Riforma
della scuola e libertà di insegnamento: un’ipotesi di ridefinizione
della professione docente *
di Gianfranco Claudione
1. Premessa
L’attuale processo riformistico che sta investendo la scuola si inscrive
in un vasto quadro di trasformazioni strutturali di lunga durata
legate alla globalizzazione economica e alla crisi del welfare state e
del tradizionale modello europeo dello stato-nazione, corroso dall’alto
dalla costituzione di un’entità politico-economica a carattere
sovranazionale quale l’Unione Europea, dal basso da una speculare, ma di
segno opposto, tendenza di decentramento regionale e di dismissione di
competenze e prerogative dal centro alla periferia: due movimenti di un
medesimo fenomeno che fa capo a una nuova “domanda di federalismo”
e che ha trovato la sua strada maestra nel principio di sussidiarietà.
Si
tratta, com’è facilmente intuibile, di processi strutturali che
conseguono alla crescente complessità del mondo e i cui esiti sono del
tutto aperti e ben lungi dall’avere una direzione di risoluzione già
tracciata e definita, ma che proprio per questo occorre tenere ben
presente quando si parla di scuola, al fine di evitare il duplice
rischio da un lato di una visione dei problemi troppo angusta e
“settoriale” (o peggio ancora corporativa), ignara della complessa trama
di relazioni che lega la scuola alle più vaste dinamiche politiche,
economiche e sociali; dall’altro di un approccio sterilmente radicale e
massimalista o strumentalmente ideologico e demagogico, che tenda cioè a
brandire i temi della scuola come arma politica per conseguire in realtà
obiettivi di tutt’altra natura.
Giacché appare evidente che il processo riformistico in atto travalica
la stretta contingenza politica, accomunando nella sostanza governi di
diverso colore e orientamento politico, e che la radice e la fonte dei
provvedimenti sulla scuola attuati o in via di approvazione durante
l’attuale governo di centro-destra va fatta risalire a “tempi non
sospetti”, allorquando Palazzo Chigi era occupato dal centro-sinistra.
E’ infatti nella Legge Bassanini (e sue derivate) la “madre di tutte le
riforme”: dalla privatizzazione del pubblico impiego, all’autonomia,
alla riforma del Titolo V della Costituzione.
La sovrapposizione di condizionamenti politico-ideologici al dibattito
sulla scuola ha innegabilmente indotto a una valutazione radicalmente
negativa delle trasformazioni in atto, con un atteggiamento di rifiuto e
di opposizione, a seconda dei casi, velleitario-massimalista o
strumentale-propagandistico. Con il rischio, però, di buttare via il
bambino insieme all’acqua sporca: ossia, fuor di metafora, di non
riuscire a cogliere, assieme alla fondata percezione dei rischi, anche
gli elementi di opportunità offerti dalle riforme, e in
particolare dal principio di sussidiarietà. Giacchè la sussidiarietà è
in qualche modo l’espressione di una nuova cultura politica che contiene
una forte istanza di libertà e di democrazia e un «immenso valore
etico-sociale».
Si tratta, in altri termini, del tentativo di rendere “mite” il potere,
di superarne la natura essenzialmente autoritaria, gerarchica ed
elitaria (anche nei sistemi a democrazia rappresentativa), di progettare
e sperimentare forme di democrazia partecipata a responsabilità
diffusa (governance), in cui i processi decisionali - fondati
sui principi dell’influenza e del convincimento più che
sull’autorità calata dall’alto - siano elaborati il più vicino
possibile ai soggetti coinvolti e in cui i soggetti vedano favorita
e garantita la loro partecipazione alla elaborazione delle
decisioni stesse: «Cittadinanza attiva, non popolazione amministrata.
Circolarità di poteri di agire, non geometrie piramidali e gerarchiche.
Sostegno alla crescita di capacità autonome, non dirigismo pubblico né
assistenzialismo. Influenza, più che potere di comando. Autogoverno e
governance, non governo accentrato e primato degli esecutivi».
Quel
che si vuole tentare in questa sede, allora, è un’analisi praticata né
da destra né da sinistra, bensì dall’interno, ossia a partire non
dalle appartenenze politico-sindacali ma dall’essere innanzitutto
insegnanti e professionisti dell’istruzione, e prima ancora
cittadini: giacché la libertà di insegnamento non è affare che
riguardi gli insegnanti tout-court, non è difesa corporativa di
privilegi e interessi esclusivi di una categoria, ma è al contrario a
tutela e presidio della libertà di tutti i cittadini e rappresenta uno
dei capisaldi della democrazia (non a caso trattasi di libertà
costituzionalmente garantita). Assumere un punto di vista “endogeno”
non significa, d’altronde, nutrire pretese di neutralità e oggettività,
e meno ancora di scientificità: tutti miti da sfatare e che spesso
nascondono forme occulte di mistificazione della realtà. Si tratta
semmai di una pretesa di onestà intellettuale, che intenzionalmente non
rinuncia ad essere in qualche modo “di parte”, senza tuttavia per questo
porre pregiudiziali ideologico-sindacali e rimanendo comunque aperta al
confronto e al dialogo sia all’interno della nostra Associazione sia
all’esterno, cosa che appare auspicabile sempre, ma particolarmente in
questo momento storico.
2.
Scuola e sussidiarietà: tra autonomia e federalismo
L’applicazione al sistema scolastico dei principi di autonomia e di
sussidiarietà ha profondamente ridisegnato il modello di gestione e
organizzazione della scuola italiana: da un modello fortemente
centralista-burocratico, in cui le singole istituzioni scolastiche
svolgevano un ruolo sostanzialmente esecutivo di disposizioni impartite
dall’alto, a un modello “federale” a responsabilità decentrata e diffusa
«di natura poliarchica, che, in modi, ruoli e tempi differenti coinvolge
allo stesso tempo Stato, Enti territoriali, istituzioni scolastiche e
famiglie».
Si tratta appunto di un modello di istruzione e formazione coerente con
la forma “leggera” di Stato conseguente al processo di erosione del
modello tradizionale di Stato-nazione, che poggia su un delicato e
complesso equilibrio di poteri improntato al principio della
sussidiarietà verticale e orizzontale, in cui l’autonomia della singola
istituzione scolastica trova una garanzia costituzionalmente garantita.
Occorre prestare molta attenzione ai rischi insiti in una tale
architettura di sistema ed evitare, in particolare, un’eccessiva
frantumazione regionalistica sia degli aspetti formali che degli
elementi contenutistici e disciplinari: al riguardo, appare necessario
garantire concreta applicazione al «fondo perequativo» e agli
«interventi speciali» previsti dall’art. 119 della Costituzione, nonché
assicurare il rispetto delle «norme generali» e dei «principi
fondamentali» attraverso adeguati strumenti di controllo e di
risoluzione del contenzioso. Ma è importante sottolineare anche come la
Legge 3/2001 appaia improntata alla governance e alla
responsabilità e contenga quindi importanti opportunità di libertà
che non vanno trascurate: anche nella scuola, cioè, gli attori in
campo divengono (o almeno possono diventare) soggetti attivi
delle politiche educative e non più oggetti di decisioni assunte
dall’apparato tecnico-amministrativo centrale.
Anche nella scuola la dinamica circolare e orizzontale della “rete” si
sostituisce alla verticalità piramidale e gerarchica della burocrazia.
E tuttavia non si può sottacere l’esistenza di un “baco” nel sistema, di
un’aporia tra autonomia e sussidiarietà, che rende ambigua e
opaca quell’istanza di libertà decentrata e diffusa su cui il sistema
intende reggersi, e che rappresenta forse il segno della difficoltà di
questa nuova cultura politica a farsi strada e a superare le resistenze
(probabilmente anche inconsapevoli) di una mentalità istituzionale di
tipo tradizionale. Giacchè nel passaggio dal macrosistema dell’impianto
istituzionale complessivo al microsistema della singola istituzione
scolastica, la logica “reticolare” della sussidiarietà si infrange e si
spegne nell’assetto sostanzialmente verticistico e “aziendale” della
scuola autonoma. E’ risaputo, infatti, che la riforma della Pubblica
Amministrazione ha il suo perno nella ridefinizione della figura
dirigenziale, che ha visto aumentate considerevolmente le sue
responsabilità (e conseguentemente le sue retribuzioni). Per quanto
riguarda la scuola, ciò ha reso necessario il passaggio appunto all’area
dirigenziale dei presidi, che non svolgono più «funzione di promozione e
di coordinamento delle attività di circolo o di istituto» (art.
396 D.Lgs 297/1994) ma assicurano «la gestione unitaria
dell'istituzione», e hanno «autonomi poteri di direzione, di
coordinamento e di valorizzazione delle risorse umane» (art. 25 D.Lgs
165/2001). Inoltre, il Ddl approvato in VII Commissione il 28 febbraio
2002 assegna al dirigente scolastico la presidenza del Consiglio della
scuola, nonché il potere di convocarlo e di fissare l’ordine del giorno
(art. 5). Per converso, il medesimo Ddl disarticola pesantemente gli
Organi Collegiali: sparisce il Consiglio di Classe, mentre al Collegio
dei Docenti viene riservata in pratica soltanto l’elaborazione del
P.O.F., oltre a «compiti di indirizzo, programmazione, coordinamento e
monitoraggio delle attività didattiche ed educative» (art. 6). Il testo
del Ddl richiederebbe un’analisi specifica più dettagliata. In questa
sede basti osservare come la mappa dei poteri all’interno delle
singole scuole appaia fortemente sbilanciata nel senso
dell’accentramento verticistico nella figura del dirigente, tanto
che vi è chi ha parlato di fenomeno di «feudalizzazione» della scuola.
Di certo, il modello collegiale-partecipativo sembra aver terminato la
sua stagione, per essere sostituito appunto da un modello accentrato di
tipo “aziendale”.
3.
I rischi per la libertà di insegnamento
Una
tale situazione potrebbe mettere una seria ipoteca alla libertà di
insegnamento, non tanto su un piano strettamente normativo, rispetto
al quale essa continua evidentemente ad essere esplicitamente garantita,
quanto piuttosto perché di fatto pone i docenti – sia in quanto
organismo assembleare, sia singolarmente – in una posizione di
“minorità” e di vassallaggio rispetto al dirigente, inficiando de
facto ciò che de iure rappresenta pur sempre un diritto
tutelato.
Pur senza cedere a
tentazioni “apocalittiche”, è tuttavia doveroso e necessario segnalare
questo pericolo, al fine di apportare i necessari correttivi, anche
perché numerosi fattori concorrono, da altre direzioni, a corrodere
potenzialmente la libertà di insegnamento.
4.
Ipotesi di soluzione
La soluzione al problema non può che essere una sola: ripensare il
modello sistemico della scuola dell’autonomia introducendo la
sussidiarietà e la governance all’interno della singola
istituzione scolastica e sostituendo al modello centralizzato e
monocratico dell’autonomia un modello di «leadership diffusa»,
una rete circolare di responsabilità “diffusa”, attiva e partecipata che
“decentri” al livello docente parte dei processi decisionali: quelli
inerenti alla didattica e alle scelte culturali. Non si vede altra
strada per salvare la professionalità docente dalla deriva impiegatizia
in cui versa se non quella dell’assunzione
diretta di responsabilità.
Questo
obiettivo si raggiunge innanzitutto attraverso una maggiore chiarezza
funzionale. Occorre cioè definire con precisione “chi fa cosa” e
tracciare senza ambiguità, sovrapposizioni e interferenze i confini tra
funzioni di carattere organizzativo e gestionale, proprie del dirigente,
e funzioni didattico-culturali, che dovranno essere di competenza
esclusiva (ecco la sussidiarietà) del corpo docente, che le
eserciteranno in piena libertà e autonomia, senza intromissioni e
condizionamenti dall’alto. Ciò implica necessariamente l’attribuzione
a un docente della presidenza del Collegio, su base elettiva. La
netta demarcazione funzionale rafforzerebbe peraltro la richiesta
storica della Gilda di un’area contrattuale separata per i docenti
e si intersecherebbe con un’ipotesi non già di carriera,
bensì di ridefinizione della professionalità docente che, pur
conservando la centralità dell’insegnamento, superi una
nozione di insegnamento inteso esclusivamente come lavoro d’aula e sia
aperta a una maggiore articolazione “orizzontale”: ad esempio,
tutoraggio dei docenti tirocinanti, ricerca e sperimentazione didattica,
formazione e aggiornamento. Una tale soluzione consentirebbe non solo di
progettare percorsi di valorizzazione professionale strettamente
connessi alla funzione docente nella sua specificità
tecnico-culturale - senza cadere nella trappola alienante del
“merito” inteso come “fare altro dall’insegnamento” - ma anche di
socializzare orizzontalmente il patrimonio di conoscenze
didattico-culturali e di esperienze professionali di ciascuno,
arricchendo e variegando le modalità di esplicazione della
professionalità docente. E preservando, grazie a una netta demarcazione
di competenze, la libertà di insegnamento.
E’
chiaro altresì che deve essere evitata a tutti i costi la logica feudale
della delega dall’alto: elettività e avvicendamento – semmai
integrati con opportuni requisiti culturali e di anzianità - sono i
principi che devono ispirare tutto il sistema, che come si è detto è
alimentato da dinamiche circolari e reticolari. Ed è altrettanto chiaro
che deve essere evitata, per le stesse ragioni, ogni forma di
gerarchizzazione: pur variamente esplicandosi, la funzione docente è
unica e la comunità docente non può che essere comunità di pari,
che si assumono individualmente e collegialmente, con pari dignità,
la responsabilità educativa dello studente. Responsabilità che non può
essere in alcun modo dimidiata o asimmetricamente redistribuita.
In
questa prospettiva, appare altresì insensato legare questa molteplicità
di esplicazione di un’unica funzione a forme di incentivazione economica
e di aumenti retributivi, che svaluterebbero ad attività di rango
inferiore il lavoro d’aula, che invece è e deve continuare a essere il
cuore della funzione docente, e rispetto al quale le figure
professionali qui ipotizzate risultano complementari. Piuttosto,
si può pensare a meccanismi di esonero parziale, per non gravare di
eccessivi carichi di lavoro i docenti coinvolti e non recare nocumento
alla qualità dell’insegnamento.
5.
Considerazioni finali
Le
proposte qui presentate vanno assunte come un’ipotesi di lavoro e
di riflessione che offra un contributo, si spera significativo, al
dibattito in corso sulla identità e la valorizzazione professionale
dell’insegnante nel nuovo modello di scuola che va progressivamente
definendosi. E’ parere di chi scrive, tuttavia, che tale dibattito sia
inficiato a monte da una concezione gravemente riduttiva e alienante
della professionalità docente. Concepire, come si fa da parte non solo
governativa ma anche sindacale, percorsi di carriera legati agli aspetti
organizzativo-gestionali della scuola, pretendendo che la
«valorizzazione» della professionalità docente possa coincidere con una
dislocazione funzionale, mortifica e svilisce l’intrinseco valore
sociale dell’insegnamento e creerà, probabilmente, più problemi di
quanti non ne risolva (sempre ammesso che ne risolva qualcuno).
E
tuttavia è con questa concezione che occorre, realisticamente, fare i
conti. La posta in gioco è troppo alta perché ci si possa prendere il
lusso di lasciare ad altri il monopolio del dibattito,
trincerandosi dietro un’opposizione di principio e pregiudiziale
certamente nobile, ma altrettanto certamente sterile e
strategicamente suicida. Occorre metabolizzare i tabù culturali e
ritrovare anche su questo versante – come è stato fatto per altri – la
capacità di elaborare proposte alternative credibili e
politicamente praticabili, senza massimalismi ma anche con fermezza e
chiarezza di intenti.
Ora
che si tratterà di riempire di contenuto la scatola ancora vuota della
riforma può essere il momento giusto. Dopo, con ogni probabilità, sarà
troppo tardi.
Gianfranco Claudione
*
Pubblicato in "Professione docente", aprile 2003
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