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Dottore,
L’Espresso di questa settimana ha ampiamente riportato i risultati del suo
studio - lo studio “Getsemani”- e dell’indagine che lei ha condotto con la
Fondazione IARD sullo stato di “sofferenza professionale” degli insegnanti
italiani (E’ scoppiato il professore
di Fiamma Tinelli, “L’Espresso”- 9 ottobre 2003). Ora, questi risultati emergono
nella loro allarmante crudezza proprio nel momento in cui si prospetta una
riforma delle pensioni che contempla un periodo lavorativo di durata uniforme
per tutti. Ci chiediamo – le chiediamo: esistono delle categorie a rischio?
Fra queste categorie collocherebbe la categoria dei docenti?
Sicuramente ci sono delle categorie più
esposte di altre a particolari malattie e il caso degli insegnanti ne è la
dimostrazione. Occorre approfondire gli studi appena avviati prima di giungere a
conclusioni affrettate, ma questo non deve costituire un alibi per giustificare
l’immobilismo registrato fino ad oggi. Non è azzardato - visti i numeri dello
studio “Getsemani” e ricorrendo a un’analogia forte – ipotizzare che il binomio
insegnanti-psicopatie rischia
di assomigliare a quello arcinoto minatori-silicosi.
Proviamo a domandarci, alla luce dei dati emersi, se tutti gli insegnanti che si
sono ammalati di psicopatia dopo 20-30 anni di onorata professione cominciassero
a chiedere la causa di servizio: chi potrebbe negargliela recisamente dopo aver
letto lo studio “Getsemani”? Ma forse è meglio rivolgere questa domanda ai
sindacati e agli avvocati del lavoro.
Il discorso sulle pensioni è delicato, ma non
credo di sbagliare di molto nell’affermare che tutti i cambiamenti devono essere
monitorati nel tempo. Sacrosanto abolire le baby-pensioni nel ’92, ma
altrettanto sbagliato non andare a studiarne gli effetti nel tempo. I numeri ci
dicono che la percentuale di patologie psichiatriche tra i docenti passa dal 45%
nel biennio 93-94 al 57,5% del 2001-2002, mentre nelle altre professioni passa
da un valore medio di 20,4% al 26,3%.
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Quali sono, a suo avviso, gli
elementi che fanno sì che l’insegnamento rientri nella rosa delle professioni
a rischio?
Suddividerei i
fattori di rischio in due grosse categorie. I fattori endogeni legati a
carattere, capacità reattiva individuale e storia personale dell’individuo. Già
su questi è possibile un intervento prima dell’immissione in ruolo e durante la
carriera professionale. Poi vi sono i fattori esogeni, cioè quelli propri
dell’ambiente lavorativo e del clima sociale. Questi divengono ogni giorno più
numerosi e intensi: studenti extracomunitari, portatori di handicap, classi
numerose, rapporti con colleghi e dirigenza, genitori esigenti, delega
educativa, informatizzazione, precariato, retribuzione inadeguata e via dicendo.
Ma il fattore ritenuto più pesante dagli stessi docenti - addirittura
insopportabile - è lo scarso riconoscimento sociale.
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La presenza in un luogo
lavorativo a forte connotazione relazionale di una persona in stato di
sofferenza ha ovviamente pesanti conseguenze sull’intero contesto. Nella scuola
il cuore della relazione consiste nel rapporto con i bambini e/o gli
adolescenti, non ritiene dunque che il peso di queste conseguenze sia maggiore?
E che ciò richieda una particolare sensibilità da parte delle forze politiche?
Un
insegnante che non ce la fa più è al contempo una persona da curare e un fattore
destabilizzante per tutto il sistema. L’ambiente scolastico evoca una risposta
anticorpale cercando di espellerlo. Genitori, colleghi, studenti e
amministrazione si coalizzano per allontanare il malcapitato. Il dirigente, non
sapendo che pesci prendere si barcamena tra attendismo e sanzioni disciplinari;
poi getta la spugna e convince il docente in questione a trasferirsi in un’altra
scuola. Nel nuovo istituto la storia si ripete finché non accade l’episodio
grave che attiva l’intervento ispettivo del Ministero. La successiva tappa di
questo calvario si contempla di fronte al Collegio medico della ASL competente.
La storia poi non finisce qui perché i collegi medici hanno le loro difficoltà:
il paziente – sempre che si presenti a visita in quanto è sua facoltà
sottrarvisi - sostiene nella gran parte dei casi di essere
mobbizzato e presenta talvolta
certificati medici compiacenti attestanti che
“Non
sussistono condizioni psicopatologiche in atto”. Il
risultato finale è che la storia dura in media tra i 5 e i 10 anni e talvolta si
conclude solo con la pensione di anzianità. Insomma è come il famoso gioco a
carte “dell’uomo nero”, con la sola differenza che perdono tutti.
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Nella sua indagine ha notato dei collegamenti fra l’età e lo stato di
“sofferenza professionale” che ora viene comunemente denominato “sindrome del
burnout”?
Solitamente
vediamo insegnanti con 20-30 anni di servizio. L’età media dei casi che si
presentano a noi gravita intorno ai 50 anni.
- Ha notato
differenze tra insegnanti uomini ed insegnanti donne?
E’ emerso un dato estremamente
interessante. Infatti la letteratura scientifica ci dice che le donne si
ammalano di patologie ansioso-depressive con frequenza doppia rispetto agli
uomini. Al contrario noi abbiamo osservato una situazione di perfetto equilibrio
tra i due generi. Questo può giustificare due ipotesi opposte, tutte da
verificare, ma entrambe preoccupanti: la prima attribuisce alla professione un
ruolo psichicamente usurante al punto da annullare le differenze tra i due
sessi; la seconda si basa sul fatto che i maschi che abbracciano la professione
siano già demotivati e depressi al momento dell’assunzione del ruolo.
Probabilmente la verità si trova nel mezzo.
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Ritiene dunque che possa
essere contemplato per i docenti un percorso atipico? Magari non solo
caratterizzato da una durata diversa o da un part-time appetibile, ma anche da
impegni individuali diversificati. Penso ad un docente che riduca il proprio
orario frontale (cioè con gli allievi) e si dedichi a quelle attività di
supporto o collaterali in cui l’esperienza risulta oltremodo preziosa…
Questo sistema è stato adottato
in altri paesi e potrebbe aiutare. Non è un caso infatti se su più di 3.500 casi
osservati in dodici anni ci siamo imbattuti in un solo professore universitario
che ha presentato una diagnosi di psicopatia. Le molte ore di docenza frontale
sono uno dei principali fattori imputati ma certamente non l’unico. Per
concludere ritengo che un problema come questo tocchi tutta la comunità. Nessuno
si può chiamare fuori in quanto coinvolge le famiglie, i giovani, i docenti con
i loro dirigenti e l’opinione pubblica. E proprio quest’ultima andrebbe
informata per cancellare quegli stereotipi che possono arrivare persino a
uccidere. Infine vanno informati e formati i medici – specialisti, generici, del
lavoro e delle commissioni collegiali – sul fatto che quella degli insegnanti è
una popolazione cui prestare particolare attenzione.
Gli studi condotti fino ad oggi sono stati
possibili grazie all’impegno disinteressato dei ricercatori. Oggi occorrono
fondi, istituzionali e non, per continuare la ricerca. La parola dunque passa
alle istituzioni e alle parti sociali.
Ringraziamo il Dottor Vittorio Lodolo D’Oria per
la disponibilità
(intervista a cura di Serafina Gnech - 3 ottobre
2003) |