LA RISCOPERTA DELL’AUTORITÀ
Antologia di testi sulla crisi dei ruoli educativi
a cura di Giorgio Ragazzini
La raccolta che iniziamo vuole essere un’antologia. Ma non un’antologia dotta, né un’antologia “finita”. O meglio, non solo questo.
Intorno al tema dell’educazione e dell’autorità raccoglieremo estratti di saggi più o meno famosi, passaggi di interviste, interventi di vario tipo. E variegato sarà il ventaglio degli autori perché variegato – come pochi altri – è lo spettro di coloro che si scontrano oggi con la difficoltà di educare. E che si interrogano sui perché di una deriva educativa che si allunga come un’ombra crepuscolare sullo sfondo crudo e crudele delle nuove generazioni.
Indulgere sulle crisi non basta, ma interrogarsi è indispensabile. Inevitabile.
Perché noi – maestri e professori - non siamo personaggi pirandelliani o kafkiani, ma attori fin troppo veri di un mondo fin troppo vero.
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Difficile dire chi è oggi più in crisi tra genitori e insegnanti quanto a difficoltà di assumersi fino in fondo il proprio ruolo. Sembra evidente che si tratta di un problema culturale che attraversa tutte le società occidentali, ma forse in Italia il cosiddetto buonismo ha toccato vertici altrove sconosciuti. Ideologie e dottrine pedagogiche hanno per anni indebolito la capacità di offrire ai ragazzi saldi punti di riferimento, confondendo l’autorità con l’autoritarismo e mettendo da parte la realtà dello sviluppo psicologico e affettivo, che necessita di prove e di frustrazioni. La mancanza di fermezza si è volentieri travestita da paterna comprensione, mentre un superficiale puerocentrismo ha fatto scordare che nella scuola di oggi si formano gli uomini e le donne di domani; salvo poi stupirsi della fragilità delle nuove generazioni.
Fortunatamente negli ultimi anni è in atto un ripensamento, da parte di vari psicologi e studiosi dei fenomeni sociali, sui guasti che la mancanza di guide affidabili sta causando. Le spiegazioni sono naturalmente varie: c’è chi mette l’accento sulla mancata rielaborazione della ventata antiautoritaria cominciata alla fine degli anni sessanta, chi sull’eclissi della figura paterna legata all’organizzazione del lavoro creata dalla rivoluzione industriale, chi sulla scarsa presenza di figure maschili soprattutto nella scuola dell’obbligo.
1. Intervista a Giuliana Ukmar***
CARI GENITORI, DOVETE DIRE “NO”
È proprio vero che, oggi, i "no" costano tanto? Perché?
Costano di più, è vero, e i genitori hanno perso per strada il proprio ruolo. I motivi di questo fenomeno sono molti; uno importante sta sicuramente in quella propaganda delirante che ha preso corpo a partire dagli anni Sessanta. Si diceva: il bambino è un piccolo adulto, lo si deve ascoltare, lui ci può insegnare…Tutte considerazioni positive, ma che hanno spinto lentamente a orientarsi verso un permissivismo esasperato. Oggi ne raccogliamo i frutti, come la cronaca dimostra quotidianamente. A Milano, l'altro giorno, alcuni ragazzini hanno picchiato un compagno per derubarlo della motoretta: per loro "volere" una cosa significava, automaticamente, averla.
Come si è giunti a questo punto?
Vi si è giunti perché la tentazione è sempre quella di ragionare per rivoluzioni. In Italia è senz'altro andata così e forse anche altrove.
Vale a dire?Che se uno ha avuto un padre fortemente autoritario, sente fortissimo il bisogno di uscire da questa tipologia e lo fa sino a capovolgere totalmente regole e ruoli. La pericolosità di questo meccanismo è emersa già da tempo agli occhi degli addetti ai lavori. Cioè, di che cosa si sono accorti, neuropsichiatri e psicoterapeuti?
Si sono accorti che, se il risultato più patologico che emergeva dal rapporto con un padre-padrone era un figlio dalla personalità nevrotica, piena di fobie, il traguardo finale di una educazione di stampo permissivo è, invece, una personalità che sfocia nella psicosi. Gravissima, difficile da curare. Un ragazzo cresciuto senza regole, è in preda a quel delirio d'onnipotenza che lo indurrà a crearsi una realtà su misura.
Sono quelli che lei chiama i "piccoli re" che detengono, si, lo scettro ma che sono pro-fondamente infelici, privati della consolazione e del diritto di essere guidati da adulti responsabili?
Già, la casistica dei "bambini pestiferi" è vasta, dal bambino enuretico a quello oppositivo, da quello che "non dà pace" finché non ottiene ciò che vuole, a quello che non s'impegna a scuola, o che la vuole abbandonare…sono tutti ragazzi che hanno sviluppato, da un lato, la falsa consapevolezza d'essere i più forti e, dall'altro, tutte le ansie che appartengono a chi, chiamato a comandare, sa di non essere all'altezza del compito.
Che fine fa, allora, la raccomandazione d'essere "amici dei propri figli"?
Gli amici li si cerca solo tra i pari; i genitori che sono amici dei figli, in realtà, li distruggono. Il ruolo di un genitore è quello di essere responsabile, non amicone. Fermo restando tutto l'affetto di questo mondo, naturalmente.
Secondo lei, cosa spinge un genitore a commettere questo sbaglio?
Molte cose, anche diverse tra loro. I genitori nutrono il grandissimo bisogno d'essere amati e il dubbio che questo non possa accadere se si oppongono al volere del figlio. Dal canto loro, i figli sono bravissimi a giocarsi tale paura; la frase tipica del bambinetto di pochi anni, nei momenti di crisi è "Non ti voglio più bene". E, qui, molti genitori vanno in pappa.
Persino molti casi di autismo, sembra di capire, si radicano in "genitorialità" immature…Beh, l'autismo è ancora una scatola nera. Non si cura. Certamente, chi ne è affetto è l'onnipotente peggiore che si trovi in circolazione. Ma io sono convinta che, per questa malattia, componente psicologica e organica si sovrappongano.
La sua diagnosi non permette troppe scappatoie. Quali reazioni ha suscitato il libro con cui lei riapre la strada alla direttività?
Le scuole pedagogiche ormai hanno capito; gli insegnanti sono scoppiati, i genitori disperati. Da parte dei colleghi, poi, ho avuto belle soddisfazioni.
La soddisfazione principale deve essere quella di aver aperto un'epoca; il suo libro, non a caso, è stato molto scopiazzato. Di quanto coraggio ha bisogno un pioniere?
Non lo so. Io ne ho sempre avuto bisogno, perché dico le cose più scomode, che alla lunga sono anche le più tranquillizzanti. Fonte di patologie sono i segreti non detti, le cose dette a metà, appena abbozzate, trattenute per far piacere alla gente. Parlando chiaro. Lì per lì, i ge-nitori se la prendono, ma poi sono rasserenati.
Dovesse suggerire una parola d'ordine?
Sarebbe questa: date ai vostri figli solo certezze, mai dubbi. Almeno finché sono sotto ai 10 anni. E dopo, che avete detto qualcosa, siate irremovibili, dei macigni.
Quanto gioca il senso di colpa, nei cedimenti?
Moltissimo. Si è permissivi per farsi perdonare. E questo è il modo peggiore di "essere presenti".
Lei dice che molte cose le si sta capendo, che i genitori sono disperati e gli insegnati "scoppiati", ma dove pensa che stia andando la scuola italiana, crediti formativi e riforma Berlinguer al seguito?
Dove? Meglio dire "come". Di male in peggio. È sempre peggiorata negli anni: fermare un ragazzo non si può; dirgli chiaramente a che punto è arrivato della sua crescita, nemmeno. Si arriva all'Università tentando la sorte, pensando "se va, va". E così, l'adolescenza non finisce mai.*** L’intervista, a cura di Anna Maria Eccli, è stata pubblicata dal quotidiano “Alto Adige” il 19 Gennaio 2000. La psicoterapeuta della famiglia e della coppia Giuliana Ukmar, purtroppo scomparsa prematuramente, è autrice di un fortunato libro intitolato Se mi vuoi bene dimmi di no, pubblicato dalla Casa Editrice Franco Angeli.
2. Intervista a Claudio Risé ***
LA SOCIETÀ NON PUÒ FARE A MENO DEL PADRE
I padri italiani sono i più negligenti d'Europa, con meno di mezz'ora al giorno dedicata ai propri figli. Così stabilisce una recente ricerca condotta su un campione europeo: sono dati che certamente devono far riflettere sulle motivazioni di questo poco interesse.
Per avere una visione oggettiva del fenomeno ci siamo rivolti a Claudio Risé, psicoanalista, scrittore, docente universitario, che con gli uomini italiani dialoga tutte le settimane dalle colonne di Psiche lui, la popolare pagina di “Io Donna”, il supplemento settimanale del "Corriere della Sera".
Professor Risé, è vero che i padri italiani sono così negligenti? E perché?
«Ci sono molte ragioni, in parte psicologiche, in parte economiche.Dal punto di vista psicologico l'Italia, paese mediterraneo, è in gran parte sotto l'influsso dell'Archetipo della Grande Madre, una forza dell'inconscio collettivo (e quindi condizionante la cultura dominante), che tende ad estendere nell'educazione dei figli il potere della madre rispetto a quello del padre. In questa configurazione psicologica gli stessi maschi adulti tendono a viversi più come figli delle loro compagne, cui quindi rivolgono continue richieste di conferma affettiva, piuttosto che come mariti, e padri dei propri bimbi, con cui spesso si sentono in concorrenza. Ci sono però altri aspetti. Da una parte l'Italia è probabilmente il più "americanizzato" dei paesi europei, e dunque quello dove i padri sentono più fortemente, come negli USA, l'imperativo di fornire la maggior quantità possibile di reddito monetario alla famiglia. Quindi lavorano molto, ed hanno poco tempo di stare coi figli. D'altro lato, nel caso di famiglie di separati, l'Italia applica una legislazione particolarmente punitiva nei confronti dei padri, che possono passare pochissimo tempo coi figli, anche quando desidererebbero farlo. Anche in questa bizzarria, che vede la madre come destinatario privilegiato dell'affidamento dei figli, anche già adolescenti, vediamo, dal punto di vista dell'inconscio collettivo, un effetto del potere esercitato, anche sulla prassi giudiziaria, dall'Archetipo della Grande Madre cui ho accennato prima».
Ma i padri non hanno responsabilità nell'assenza nei confronti dei figli?
«I padri italiani, come quelli di tutto l'Occidente, hanno da un certo periodo storico (l'industrializzazione) in poi messo in secondo piano la famiglia, per impegnarsi totalmente nel lavoro e nella carriera. Nel paese che è un po' il pesce pilota dell'Occidente, gli Stati Uniti, il tempo libero dei dipendenti maschi é diminuito del 20% dagli anni Trenta agli anni Ottanta. Oggi il tempo per crescere i figli i padri non ce l'hanno più. D'altra parte solo oggi si riscopre che la funzione educativa del padre è importante. Per molti decenni, tutto ciò che si riferiva al padre é stato definito con aggettivi dispregiativi che tendono a svalutare il mondo dei comportamenti paterni: paternalista, patriarcale. Per almeno cinquant'anni é come se il padre nel mondo occidentale contemporaneo fosse diventato d'impiccio: l'uomo adulto é stato apprezzato come funzionario aziendale, o come consumatore, ma non doveva pretendere di "fare il padre"».
Quali sono stati gli effetti di questa situazione?
«Simbolicamente il padre é colui che, con la sua presenza e la sua azione, costruisce un ponte tra i figli che crescono, e la società in cui devono entrare. Mentre nella famiglia la madre esprime innanzitutto il mondo degli affetti e dei bisogni. Il padre è l'"iniziatore" alle norme, alla disciplina che dobbiamo esercitare su noi stessi, e all'autorità che dobbiamo riconoscere alla società. Tutti valori fortemente contestati per molto tempo, a favore di quelli dell'appagamento immediato e del piacere.
Il risultato è che oggi, in una situazione di assenza paterna, si fatica a rispettare norme valide per tutti, ogni piccolo sforzo viene considerato enorme e l'autorità viene vissuta, come un sopruso».C'è anche un aspetto religioso, nel "mestiere del padre"?
«Certo. Il padre che svolge correttamente la propria funzione attiva nell'individuo giovane, nel figlio (o nell'allievo che lo vive come padre), la capacità di relazione con la dimensione sovrapersonale, trascendente. E' coltivando questo aspetto psichico che l'individuo viene messo in grado di sviluppare la relazione con Dio».
La tendenza è al peggioramento, o qualcosa sta cambiando?
«Come sempre nelle situazioni estreme, nelle quali la stessa vitalità del gruppo umano è a rischio (la difficoltà a riprodursi del maschio occidentale è ormai attorno al 45%), l'istinto di conservazione sviluppa forti controreazioni. Tutta la società si è accorta che non può fare a meno del padre, e questi stessi sondaggi, preoccupati per la sua assenza, lo rivelano. Ma soprattutto, il comportamento e la sensibilità degli uomini-padri va riscoprendo il significato della loro funzione educativa.
Nelle separazioni, sfortunatamente in aumento, i mariti che chiedono l'affidamento dei figli sono sempre più numerosi. Anche a livello sociale la pratica dell'affidamento congiunto si diffonde, ed è pronta una legge che propone di farne la prassi generalmente seguita. Dalla mia pratica di psicoanalista, e dal mio impegno per una nuova coscienza maschile, credo di poter dire che è in netto aumento, nei giovani uomini, la consapevolezza dei valori della famiglia, degli affetti, e dell'educazione dei figli, rispetto a quelli dell'edonismo e dei cosiddetti "simboli di status", in pratica indotti dalla società dei consumi. Insomma: il padre torna a casa. E la società si è accorta che non può fare a meno di lui».*** L’intervista a Claudio Risé è stata rilasciata a Massimo Centini per “L'Eco di Bergamo” del 28 aprile 2002.
Risé è stato il primo in Italia a introdurre il tema della crisi del maschile, visto in chiave psicanalitica. Il suo libro Essere uomini (Red edizioni), è alla terza edizione. Per maggiori notizie sulla sua opera si può andare al sito www.claudio-rise.it