Il primo è di trasmettere una serie di conoscenze e di tecniche che si ritengono utili per inserirsi nel lavoro e/o affrontare studi di più alto livello. Il secondo, di livello superiore, è di trasmettere - o meglio, suscitare la crescita di - un atteggiamento mentale, un modo di porsi di fronte alla realtà fisica. Se parlassi di poesia tutto risulterebbe più chiaro: un conto sono le nozioni di storia letteraria, un altro la sensibilità di fronte alla poesia. Ma qualcosa di analogo si può dire anche per la fisica. E il fine dell’insegnamento non può - non dovrebbe - essere l’appropriazione del libro di testo, ma la maturazione di un atteggiamento culturale nei confronti del fenomeno. Atteggiamento che definirei “scientifico” se non temessi di indossare un mantello che, ultimamente, troppi utilizzano per confezionare i più svariati contenuti culturali, come si fa con i regali di Natale. [ Si pensi alla quantità di corsi di laurea istituiti ultimamente che si qualificano come scienze: del comportamento, ambientali, turistiche, della moda, della comunicazione, della formazione, ecc. Quando una parola si applica a tutto, significa che non significa più niente]. La trasmissione di questo abito mentale presuppone in primo luogo che ne sia portatore l’insegnante. Che questi non sia un divulgatore di divulgatori. E soprattutto, non è riducibile a moduli, che ultimamente vanno per la maggiore. L’insegnamento della fisica è una sorta di viaggio che l’insegnante intraprende ogni anno, nel ruolo di colui che conduce gli allievi che gli sono compagni nel viaggio. Mi dispiace che l’immagine appaia retorica: gran parte del disagio degli insegnanti di fisica deriva da questo: che la fisica parla del mondo reale e questo è complesso. Di fronte alla realtà fisica, l’insegnante e gli allievi sono sullo stesso piano; così come davanti alla poesia o alla musica.
Ciò che si dice oggi da parte ministeriale, e che riguarda i moduli, i nuclei fondanti, ecc. ha come sfondo l’accettazione di un ruolo insegnante di tipo aziendale. Che può essere accettabile per corsi brevi di tipo operativo, che si possono collocare nei processi formativi di un’azienda; non certo nella scuola secondaria superiore. Ciò che sembra sfuggire ai nostri pedagogisti ministeriali è il carattere misterioso del rapporto che si stabilisce ( se e quando si stabilisce) tra una certa area dell’esperienza umana ( la fisica, la matematica, la poesia, ecc.) l’insegnante e l’allievo. Certo, l’insegnante deve favorire questo incontro, programmarne lo svolgimento, preparare le condizioni perché abbia luogo nelle condizioni più favorevoli - e ciò richiede che egli stesso conosca e senta - ma nella consapevolezza che l’incontro è un evento che trascende il fatto scolastico. La fisica (come la musica e la poesia) vivono (anche ) fuori della scuola e il compito dell’insegnante non è (non deve ridursi a ) quello di far conseguire un credito.
Di fronte alla realtà della scuola italiana - che, tuttavia, presenta anche luminose eccezioni - tutto ciò appare retorico ed utopistico. Tuttavia non si può fare a meno di osservare che la scuola italiana è un bell’esempio della nazionale vocazione all’ossimoro. Si decide che la fisica debba essere insegnata a tutti - perché sarebbe politically incorrect operare distinzioni tra coloro che possono e quelli che non - tuttavia, poiché questo insegnamento sarebbe troppo impegnativo ( per insegnanti e allievi) si conducono le cose in modo che a scuola si faccia tutto come se: c’è l’ora di fisica, c’è il libro di fisica, c’è il laboratorio, ci sono le simulazioni al computer ( queste soprattutto non devono mancare), c’è il voto sulla pagella. Nessuno si preoccupa di accertare se dietro questi rituali ci sia effettivamente un impegno di insegnamento e di apprendimento. Per esempio, si crede che un laureato in fisica, che insegna fisica, abbia conoscenza diretta di ciò di cui parla in classe. Per esempio, che quando parla dell’azione di una corrente elettrica su un magnete, ne parli avendo personalmente provato ad avvicinare un filo percorso da corrente continua ad un ago magnetico. Si pensa che una persona che, per decenni descrive ritualmente l’esperienza di Oersted, gli sia venuto voglia ( mi si perdoni l’anacoluto) di provare se effettivamente ( e come ) sia così. Sappiamo tutti che per la gran parte degli insegnanti delle nostre scuole quando pensa all’interazione tra correnti e magneti pensa alla figurina del libro di testo e non ha neppure il dubbio che le cose reali sono così, ma sono anche diverse. Per questo le scuole hanno spalancato le porte alle esperienze prodotte al computer. Che sono ancora begli esempi di ossimori. I recenti indirizzi in materia scolastica tendono a fissare (istituzionalizzare) questa situazione.
CHE COSA BISOGNEREBBE FARE? (E non si fa)
Abbiamo detto che l’attività della maggior parte degli insegnanti di fisica ha due soli referenti: il libro di testo e il proprio aiutante tecnico, dal quale dipendono le attività di laboratorio. Il manuale e il laboratorio dovrebbero essere strumenti nelle mani dell’insegnante; ma, spesso, è l’insegnante al servizio dell’uno e dell’altro. L’affrancamento culturale degli insegnanti di fisica da queste due dipendenze è la porta attraverso la quale deve passare qualsiasi riforma che pretenda di migliorare le cose.
Il problema della didattica della fisica nel nostro Paese non è quello di stabilire nuovi contenuti o di fissare la percentuale delle attività di laboratorio. Il problema vero - e a nulla valgono gli altri interventi se non si affronta questo - è la (ri)formazione degli insegnanti. Si tratta prima di tutto di
1) Formazione culturale. Non è possibile mandare ad insegnare meccanica, elettromagnetismo ecc., persone che hanno sostenuto un solo esame su questi argomenti in età universitaria. La prima e quasi esclusiva fonte di formazione per questi insegnanti è lo stesso manuale sul quale studiano i loro allievi. E’ assolutamente necessario che sia fornita loro la possibilità di riflettere su questi argomenti insieme a persone in possesso di una riconosciuta formazione culturale in materia. Ripercorrere la fisica del primo biennio dell’università con gli occhi di chi vuole fare l’insegnante. Così come a chi aspira al brevetto di maestro di sci si richiede, al minimo, che sappia sciare, a chi aspira a fare la professione di maestro fisica non si può non richiedere che vi sia un campo fenomenico, per quanto ristretto, all’interno del quale sia in grado di muoversi da fisico. Questa non è cosa da poco: si deve richiedere non che sappia enunciare il principio di conservazione della quantità di moto; ma che sia in grado di riconoscere fenomeni che si possono descrivere sulla base di tale principio.
2) Formazione professionale. Solo a chi abbia mostrato un saldo possesso dei fondamenti culturali può essere proposta l’elaborazione di modelli di comportamento didattico. A questi si potranno con profitto proporre le varie forme a cui si ispirano le possibili didattiche; senza pretendere, tuttavia, di ridurre a norme codificate un processo ( quello di costruzione di una consapevolezza del mondo fisico, attraverso l’interazione tra l’allievo e il maestro) per sua natura impossibile da formulare come norma. Tra gli strumenti didattici di cui un insegnante di fisica deve saper fare un uso flessibile, in funzione delle circostanze e dei fini, vi sono, ovviamente, anche le cosiddette “attività di laboratorio” e l’uso del calcolatore; ma non si deve dimenticare che questi sono ausili che tendono a provocare la riflessione sui fenomeni e a perseguire il chiarimento dei concetti e dei modelli.
Avendo a disposizione professionisti della didattica così formati, sarebbe possibile stabilire alcuni punti fermi che riguardano la scuola secondaria superiore.
In primo luogo è necessario distinguere tra gli scopi a cui è finalizzato lo studio della fisica nei vari ordini di scuola. Nelle scuole ad indirizzo tecnico ha carattere prevalentemente propedeutico allo studio delle discipline tecniche, in quelle dell’area classico-scientifica, ha finalità più generalmente culturali e/o propedeutiche agli studi universitari. La distinzione tra i due indirizzi determina non solo una sostanziale diversità dei contenuti curricolari; ma , soprattutto, differenti approcci didattici. I contenuti e le strategie didattiche dell’indirizzo tecnico non possono che essere finalizzati all’apprendimento di contenuti disciplinari ben individuati, conoscenze e capacità operative che trovano la loro motivazione nei successivi studi di carattere tecnico. In quest’ottica è necessario abbandonare l’insegnamento tradizionale che prevede la canonica successione di meccanica, termologia, acustica ecc. ( spesso con labili legami con le esigenze dei successivi insegnamenti di elettrotecnica, elettronica, ecc.) per adottare didattiche modulari finalizzate. Queste potrebbero essere determinate nell’ambito dei singoli istituti. Diverso è il problema per le scuole dell’indirizzo classico-scientifico. Qui sarebbe necessario, come prima cosa, e in conformità ad ogni procedimento che si ispiri a razionalità scientifica, delimitare i confini della regione culturale oggetto di insegnamento. Questa non può (non deve) superare i confini segnati dall’elettromagnetismo classico. Solo nelle condizioni più favorevoli - il che riguarda tanto l’insegnante che gli allievi - è consentita qualche prudente escursione nel territorio della Relatività Speciale. Tutto ciò che è venuto fisicamente alla luce dopo il 1905 dev’essere tassativamente ignorato. Questo avrebbe come prima positiva ricaduta una sostanziale riduzione della massa dei manuali e servirebbe anche ad affermare il principio che nella scuola, come nella vita, non tutti possono fare tutto. Nella fisica, come in tutte le discipline, vi sono concetti e linguaggi estremamente complessi e lontani dall’intuizione, attingibili solo dopo grandi fatiche; qualsiasi tentativo di divulgazione che aspiri ad un minimo di dignità culturale dev’essere compiuto solo da persone di provata competenza. Rimane, tuttavia, il fatto che la didattica della fisica e la divulgazione scientifica sono attività nettamente distinte. Ci rendiamo conto che, con questo, rischiamo di mettere in crisi l’attività di quegli estensori di prove d’esame che sembrano interessati solo alle relazioni tra filosofia e fisica dell’ultimo secolo; ma troviamo molto preoccupante che venga incoraggiata, presso gli studenti, la tendenza a parlare di cose che non conoscono. Indubbiamente, potrebbe costituire un positivo segno di maturità il rendersi conto della modestia delle proprie conoscenze di fisica. D’altra parte, non si comprende perché la struttura degli atomi dovrebbe essere oggetto di studio più degno della meccanica della bicicletta.
Il più grave difetto dell’insegnamento della fisica nella scuola secondaria ( ma non solo) è il suo carattere catechistico, che sembra ispirato ad una cultura scientifica positivistica. Una delle sottintese pretese dei project anglosassoni era quella di dare allo studente un’idea, magari attraverso l’attività di laboratorio, del modo di procedere della scienza. Pretesa assurda sul piano epistemologico e dannosa su quello pedagogico, che si è tradotta nei nostri manuali scolastici in un capitolo dedicato al Metodo Scientifico, corredato di diagrammi di flusso che illustrano come dall’osservazione si passi, attraverso l’ipotesi e l’esperimento, alla Legge. In realtà, la teoria (ad esempio, la meccanica classica) è , e un insegnante acculturato non può che utilizzare i concetti e i metodi di quella meccanica, che è – o dovrebbe essere - la sua. Il fatto stesso che sappia riconoscere i fenomeni meccanici significa che applica alla realtà fisica un paradigma interpretativo che va sotto il nome di meccanica classica. Il compito dell’insegnante è quindi quello di condurre l’allievo all’uso corretto di quel particolare paradigma. Il che significa, in primo luogo, riconoscere le circostanze fisiche nelle quali è lecita e utile l’applicazione del paradigma. Ciò non si può raggiungere se non attraverso la proposizione, da parte del docente, di una grande quantità di situazioni esemplari che si prestino ad essere interpretate attraverso la teoria. E qui sta il punto dolente, il discrimine tra una didattica che aiuti il ragazzo a crescere e una finalizzata all’addestramento acritico. Le situazioni proposte alla riflessione del ragazzo non devono avere carattere di esercitazione numerica; ma piuttosto riguardare problemi reali, nei quali la teoria possa mostrare la propria superiorità interpretativa nei confronti della fisica intuitiva di cui, necessariamente, il ragazzo è portatore. In quest’ambito - e solo in questo - acquistano senso le attività di laboratorio da una parte e la risoluzione dei problemi di fisica dall’altra. Per suscitare una riflessione feconda non è necessario che 30 studenti eseguano le stesse misure con gli stessi strumenti didattici progettati ad hoc, ciò che importa è che questa misura venga proposta come mezzo per la soluzione di un determinato problema; che si decida quali sono gli strumenti più adatti a farla realmente, sulla base di precise ipotesi sui risultati che si dovrebbero ottenere. Così come i problemi di fisica non dovrebbero essere, come spesso accade, problemi di aritmetica ( e l’aneddotica in materia sarebbe sterminata); ma presentazione di situazioni fisiche quanto più è possibile prossime al reale, che ammettano varie strategie di risoluzione, non escluso il ricorso alla sperimentazione diretta.
Per una reale riforma dell’insegnamento della fisica nelle scuole secondarie a poco valgono le indicazioni sui programmi. I contenuti sono a tutti presenti; se mai, come abbiamo detto, è più utile indicare quelli che la scuola media superiore ( ma anche l’inferiore) non è abilitata a trattare; poiché la scuola, come ogni strumento, può fare solo certe cose e non altre; mentre, stando ai temi assegnati agli esami di stato sembrerebbe onnivalente. Ciò che si potrebbe (dovrebbe ) fare è impegnarsi in un mutamento dei modi della didattica; nella consapevolezza che questo mutamento dev’essere assunto come problema di rilevanza nazionale dai responsabili della politica scolastica, che dovrebbe portare a
1) Un’azione incisiva di (ri)acculturazione degli insegnanti attraverso le strutture universitarie e le associazioni culturali e professionali come la Società Italiana di Fisica (S.I.F.) e l’Associazione per l’Insegnamento della Fisica (A.I.F.) che hanno grandi meriti in questo campo.
2) Il riconoscimento del carattere peculiare della professione dell’insegnante, al quale dovrebbero essere lasciati il tempo e i mezzi culturali e materiali per coltivare la materia che professa.
Se poi vogliamo tentare di fornire qualche indicazione più specificamente di natura didattica, la più rilevante è la seguente, che non riguarda solo gli insegnanti di fisica. Per farci capire ci rifaremo ad un esempio che vuole essere emblematico di come stanno le cose nel campo sul quale stiamo riflettendo: le leggi di Keplero e i moti planetari. Ogni insegnante di fisica tratta questo argomento e disegna ellissi con il sole in uno dei fuochi e raggi che spazzano aree e parla di periodi e distanze. Andrebbe tutto bene, se non fosse che, nella stragrande maggioranza dei casi, insegnante ed allievi non hanno mai visto - ad occhio nudo - un pianeta. Non hanno alcuna idea del fatto che il moto da cui l’etimo del nome non è il moto di cui parla Keplero e non sanno in che senso osservativo questi corpi si muovano. L’ignoranza del significato osservativo di queste cose è un fatto che fa parte dell’esperienza di chiunque conosca la nostra scuola. Ciò nonostante, l’insegnante parla diffusamente delle leggi che regolano il moto dei pianeti, senza sapere come se ne determinino i periodi e le distanze dal sole e lo studente - quando lo fa - impara diligentemente tutto ciò, senza sapere a cosa di concreto, osservativo, riferire ciò che ha appreso. Gran parte della fisica scolastica è caratterizzata da questa sindrome: la fisica scolastica propone dei modelli interpretativi di fenomeni che studenti ed insegnanti non hanno mai osservato. Che è come dire che fornisce risposte a domande che non sono mai state poste. Ed è questo che caratterizza la cultura fisica dei nostri liceali, anche ben preparati: conoscono bene le risposte, ma non le domande, che la realtà fisica propone. Di conseguenza, i paradigmi mentali di un ragazzo che ha studiato fisica sui banchi di scuola non sono diversi da quelli di un coetaneo che non ha avuto questa esperienza. A cagione del fatto che la cultura fisica viene considerata cosa diversa da quella che effettivamente occorre per muoversi nella reale realtà fisica. Il fenomeno, noto come “sindrome di Persico”, in quanto segnalato dal grande fisico alcuni decenni orsono, proietta pesanti interrogativi sul reale significato del contributo che l’insegnamento della fisica elementare fornisce alla crescita intellettuale dei nostri giovani. Questo è il solo terreno riformativo sul quale valga la pena di confrontarsi. Se si giudica che lo studio della fisica sia indispensabile alla formazione intellettuale dei giovani che intendono dedicarsi a studi universitari, allora è necessario riformulare in profondità i modi della didattica, non dando nuovi programmi, ma conferendo nuovi significati ai tradizionali. Un insegnante di fisica non può continuare a disegnare linee di forza col gesso e non sapere in che senso una batteria da 4,5 V è cosa diversa dalla 220 della rete. Nella nostra scuola l’insegnante di fisica è una persona che, prevalentemente, fornisce risposte a domande che nessuno gli ha posto: la sfida vera sarebbe quella di trasformarlo in una persona che sa produrre domande.
AUTONOMIA:
un contenitore funzionale
di
Massimo
Bontempelli
La
cosiddetta autonomia scolastica, introdotta dall'articolo 21 della legge sul
decentramento amministrativo - meglio nota come legge Bassanini - non è una
tessera come tante del mosaico
della riforma della scuola, né,
tanto meno, rappresenta uno spazio istituzionale che offra agli insegnanti
migliori opportunità. Occorre evitare, a questo proposito, le percezioni
ingannevoli indotte dalle positive assonanze semantiche di certe parole come,
appunto, "autonomia", dalle fraseologie progressiste con cui i
riformatori sono soliti coprire i contenuti socialmente e culturalmente
regressivi dei loro atti, e dalle idee puramente soggettive sul modo in cui
certi provvedimenti possono essere interpretati. L'autonomia scolastica, per
come è giuridicamente congegnata e politicamente contestualizzata, ha un
significato oggettivo che non viene minimamente scalfito dalle buone intenzioni
di chi si sforza di individuarvi qualche seconda potenzialità e rappresenta non
un segmento della riforma berlingueriana, ma il suo asse strategico.
Questo
significato oggettivo dell'autonomia scolastica, mai enunciato esplicitamente
dai riformatori, e forse neanche chiaramente presente alle loro menti, ma
comunque implicito nel disposto di legge e nella prassi amministrativa, è
niente altro che la disarticolazione del sistema nazionale dell'istruzione
pubblica: ogni singolo istituto scolastico, cioè, è chiamato a produrre, come
risposta alle esigenze del suo specifico ambito territoriale e del suo specifico
bacino di" utenza" (si noti il vocabolario sempre mercantile dei
riformatori), la sua specifica "offerta formativa".
Soltanto
la perdita di ogni concetto reale del rapporto tra educazione e società, e di
ogni memoria storica, impedisce oggi di comprendere quale catastrofe di civiltà
si realizzi con questa innovazione.
Che il processo educativo consista nella trasmissione da una generazione
all'altra di quei valori
conoscitivi ed etici che rappresentano il fondo di civiltà di una società, ne
assicurano la coesione e vi promuovono lo spirito di cittadinanza e che quindi
esso non possa svolgersi, in una società moderna, se non entro un sistema
pubblico e nazionale di scuole, è un'acquisizione diffusasi in Europa a partire
dalla rivoluzione francese. Fu nei grandi dibattiti sull'educazione del
cittadino che si tennero nella Convenzione nazionale del 1792-95 che emerse il
concetto moderno e democratico di educazione. Nel nostro paese la scuola
pubblica fu istituita, non per caso, nel regno d'Italia creato all'inizio
dell'Ottocento da Napoleone (ben prima, quindi, del regno unitario nato nel
1861). Paradisi e Moscati, che ne avevano elaborato il progetto fin dal 1802,
avevano lucidamente spiegato come in una società divenuta moderna gli obiettivi
culturali di tutte le istituzioni educative non potessero essere definiti che a
livello di Stato centrale, come il reclutamento degli insegnanti dovesse essere
pubblico e concorsuale, sulla base delle loro conoscenze accertabili e non delle
loro opinioni private, e come dovesse essere bandita dalla scuola ogni forma di
gestione affaristica, localista e anche semplicemente privata.
L'autonomia
scolastica predisposta dalla riforma ci fa retrocedere a prima di questo inizio
della moderna civiltà educativa, a prima delle conquiste spirituali della
rivoluzione francese, a prima della
grande cultura borghese. Essa si basa infatti sul presupposto che non esistano
contenuti culturali nazionali la cui trasmissione da una generazione all'altra
sia educativamente imprescindibile, e che singoli gruppi locali di eterogenea
composizione possano elaborare altrettanti coerenti profili educativi quante
sono le scuole.
Se
ci fermassimo, però, a queste considerazioni, saremmo portati a ritenere che la
cosiddetta autonomia scolastica non esprima altro che il vuoto mentale dei suoi
promotori. Questo però non è vero. L'autonomia, come ho detto, ha un suo
significato e tale significato è il perno strategico di una disarticolazione
del sistema nazionale dell'istruzione pubblica che risponde a corposi interessi
e precise tendenze della società.
Non
che i promotori della riforma abbiano un qualsiasi spessore culturale:
Berlinguer crede alla sua stessa
propaganda, un po' come Mussolini, quando si convinse di essere il grande
stratega di un esercito possente, e che ha come immagine di se stesso quella del
terzo riformatore organico della scuola italiana dopo Casati e Gentile,
rimanendo completamente cieco di fronte al degrado che le sue innovazioni
concretamente producono nelle scuole e al fatto che, a differenza di Casati e di
Gentile, non ha riorganizzato l'educazione attorno ad alcun asse culturale. I
pedagogisti di cui si serve per promuovere una nuova didattica nella scuola sono
una corporazione di ignoranti che parlano di problemi educativi carichi di
implicazioni filosofiche e storiche pur essendo orecchianti di storia e del
tutto analfabeti di filosofia, e che si sono inventati la loro disciplina, cioè
un tessuto di verbalismi farraginosi e vuoti presentato pomposamente e in modo
ridicolo come nuovo sapere, essenzialmente per coprire la mancanza di qualsiasi
conoscenza disciplinare specifica.
Il
vuoto mentale di tutti costoro si è reso però funzionale ad una costellazione
di interessi e progetti sociali che aveva bisogno proprio di ciò che la loro
mente vuota ha partorito, ossia, appunto, l'autonomia scolastica. Essi ,
infatti, non essendo in grado di riformare sul serio il sistema nazionale
dell'istruzione pubblica, individuandone reali obiettivi educativi, definendone
precisi assi culturali, specificandone i saperi minimi essenziali per la
trasmissione di una capacità di lettura del mondo, di una mentalità
scientifica e di una cultura della cittadinanza, lo hanno frammentato in tanti
centri di istruzione separati, e quindi anche se non formalmente privati, quanti
sono gli istituti scolastici. Non essendo in grado di pensare in termini di
contenuti culturali, hanno lasciato campo libero ad un vuoto didatticismo, che,
incapace di confrontarsi con il valore qualitativo delle conoscenze, si risolve
in una tecnica di misurazione quantitativa di abilità meccaniche. Non essendo
in grado di ricostruire il ruolo della scuola come istituzione rispetto ai
giovani, che li socializzi attraverso l'acquisizione di conoscenze e
l'identificazione con modelli assiologici, la incoraggiano ad essere luogo di
socializzazione attraverso l'intrattenimento, e ne concepiscono la vitalità
come capacità di assorbire e restituire ai giovani ciò che è loro più
contemporaneo e più prossimo. L'autonomia scolastica, svincolando le scuole da
ogni obbligo di trasmissione di contenuti nazionalmente definiti, e i titoli di
studio (di cui sarà prossimamente abolito il valore legale) da ogni
corrispondenza a profili culturali determinati
(sostituiti, in prospettiva, da certificazioni individuali di abilità
specifiche) rende possibile tutto questo. Ma tutto questo non è solo frutto di
stupidità politica, bensì risponde alle esigenze del totalitarismo di
un'economia desocializzata ed autoreferenziale, di cui la stupidità politica ed
il vuoto culturale sono gli strumenti.
L'economia
totalitaria contemporanea esige infatti che sia prodotto soltanto ciò la cui
produzione passi attraverso una convenienza aziendale, e che la spesa pubblica
sia interamente devoluta alla promozione delle convenienze aziendali. Entro la
prospettiva di questa economia postfordista, postkeynesiana e neoliberista, le
spese statali per la scuola sono puramente dissipative nella misura in cui
finanziano la trasmissione di profili culturali nazionali e non di particolari
abilità individuali sulla cui base le aziende possano decidere le assunzioni, e
nella misura in cui il loro impiego non faccia dello spazio scolastico un nuovo
mercato per le industrie. Le scuole, quindi, devono insegnare attraverso i
computer e attraverso altri strumenti che offre il mercato (la pressione
ossessiva per la valutazione attraverso test ha come termine finale la
computerizzazione), mentre deve risultare svalutata l'oralità dialogica, che
non dà profitto economico a nessuno. Scuole e insegnanti devono operare nella
competizione, in modo che si estingua la cultura disinteressata, inutile per gli
affari, e si pensi in termini di abilità strumentali e di immagine. Non vi deve
essere una selezione in base ai livelli di cultura e dunque va bene che tutti
siano promossi anche senza aver acquisito cultura dalla scuola, perché in
questo modo sarà il mercato, e saranno i poteri e le relazioni delle famiglie,
dopo la scuola, a decidere la collocazione sociale degli individui. Nella scuola
tutto deve essere attualità e sollecitazione mentale piacevole, senza fatica e
organicità di studio, perché ne escano giovani senza spirito critico e quindi
ben orientati al consumo.
L'autonomia
scolastica garantisce tutto questo, perché, separando le scuole da contenuti
culturali nazionalmente obbliganti, le mette in reciproca competizione per
accaparrarsi utenza, quindi sul terreno dell'immagine e del consumo e le svuota
di sapere disinteressato, quello cioè indispensabile allo spirito critico,
all'atteggiamento scientifico ed alla cultura della cittadinanza. Essa è dunque
il perno strategico della sottomissione della scuola (come già di altre
istituzioni non economiche) agli imperativi dell'economia, dunque della sua fine
come scuola.
Vi
inviterei a riflettere, quindi, cari amici della GILDA, su una questione
cruciale: è possibile che la difesa della professionalità docente, che voi
meritoriamente assumete, sia efficace senza collocarla in un orizzonte di
comprensione della distruttività sociale e culturale dell'attuale sistema di
vita, dominato in maniera totalitaria da un'economia interamente mercantilizzata,
tecnicizzata ed autoreferenzializzata? Molti di voi, credo, pensano di sì,
pensano cioè che la professionalità docente possa venire difesa su un terreno
soltanto sindacale, magari corporativo, e su un terreno culturale, che riguardi
però esclusivamente la scuola e la scienza. Io, invece, penso con fermissima
convinzione di no. Penso, cioè, e mi sono qui sforzato di mostrarlo attraverso
una riflessione sull'autonomia scolastica come perno della riforma
berlingueriana, che la causa prima dell'erosione progressiva della memoria
storica e dell'autonomia della cultura, e di conseguenza delle innovazioni
distruttive degli ultimi anni, stia in quel sistema di relazioni della nostra
società che può essere definito come totalitarismo neoliberista. La difesa
della professionalità docente esige quindi da tutti noi un salto di qualità
mentale, che collochi il presidio della civiltà educativa oggi minacciata in un
più ampio fronte sociale e culturale antiliberista.