Principali argomenti
trattati:
Gli ordini professionali e i progetti di riforma allo studio – La funzione
docente nel nostro sistema di istruzione – Un “Consiglio Superiore della
Docenza” ? – Chiarimenti sulle competenze regionali in materia di istruzione –
Revisione della funzione docente.
Gli ordini professionali
Vi ringrazio dell’invito. Da alcuni anni
dedico parte dei miei studi al settore dei pubblici servizi in generale e della
scuola in particolare. Queste sono quindi occasioni indispensabili per cercare
di capire meglio le cose di cui mi occupo dal punto di vista giuridico.
Le mie saranno delle considerazioni, non un
discorso organico vero e proprio. Di questi tempi si sta riparlando della
condizione degli insegnanti e, da questo punto di vista, è un momento
importante. Ci sono ragioni oggettive che possono facilitare la ripresa in
considerazione di questo problema perché, come sapete, c'è una Costituzione
della Repubblica da applicare.
In questo quadro mi sembra di capire che la
riconsiderazione della condizione dell'insegnante è impostata nei termini di una
sorta di polemica con l'immagine corrente - sia nell’opinione pubblica, ma anche
nel corpo insegnante - dell'insegnante come impiegato; e di un'attrazione, non
so se fatale, nei confronti dell'insegnante professionista. Vi dico subito che
mentre ho chiaro cosa può voler dire l'insegnante impiegato, non ho affatto
chiaro che cosa si intenda per insegnante professionista.
Possiamo impostare il discorso in due modi: ricordare brevemente che cosa
significa l'ordine professionale allo stato della legislazione vigente, magari
con qualche cenno alle proposte che ci sono in materia di nuova disciplina
delle professioni; e vedere che cosa può succedere combinando l'ordine
professionale con la situazione degli insegnanti.
L'ordine professionale è, innanzitutto, un
congegno giuridico per sottrarre determinate attività al mercato e alla libera
iniziativa di chiunque. È un modo, cioè, con cui ci si difende da una logica
puramente di mercato e ci si sottrae alla libera concorrenza. Questo è un
profilo.
Poi c'è l'altro profilo: è un modo per dare
evidenza, visibilità, identità a un certo tipo di attività (il medico,
l'avvocato, l'insegnante), che poggia i suoi elementi di identificazione su dati
di carattere oggettivo, su delle tecnicità specifiche.
L'ordine professionale è inoltre, come sapete, un modo per governare l'attività
di tutti coloro che esercitano la professione. Utilizzo il termine "governare"
in senso totale, pieno. Si tratta di una sorta di dominio su ciò che riguarda
quella determinata professione, nel senso che l'ordine è uno strumento molto
utile e, in certi casi, tradizionalmente indispensabile, per consolidare
l'identità specifica della professione. Innanzitutto attraverso l'accentuazione
e l'ulteriore specializzazione delle proprie tecniche: il medico diventerà
quindi sempre più medico o diventerà un'altra cosa, ma rimarcherà sempre una sua
identità disciplinare. Vi sono connessi aspetti, problemi e compiti di
formazione e di tirocinio. Vi è inoltre l'esclusiva o la partecipazione alle
forme di reclutamento di coloro che poi potranno esercitare la professione. E
infine la produzione di regole in qualche modo rilevanti sul piano giuridico,
che sono le regole della deontologia professionale. Tali regole sono un'altra
faccia dell'identità specifica di quella certa attività. Sono collegati a
questo potere quelli della vigilanza sulla loro applicazione e la sanzione
disciplinare nei confronti degli associati. Un’altra competenza degli ordini,
che vale ovviamente per l’attività libero-professionale, è la determinazione
delle tariffe.
In
termini giuridico-formali l'ordine professionale, nel nostro ordinamento, è un
ente pubblico, e non un soggetto privato, è organizzato secondo il principio
dell'autogoverno ed è di tipo associativo, perché gli organi direttivi sono
espressi dalla corporazione. Utilizzo il termine corporazione per indicare
un'associazione non basata sullo statuto di cittadinanza generale, comune a
ciascun appartenente alla Repubblica. Sono quindi corporazioni i genitori, gli
studenti e così via. Come ho detto, non si tratta però di un ente pubblico in
senso autentico (espressione diretta o indiretta di tutti) in quanto è
costituito da personaggi privati che hanno uno statuto giuridico di privilegio
perché sono, in un certo senso, istituzionalizzati e hanno dei poteri di
carattere pubblicistico.
Il potere pubblico riconosce
queste creazioni, che spesso sono in conflitto nei confronti dell'autorità
politica, ma anche di altri corpi sociali, perché seguono le logiche di difesa
della corporazione. Sappiamo infatti, dalla Rivoluzione francese in poi, dei
problemi che le associazioni, e in particolare quelle che diventano "fette" del
potere pubblico, propongono sul piano generale e sul piano costituzionale. Sono
questioni da non esagerare (o esasperare), ma anche da non sottovalutare. Gli
ordini professionali sono (in parte, entro certi limiti) un'entità appartenente
all'esperienza comune e anche la loro partecipazione a fette di potere, ma il
fenomeno resta giuridicamente molto delicato. Possono trovarsi infatti in
bilico tra la legittimità e l'illegittimità nei confronti della Costituzione.
Occorre spiegare perché, dal punto di vista
dell'interesse pubblico generale, noi cittadini della Repubblica attribuiamo
quote di potere pubblico agli ordini professionali. Il fenomeno è giustificato
da motivazioni serie, almeno nel caso degli ordini professionali. In primo
luogo, vi è il sapere tecnico in quanto tale: la società ha bisogno di un certo
sapere tecnico che è dominio di alcuni professionisti. Una sentenza
recentissima, di particolare rilievo, contribuisce a definire i rapporti tra i
profili tecnici e i profili politici. È la sentenza Corte cost. n.
282/2002. Si tratta di una legge della regione Marche, che dispone la
sospensione, nel territorio regionale, di determinate pratiche terapeutiche (la
terapia elettroconvulsiva e interventi di psicochirurgia), fino a quando il
Ministero della Salute non dimostri in modo preciso, circostanziato e
comprovato che la terapia è efficace, risolutiva e non comportante danni di
altro genere. La Corte costituzionale ha ritenuto illegittima la legge perché
essa costituisce una decisione che il potere politico (il Consiglio regionale)
risulta aver assunto in mancanza di una qualsiasi previa istruttoria e
valutazione di carattere tecnico. Le pratiche terapeutiche (secondo la Corte
cost.) sono infatti riservate in linea generale e di principio ai tecnici della
professione, ai medici. Questo ragionamento può essere applicato a qualsiasi
tecnico, per lo meno sul piano logico e di principio. Dunque, l'ordine
professionale è un modo con cui la corporazione dei tecnici si garantisce.
Ma, su altro versante, l'ordine è anche il
modo con cui i pubblici poteri (i poteri politici e la società) cercano in
qualche modo di evitare che il sapere tecnico si trasformi in un potere
incontrollato e straripante.
Infatti, l'altra esigenza è la tutela della
fede pubblica, la necessità di un minimo di verifica sulla serietà degli
addetti alla corporazione, come mezzo di tutela dell'interesse sia della
società sia, peraltro, anche della corporazione in quanto tale. Invero, quando
la corporazione finisce per essere costituita da soggetti di basso profilo, è la
corporazione che si degrada, come avviene ovunque.
C'è quindi un duplice interesse: da una parte
l'interesse "strategico" dei componenti della corporazione alla conservazione
della propria identità e, da un'altra, l'interesse dei cittadini a poter fare
affidamento su quei determinati tecnici.
Se questo è a grandi linee l'ordine
professionale, bisogna ricordare che vi sono elementi e principi che inducono a
guardare comunque a questo istituto con cautela.
L'ordine professionale non può essere la
regola per la disciplina delle attività di lavoro, è un'eccezione. L'ordine
entra automaticamente in contraddizione con il diritto al lavoro, con la libertà
dell'attività professionale e così via. Ad esempio, quando si è trattato di
capire in che modo attuare correttamente la norma costituzionale che prevede
l'esame di Stato per l'esercizio di certe professioni (art. 33, c. 5, v.
C. Maviglia, Professioni e
preparazione alle professioni, Giuffrè, Milano, 1992, pag. 75 e segg.), si è
detto che tale misura può essere adottata solo in particolari circostanze:
quando l'esame di Stato e quella determinata abilitazione sono necessari per
salvaguardare interessi di particolare rilievo costituzionale. Ci vogliono
quindi interessi forti per giustificare un intervento pubblico limitativo della
libertà di lavoro.
Ritroviamo tutto questo in alcune prese di
posizione di altre istituzioni. Ad esempio, in un'indagine avviata nel 1994
dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato, la quale, in linea
generale e di principio, mette in relazione gli ordini professionali e
implicazioni restrittive per la concorrenza: basti pensare alle tariffe, ai
minimi e massimi tariffari, ecc.
Un indirizzo di questo genere è manifestato
in termini più radicali da filoni giurisprudenziali della Corte di Giustizia
della Comunità europea.
La Comunità Europea nasce all'insegna delle
quattro libertà di circolazione (merci, persone, servizi, capitali), fra cui
rientra la libertà professionale, ed è ovvio che tutte le misure che impongono
riserve di attività, restrizioni all'accesso, abilitazioni, eccetera, sono
guardate in linea di principio come "cose" che l'ordinamento comunitario può
accettare solo se hanno consistenti giustificazioni. La regola è la libertà
professionale. C'è stata (tra altre) una sentenza della Corte di Giustizia
(Sezione V, 7 marzo 2002, causa C-145/99, in Giornale di Diritto
Amministrativo, 2002, p. 609 e segg.) che ha deciso per l'illegittimità
(perché eccessivamente restrittive) delle condizioni richieste per l'esercizio
della professione forense in Italia da parte di colleghi di altri paesi europei.
Questo è l'ordine professionale in termini
generali: è un'istituzione, un congegno organizzativo, su base rappresentativa,
che può essere utilizzato solo in presenza di determinati elementi.
Progetti di riforma degli
ordini
In conseguenza anche dei problemi che sono
stati posti dall'ordinamento comunitario, vi sono molti progetti di riforma
degli ordini. Mi soffermo su un progetto di legge (XIV Legislatura, Atti
Camera n.2708) in cui opera con riferimento alla distinzione tra
professioni regolamentate e professioni nuove non regolamentate.
Bisogna fare però attenzione: in realtà anche le professioni definite nuove non
regolamentate sono regolamentate: sono regolamentate sotto il titolo di
"professioni non regolamentate" (tutto qui).
In queste etichette c'è un fenomeno di
rilievo. Le professioni regolamentate sono quelle corrispondenti sostanzialmente
agli ordini professionali, quindi si riproduce per intero il meccanismo
tradizionale: l'abilitazione, l'esame, gli ordini (artt. 3-4). Gli ordini siano
organizzati con consigli locali e nazionali, sono enti pubblici. La presenza di
questi enti pubblici impone determinate misure organizzative all'organizzazione
dell'Amministrazione dello Stato. Si prevede (art. 5): la creazione, presso la
Presidenza del Consiglio dei Ministri, di un Dipartimento appositamente
destinato a curare questi profili; una Consulta di tutte le professioni come
strumento per far valere le politiche delle professioni; la possibilità di
adottare codici deontologici, nonché poteri tariffari. Grosso modo si rimane
nell'ordine di tipo tradizionale.
L'aspetto, a mio parere, invece,
interessante è quello delle cosiddette professioni nuove non regolamentate,
collegate a ciò che in questo progetto di legge è testualmente definito
"associazione professionale". Faccio riferimento a questo progetto (già citato)
per la definizione di "associazione professionale", perché è bene mettere
qualche paletto di univoco (anche se convenzionale) riferimento, in quanto
associazione professionale può voler dire un numero infinito di cose.
Questo fenomeno delle attività “non
regolamentate" (ma in realtà, come avvertito, regolamentate) in collegamento con
le associazioni professionali è nuovo per noi, in parte almeno, ma l'idea è
vecchia. Si tratta, in fondo, di un modo con cui si cerca di certificare la
qualità della prestazione di un servizio. È una specie di marchio "doc". Come vi
è la certificazione della qualità di un prodotto, queste figure sono degli
strumenti (a mio parere intelligenti) per certificare in qualche modo la qualità
di una professione nel suo insieme e quella del singolo professionista.
Il meccanismo è il seguente: alcune persone
svolgono una certa attività che ha delle caratteristiche tecniche; questi
signori costituiscono un'associazione, che è abilitata a rilasciare degli
attestati, con cui si certifica che quel determinato signore è competente a fare
una certa cosa. Il tutto però si fonda su basi esclusivamente privatistiche,
perché l'associazione è privata. Ad esempio, degli allevatori di formiche creano
un'associazione che viene resa nota al pubblico e che certifica che determinati
signori sono bravi ad allevare le formiche. Naturalmente è una certificazione
che non ha uno specifico valore legale, ma questo non vuol dire affatto che non
abbia valore: il suo valore dipende dal prestigio e dall'autorevolezza
sostanziali dell'associazione. Si pensi alle società di revisione e agli
organismi che esprimono giudizi sulla situazione economica di un'impresa,
sull'economia di un Paese, ecc.: fanno valutazioni tecniche di tipo privatistico,
perché sono enti privati; ma è molto più incisiva, per l'andamento della
politica economica di un paese, la valutazione di Moody's, che non diecimila
leggi, regolamenti, piani e quant'altro (che pure sono dei comandi). Tutto si
giuoca sulla credibilità di fatto, reale.
Le associazioni professionali di cui si parla
rilasciano attestati di competenza ai soci. Essendo associazioni su base
privatistica, quindi volontarie, non implicano nessun monopolio giuridico per
l'esercizio di tale attività: chiunque può allevare formiche, anche se non
iscritto alla Gilda delle Formiche, alla Lega delle formiche, e così via. È
ovvio che, operando su basi privatistiche, non possiamo, associandoci, vietare
ad altri di esercitare la nostra stessa attività. Possiamo infatti associarci
solo per dire al pubblico che se tanti sono gli allevatori di formiche, noi
siamo particolarmente bravi.
Per consolidare questo fenomeno, si prevede (artt.
23 e seguenti) la costituzione di un ufficio, un Dipartimento delle associazioni
professionali, con un registro e certe norme che riguardano i loro statuti.
Qualsiasi associazione, che aspiri ad avere rapporti con il potere pubblico,
deve assoggettarsi a misure di controllo e deve essere organizzata nel rispetto
di principi generici di democraticità.
Poi, è previsto che le associazioni possano
adottare dei codici deontologici, come una specie di ordine, ma in forma
privatistica, senza privilegio giuridico.
Siamo dinanzi ad una versione privatistica
dell'ordine professionale. Si cerca di creare una struttura organizzativa che
dia evidenza alla professione e che consenta di valorizzare gli aspetti di
autorevolezza sostanziale della professione, e si è capaci di rinunciare al
vecchio sistema della rendita di posizione, che deriva da una situazione di
privilegio giuridico, qual è quella dell'ordine professionale.
Sono previste inoltre le società di
professionisti, anche se è un aspetto un po' diverso, per la cui comprensione
sarebbe necessaria la presenza di un commercialista, di un tributarista, di un
ragioniere. Queste società già esistono, sono disciplinate, anche se solo per
certi aspetti.
Si ribadisce nel contempo, all'articolo 1
comma 3 di questo progetto di legge, che l'attività libero-professionale
consiste prevalentemente in un’obbligazione di mezzi e non di risultati;
ovvero: mi impegno a curarti, ma non a guarirti ... se poi muori…"
Bisogna riconoscere che si tratta di una
caduta di stile, per di più pericolosa. E’ ovvio che l'obbligazione, ad esempio,
dell'avvocato non è quella di vincere la causa. Tuttavia l'insistenza
sull'obbligazione di mezzi potrebbe far pensare che, se il cliente perde la
causa (o se il paziente muore), siamo sempre e comunque tranquilli. In realtà,
pur trattandosi di un'obbligazione di mezzi, quanto alla necessità di utilizzare
quei mezzi in un certo modo (con diligenza, prudenza, perizia), l'obbligazione
non è di mezzi, bensì di risultato. I mezzi devono essere utilizzati con
diligenza, con prudenza e con perizia, e questo non è un mezzo, ma un risultato.
Se la causa si perde (o se il paziente muore), qualche problema potremmo averlo.
Insomma: sarebbe stato meglio non insistere troppo sull'obbligazione di "mezzi":
può indurre in equivoci.
C'è inoltre una norma che pone un obbligo di
copertura assicurativa (art. 13) e che pone il limite al danno risarcibile in un
predeterminato multiplo del compenso ricevuto. Si stabiliranno dei coefficienti.
Non è prevista una misura risarcitoria che sia necessariamente corrispondente al
danno effettivamente provocato; in effetti, con un piccolo parere si possono
provocare gravi danni. Immaginatevi la società di revisione che sbaglia nella
valutazione tecnica di un'impresa come la General Motors.
La funzione docente
Rimane da illustrare la seconda parte, su
come questa linea di pensiero (l'ordine professionale inteso in senso
tradizionale e l'associazione professionale intesa come una versione puramente
volontario-privatistica dell'ordine professionale) si può riferire all'attività
dell'insegnante.
Se per attività di insegnamento intendiamo,
ad esempio, il compito di trasmettere a qualcuno la tecnica per battere un
chiodo, per usare un cacciavite, eccetera, in questi termini non può essere che
un'attività libera. Non si può impedire allo studente di matematica (o a
chiunque) di fare ripetizioni, al bambino genio (o anche non di genio) di
insegnare l'italiano o altro. E’ un’attività che si basa sui rapporti sociali e
sulla credibilità sociale; finché tutto si svolge senza usufruire di rendite di
posizione giuridica e finché il pezzo di carta rilasciato è una privata
dichiarazione di stima e di apprezzamento, non si può impedire lo svolgimento
dell'insegnamento. In questi termini è un'attività libera, fermi i limiti
generali di ordine, ad esempio, penale (debbono essere attività non truffaldine,
ecc.).
Una specificità molto marcata dell'attività
dell'insegnante è invece in ciò che la possibilità economica di sopravvivenza
della professione di insegnante si basa su un sistema di finanziamento pubblico.
Le occasioni di esercizio della professione di insegnante sono inserite in gran
parte nel contesto di un servizio pubblico, pertanto dipendono dalla finanza
pubblica. Questo è già un elemento di grande diversità, perché gli ordini
professionali nascono per garantire e tutelare le attività professionali in
situazioni di logiche di mercato. Qui invece le possibilità di lavoro derivano
in gran parte dal fatto che esiste il servizio pubblico dell'istruzione.
E qui ci sono (semplificando, per brevità)
due correnti di pensiero. Secondo la prima, il servizio si giustifica sulla base
dell’interesse della Repubblica e deve essere quindi reso in condizione di
neutralità culturale e ideologica; è il pluralismo ideologico nelle
scuole. La seconda concezione del servizio pubblico è quella che prevede il
pluralismo ideologico delle scuole.
Io
appartengo a coloro che ritengono, dal punto di vista giuridico, che sia
corretta la prima soluzione, perché nella Costituzione si parla di "libertà di
insegnamento", e anche perché mi trovo in difficoltà a immaginare che con i miei
soldi contribuisco a finanziare degli orientamenti ideologici, del tutto
legittimi, ma che non sono i miei.
Sapete tuttavia che ci sono giuristi che ritengono corretta l'altra soluzione.
Vorrei solo aggiungere e segnalare (per doverosa chiarezza) un aspetto che
differenzia il mio pensiero da quello di molti altri che con me comunque
condividono la prima soluzione.
La
indispensabile neutralità del sistema dell'istruzione pubblica (da intendere
come pluralismo nella scuola) non significa che le scuole debbono essere
necessariamente scuole pubbliche; significa invece che le scuole debbono
utilizzare una funzione docente che, sempre e comunque, si muova in condizioni
di libertà. Se una certa scuola privata salvaguarda e garantisce in modo
totale, alla pari della scuola "statale" (metto le virgolette perché, dopo il
Titolo V, la scuola "statale" acquista - o può acquistare - un significato un
po' - o molto - diverso rispetto alla tradizione), la libertà della funzione
docente, non ho problemi ad ammetterla in pieno nel sistema dell'istruzione
pubblica. Quindi, a mio parere, quella scuola può essere finanziata, come si
finanzia il concessionario di un pubblico servizio. Il punto decisivo è: per
essere finanziato, il concessionario deve essere idoneo a svolgere quel pubblico
servizio.
Se è immaginabile che un imprenditore privato
organizzi un nucleo preposto a erogare istruzione e che rispetti lo statuto
giuridico della professione docente, non vedo preclusioni pregiudiziali.
Francamente, il discorso a me pare perfettamente coerente, in quanto il perno di
tutto il sistema è la funzione docente, che deve essere identica ovunque si
istruisce a titolo di istruzione pubblica (e si usa denaro pubblico). Se invece
la scuola privata ha un stato giuridico diverso, non entra nel sistema nazionale
dell'istruzione. D'altra parte l'istruzione è l’insegnamento, è questo ciò che
va garantito. Ci sono tanti altri problemi da affrontare, ma non vedo altre
pregiudiziali per escludere le scuole private.
Vorrei fare una seconda precisazione. Il
finanziamento dell'istruzione pubblica può avvenire in tanti modi. Semplificando
al massimo, si possono individuarne almeno due. Il primo modo consiste nel
finanziare sia le persone che le organizzazioni che erogano il servizio, che è
all'incirca il sistema attuale, anche se sta cambiando. È lo Stato che paga
l'insegnante. È lo Stato o la Regione o l'ente locale a fornire i mezzi
(l’edilizia, gli arredi e via dicendo). Il cittadino usufruisce solo del
servizio.
Si può immaginare però un altro modo: si
danno al cittadino i soldi per acquisire la prestazione dove preferisce. Invece
di finanziare la scuola, finanzio l'utente. È la storia del buono scuola. Finché
si ragiona con questi dati, dal punto di vista giuridico, l'uno o l'altro metodo
di finanziamento sono ineccepibili. Tuttavia è chiaro che c'è un limite alla
seconda strada, quella del buono scuola.
Il sistema del buono scuola infatti non può,
né direttamente, né indirettamente, entrare in contrasto con la logica che
caratterizza l'autenticità dell'istruzione pubblica. Può quindi anche essere
ammissibile il finanziamento dell'utente con il buono scuola, ma è necessario
prescrivere la condizione che quell'utente si potrà rivolgere solo a delle
strutture dove lo statuto giuridico della funzione docente è identico a quello
vigente nella scuola "statale". Si torna quindi al punto di prima.
Ci sono tanti problemi, ma si tratta di
organizzarsi e di pensarci, c'è molto lavoro da fare. Potrebbe essere un modo
per dare delle flessibilità. Un punto però è chiaro: non è possibile inquinare
la caratteristica fondamentale del sistema pubblico dell'istruzione (la
neutralità) con il buono scuola.
Concludendo: come ho già detto, la soluzione più corretta è il modello più
tradizionale, con la variante però di un possibile ingresso della scuola
privata, purché si garantisca la libertà dell'insegnamento.
La
libertà di insegnamento non è un fatto privato, ma è una caratteristica della
funzione, come l'indipendenza e l'imparzialità non è una prerogativa del signor
Rossi, magistrato, ma è una prerogativa della funzione. La specificità
dell'insegnante è già in questa dimensione di necessarietà giuridica.
L'insegnante deve infatti operare in condizioni di libertà. Io, come cittadino,
pretendo che il giudice sia imparziale e indipendente e pretendo anche che
l'insegnante operi in condizioni di libertà. La libertà dell'insegnamento è un
valore, che (può piacere o non piacere) è stato assunto nel 1948 nella
Costituzione e, finché non si cambia la Costituzione, è intangibile.
Un
organismo che garantisca la funzione docente
Alla luce delle premesse esposte il filo da
tirare per valorizzare l'insegnante, che non ha mercato al di fuori
dell'intervento dello Stato nell'istruzione, è quello di una garanzia della
funzione come funzione pubblica. Si dovrebbero quindi costruire degli
organismi pubblici in cui la funzione docente si identifica e fa le proprie
politiche (tecnico-culturali) attraverso i docenti. Non è l'ordine
professionale, perché qui siamo in altri ambiti di idee, e possiamo benissimo
attribuire a questi organismi dei poteri determinanti, anche se non finali, ad
esempio in termini di formulazione di proposte, di pareri obbligatori sugli
standard, sui criteri di valutazione, sulla formazione, sulla deontologia, sulla
valutazione della congruità dei mezzi che la politica mette a disposizione
dell'istruzione. Ad esempio, in occasione della discussione del bilancio,
possiamo immaginare che un organismo rappresentativo dei docenti esprima il
proprio parere tecnico (e non politico) sui mezzi messi a disposizione dal
governo per raggiungere determinati obiettivi e così possa dire se li ritiene
adeguati o insufficienti. La decisione, naturalmente, rimarrà al governo che
deciderà come crede, attraverso l'esercizio di un legittimo potere politico.
Però, con questo metodo, si renderebbero più razionali e trasparenti le scelte
politiche, perché si metterebbero in evidenza i dati obiettivi a cui esse devono
comunque riferirsi, e le scelte diventerebbe più controllabili e - se del caso
- criticabili.
In conclusione: questi organismi
consentirebbero una congrua identificazione della professione.
Domanda:
Potrebbe chiarire la configurazione di questa
sua proposta?
Risposta:
Sono cose su cui bisogna riflettere,
soprattutto con chi impersona la funzione docente. Anch'io la impersono, ma in
un contesto un po' diverso, quello universitario, quindi non mi rendo conto
appieno dei problemi degli altri o posso avvertirli in maniera superficiale.
Peraltro, con queste doverose avvertenze, direi, ad esempio, che un sistema
potrebbe essere la creazione di un collegio, di un consiglio. Nel quadro attuale
di ripartizione delle competenze, potrebbero andar bene un consiglio di livello
nazionale e dei consigli a livello regionale, con l'elezione da parte di tutti i
rappresentanti del corpo docente; con pochi membri però, perché, se facciamo
organismi con troppi componenti, li condanniamo al niente. Quindi, un consiglio
nazionale incardinato nelle strutture amministrative dello Stato, giustificato
sulla base della Costituzione attualmente vigente. Credo che, in virtù delle
considerazioni già espresse, il primo contenuto delle norme generali
sull'istruzione sia la rideterminazione della funzione docente. La scuola è il
docente, è quindi necessario che le norme generali sull'istruzione parlino del
docente. Tali norme sono una competenza rimasta allo Stato, quindi ciò legittima
che vi siano delle strutture amministrative di livello statale.
Per quanto riguarda l'attuale assetto della
Costituzione vigente, ma anche per i possibili cambiamenti previsti dalla
modifica proposta da Bossi, trovo che la demonizzazione che corre sui giornali
della modifica dell'art. 117, dal punto di vista tecnico-giuridico, non abbia
fondamento. L'articolo 117 versione Bossi confonde un po', darà un po' di lavoro
ai miei colleghi, ma è già tutto compreso nell'articolo 116 e anche nell'art 117
testo vigente. In tema di istruzione, la proposta "Bossi", dopo il quarto comma
testo ora vigente, inserisce una nuova disposizione dove si afferma la
competenza legislativa regionale "esclusiva" in punto di "…organizzazione
scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione "(a cui è stato
poi aggiunto, per effetto di un emendamento: "salva l'autonomia delle
istituzioni scolastiche"), nonché di "definizione della parte dei programmi
scolastici e formativi di interesse specifico della regione". Questi "pezzi" si
aggiungono alle norme precedenti e non le sostituiscono. Quindi, dire che con
questa norma le Regioni si appropriano delle norme generali dell'istruzione è
affermazione non corrispondente al vero. Le norme generali sono di competenza
dello Stato e non delle Regioni. Le Regioni potranno solo determinare, nella
parte stabilita dalle norme generali sull'istruzione, le quote di programma che
saranno loro devolute. Le norme generali di istruzione, intese come il potere
volto a determinare le misure generali di uniformità del sistema nazionale
dell'istruzione, sono di competenza dello Stato, come indicato nel comma 3
dell'attuale art. 117. La storia dei programmi, fra l'altro, è già implicita
nell'attuale testo dell'art. 117 ed è stata esplicitata, con la mia totale
condivisione, nel disegno di legge Moratti. L'istruzione è un'attività
tecnicamente qualificata, che si deve svolgere in condizioni di libertà; questo
però non significa che il potere politico non possa mettere bocca in materia di
istruzione. Il potere politico ha l'obbligo di acquisire tutte le valutazioni
dei tecnici per gli obiettivi generali del sistema dell'istruzione, ma chi deve
decidere se investire miliardi per l'istruzione (o sulle pensioni) è il
Parlamento, cioè il potere politico (come si è visto, la citata Corte cost.
n. 282/2002 vuole che si tenga conto adeguatamente della dimensione tecnica, ma
non dice affatto che la tecnica sostituisce la politica). In un regime
democratico non possono essere i tecnici a prendere tali decisioni. È un
problema di equilibrio, nel senso che la decisione politica non può penetrare
oltre una certa misura e deve essere presa con cognizione di causa, cioè
sentendo i vari tecnici, ma, specie se i pareri sono discordi, è il politico
che deve decidere. Non saprei immaginare un altro sistema in un ordinamento
costituzionale. Una volta stabilito che nella materia dell'istruzione, anche sui
programmi, c'è uno spazio legittimo per la politica, mi volete spiegare perché
questo spazio deve pregiudizialmente escludere in maniera totale le Regioni? non
sono esse un potere politico e legislativo come lo Stato? e l'istruzione, salvo
aspetti specifici, ormai è competenza anche regionale.
Domanda:
Questo avverrà quando il disegno di legge
diventerà effettivo?
Risposta:
No, non tutto passerebbe alle Regioni: il
disegno di legge "Bossi" indica come competenza esclusiva dei pezzi
dell'istruzione, non il tutto; poi, per quanto riguarda la quota regionale
rilevante per i programmi (e simili), una tale possibilità si può già dedurre
attraverso l'interpretazione dell'articolo 117 vigente. È sicuramente un
argomento su cui riflettere. Però, in un assetto di competenze quale quello
risultante dal nuovo Titolo V, la Regione è un potere politico pienamente
legittimato alla pari dello Stato, quindi perché non può assumere queste
competenze? Si replica: per assicurare un'esigenza di uniformità che è
salvaguardata dallo Stato. Mi dispiace, ma non riesco a credere che la scuola
della Repubblica vada allo sfascio per un limitato ambito decisorio attribuito,
in quadro comunque di norme generali uniformi, alla Val d'Aosta o alla Sicilia.
Vorrei che si riflettesse su questo argomento
sulla base di dati che sono certo in parte discutibili, ma che non siano
palesemente tendenziosi.
In questo contesto l'idea che il personale
della scuola rimanga personale statale non è coerente. Lo Stato, se
interpretiamo il nuovo sistema, non ha competenze tali da giustificare il suo
ruolo di datore di lavoro dell'insegnante. La Costituzione nuova consente
l'esistenza di strutture amministrative dove c'è un certo tipo di competenze; se
questo tipo competenza non c'è più, non c'è nemmeno la ragione per avere la
funzione amministrativa.
Tuttavia, non considererei la novità così
devastante come può sembrare a prima vista, perché, almeno a mio parere, lo
stato giuridico della funzione docente è definito dalle norme generali di
istruzione ed è uguale in tutto il territorio della Repubblica. E, per stato
giuridico della funzione docente, intendo non solo aspetti che riguardano
l'esercizio in sé della funzione, ma ovviamente aspetti determinanti quali sono
il reclutamento, le garanzie di libertà e di stabilità del rapporto di lavoro.
Non si può dire che questi profili stanno fuori dalle norme generali di
istruzione in quanto costituiscono disciplina del rapporto di lavoro. Si tratta
di aspetti determinanti in funzione della garanzia della libertà di insegnamento
e devono quindi essere disciplinati dalle norme generali di istruzione, come le
modalità di reclutamento e la stabilità del rapporto di lavoro del giudice, che
si stabiliscono con legge.
Domanda:
E che bisogno c'è di trasferire queste
competenze alle regioni?
Risposta:
Per ragioni di efficienza amministrativa e
per ragioni di un minimo di consonanza e di responsabilità. Non dico che
funzionino bene, dico che questo è il sistema e che comunque bisogna rifletterci
con impegno e, ripeto, con dati affidabili. A Costituzione vigente, è una
possibile prospettiva, non so quanto buona e perciò a maggior ragione meritevole
di estrema attenzione. Rimuovere questo problema, perché si pensa che non
rientri nel sistema costituzionale, è una posizione fragile dal punto di vista
giuridico, in quanto gli elementi per concludere in senso diverso, a mio parere,
sono prevalenti.
Domanda:
Io ho partecipato alcuni anni fa a un
convegno in occasione della riforma De Mauro. Erano stati invitati tutti i
docenti. Per il problema della libertà di insegnamento, a noi erano state date
delle scatole vuote con le ore decise e il nostro problema era dimostrare che la
nostra disciplina era più importante di un'altra, perché non venisse eliminata
in seguito al discorso della riduzione delle ore.
Vorrei inoltre dire un'altra cosa sulla
libertà di insegnamento. A livello politico si è potuto constatare che certi
direttori didattici hanno fortemente indirizzato i docenti. In quale modo
riusciamo a mantenere la libertà di insegnamento?
Domanda:
A parte le strumentalizzazioni delle forze
politiche, io sospetto che il centro-sinistra voglia scaricare su questo disegno
di legge Bossi gran parte degli effetti invece provocati dalla sua modifica
costituzionale, fatta forse pensando di poter svuotare la protesta leghista e
vincere le elezioni. La manovra poi non è andata in porto, quindi forse l'Ulivo
vuole dimostrare che quello che un domani non andrà bene è dovuto alla modifica
di Bossi. Bossi, d'altra parte, vuole mettere il cappello sul federalismo
svuotando tutto quello che ha fatto l'Ulivo e vuole prendersi tutto il merito
con il suo disegno di legge. Ma, al di là di questo, è possibile che la proposta
Bossi non cambi assolutamente niente nel titolo quinto nella riforma
costituzionale? Vorrei conoscere i particolari.
Domanda:
Lei è partito parlando di "condizione
docente" e poi ha detto diverse volte che è necessario rideterminare la
"funzione docente". La condizione, a mio parere è una cosa, e la funzione è
un'altra. In un'altra occasione ha detto che "la funzione docente deve essere
disciplinata con legge e non oggetto di contrattazione". La domanda che le
voglio fare è: perché Lei continua ad affermare che occorre rideterminare la
funzione docente? Le leggi attuali, a mio parere, sono quelle che ancora
salvaguardano la funzione docente. La collega diceva delle cose giustissime: la
funzione docente è legata alla libertà di insegnamento, sono state determinate
condizioni a limitare la libertà di insegnamento, non solo ad opera non solo dei
direttori didattici, ma anche delle regioni. Si fa presto a limitare la libertà
di insegnamento, nel momento in cui si promettono dei finanziamenti se si fanno
determinate cose. Secondo le leggi vigenti, il docente è colui che è preposto
alla formazione delle nuove generazioni attraverso l'insegnamento culturale e
deve avere come obiettivo la formazione umana e critica della personalità dei
giovani. Io penso che non esista una cosa più nobile ed elevata. La mia domanda
è: perché dobbiamo cambiarla? Molti sostengono che l'insegnante non deve più
trasmettere cultura, perché questa trasmissione di cultura è ormai obsoleta, ma
che l'insegnante deve fare altro. E la cosa mi preoccupa un po’.
Risposta:
Per quanto riguarda i problemi del dirigente
scolastico e della libertà di insegnamento, rinvierei la risposta e unificherei
le due domande che penso insistano sullo stesso problema.
Per quanto riguarda invece il Titolo V, non
ho detto che non cambia nulla; ho detto che, a mio parere, cambia molto meno di
quello che viene normalmente detto e, in particolare, che non cambia nulla per
quanto riguarda le norme generali sull'istruzione. Sono inoltre dell'opinione
che le Regioni siano legittimate a determinare una quota dei curricula,
già a Costituzione vigente.
Una conferma di tutto questo è che l'attuale
Ministro ha creduto di poter fare una cosa di questo genere con il disegno di
legge. Come persona di scuola, non ritengo che la scuola della Repubblica possa
andare a picco perché il 5% del curricolo viene determinato dalle Regioni, anche
perché la chiave di chiusura delle interpretazioni giuridiche è la
ragionevolezza.
Il problema più complesso tecnicamente,
quello più difficile, e quello che merita perciò più attenzione, è invece quello
della rideterminazione della funzione docente.
Quando parlo di rideterminazione di funzione
docente non mi riferisco al profilo di cui Lei ha parlato, cioè alla
trasmissione della cultura, bensì agli altri profili, cioè alla necessità di
ridisciplinarla in relazione alle funzioni a cui è collegata, ovvero, in
particolare, di ridefinire i rapporti con il dirigente scolastico e con la
dimensione collettiva della funzione docente, cioè con il collegio docenti. Si
tratta inoltre di ridefinire i rapporti con le forme di partecipazione organica
nell'istituzione scolastica di genitori, studenti e quant'altro. Ritengo,
insieme a pochi altri colleghi, che queste forme di partecipazione organica sono
una (mi si consenta un po' di enfasi) sciagura innanzitutto dal punto di vista
della libertà dei genitori e degli studenti. Lo dico quindi per tutelare la
libertà di genitori e studenti. Si devono spostare le forme di partecipazione
dalla cogestione (che è fonte di confusione e di irresponsabilità) a mezzi di
partecipazione procedimentale: diritti di accesso, di trasparenza, eccetera.
Tutte cose che corrispondono al modello generale della disciplina dell'azione
amministrativa, come è previsto dalla legge generale sul procedimento
amministrativo 241 del 1990, che si occupa appunto della partecipazione alle
procedure, dei diritti di accesso, di conoscenza, ma non di forme di cogestione.
Non c'è niente da cogestire.
La funzione pubblica è una cosa seria,
l'Amministrazione deve ascoltare, verificare, ragionare, ma, poi, decide
l'Amministrazione. Io, cittadino della Repubblica, voglio che decida
l'Amministrazione, ovvero colui che ho legittimato o in base al meccanismo
elettorale o in base a ragioni tecnico-professionali. La scuola non è affare di
mamme, di babbi e di ragazzi, ma è affare che interessa in primo luogo ogni
cittadino della Repubblica.
Per "condizione giuridica" intendo quegli
aspetti di disciplina dei modi di reclutamento, della stabilità del rapporto di
lavoro, ecc., che sono indispensabili per garantire l'esercizio libero della
funzione e che, in quanto tali, non possono essere oggetto di contrattazione.
Questi aspetti debbano essere rideterminati con legge, essendo tutt’uno con la
funzione docente.
Domanda:
Quindi siamo già fuori con la storia degli
insegnanti di religione.
Risposta:
Non c'è dubbio; e siamo fuori anche con la
legge sulla parità.
Domanda:
Lei vede un possibile reclutamento da parte
delle Regioni come un possibile risultato giuridico coerente con quello che sta
accadendo. Da parte della Associazione Nazionale dei Presidi in più sedi si
insiste invece in un'altra direzione, ovvero un reclutamento da parte dei
singoli dirigenti. Io, personalmente, non temo tanto un reclutamento di tipo
regionale, a certe condizioni, ma temo tantissimo l'altra possibilità. Le vorrei
chiedere se vede giuridicamente degli appigli a questo orientamento dei
dirigenti.
Un’altra cosa. Normalmente si dice che la
legge Bossi dà legislazione esclusiva sull'istruzione. Io non ho letto questo,
ma legislazione esclusiva sull'organizzazione e la gestione delle scuole e dei
programmi. Le due cose sono coincidenti o no? Se coincidono, vengono a cadere i
principi fondamentali, perché si legge altrove che dove la materia di
legislazione è concorrente spetta alla Regione la potestà legislativa, salvo per
i principi fondamentali; laddove invece è esclusiva, tutto questo decade.
Vorrei inoltre capire meglio i principi
fondamentali.
Risposta:
Il reclutamento da parte dei singoli dirigenti, a livello di istituto, è una
prospettiva sostenuta da moltissimi. Se con "reclutamento del singolo istituto"
si intende un reclutamento che non è fondato su procedure concorsuali seriamente
garantiste, è un sistema in palese contraddizione con la libertà di insegnamento
ed è inaccettabile. Questo vale per chiunque, per la Regione, per il Comune,
eccetera. Le procedure devono essere identiche. E' concepibile che il posto di
lavoro pubblico te lo dia il capo? No, l'ordinamento della Repubblica non
consente capi, prevede solo responsabilità e servizi, e regole oggettive; non
capi, capetti, caponi, caporali: nulla di tutto questo.
Secondo punto, questa formula potrebbe voler
dire un reclutamento a livello di organico di istituto. Si è dipendenti della
scuola, ogni scuola assume con procedure assolutamente garantite, per cui fa
domanda anche il laureato di Palermo. Non cambia nulla da questo punto di vista,
però si è dipendenti della singola scuola. Questo potrebbe essere giustificato
per ragioni di flessibilità e, dal punto di vista dell'imparzialità, se si
rispettano le procedure, se le procedure sono identiche, di per sé non contrasta
con i principi. Ma è una soluzione meno congrua, rispetto ad un rapporto con la
Regione.
Qui abbiamo due valori costituzionali da
salvaguardare; la politica serve per questo, dovrebbe servire a trovare dei
bilanciamenti accettabili. C'è il problema della garanzia della libertà di
insegnamento e c'è il problema di misure di efficienza, di adeguatezza, che sono
tutte due cose importanti. Data la particolarità della funzione, ritengo che,
quando il bilanciamento può avere un esito dubbio, la preferenza vada data al
criterio della garanzia e non al criterio dell'efficienza. Dal punto di vista
della garanzia, è ovvio che un datore di lavoro più capiente, a livello
regionale (ma potrebbe essere chiunque), consente la costruzione di organici in
cui si possano fare più facilmente compensazioni fra posti che in un certo luogo
diventano in sovrappiù e posti in meno altrove, e consente una maggiore
elasticità, senza problemi particolarmente gravi dal punto di vista della
stabilità del rapporto di lavoro. In questo senso mi sembra più adatto
all'esigenza di rispetto della libertà di insegnamento. Però è un argomento che
non ha una portata assoluta, che può solo indurre a preferire questa soluzione.
Invece, ciò che è assolutamente da respingere è un reclutamento senza garanzia
giuridica, chiunque lo faccia.
Per quanto riguarda le competenze di Stato
e Regioni, se ci sono aspetti che sono ragionevolmente da ricondurre alle norme
generali sull'istruzione, è ovvio che su quegli aspetti dispone lo Stato. E
così, se ci sono degli aspetti ragionevolmente riconducibili ai livelli
essenziali delle prestazioni, ancora e di nuovo avremo una normazione statale.
Quanto ai principi fondamentali, uno può essere, ad esempio, quello dei principi
di base sull'autonomia delle istituzioni scolastiche. Quella rimane ferma,
perché la cosiddetta devoluzione si aggiunge ai commi precedenti e non li
sostituisce; in ogni caso il principio dell'autonomia delle istituzioni
scolastiche è stato successivamente inserito (come accennato) nella stessa
proposta "Bossi".
Domanda:
A suo parere l’autonomia delle scuole è stata costituzionalizzata o è stata
inscritta tra i principi generali?
Risposta:
Sono di quelli che ritengono che l'autonomia delle scuole non è stata
costituzionalizzata perché era già stata costituzionalizzata dall'articolo 33.
E’ solo un’esplicitazione. Se si prende sul serio l’articolo 33, senza troppo
sforzo si arriva all'autonomia delle scuole. Infatti, l'autonomia dell'istituto
scolastico è la dimensione organizzata della libertà di insegnamento. Poiché
questa è l'autonomia dell'istituzione scolastica, essa è scritta nell'articolo
33 della Costituzione.
Domanda:
Professore, siamo in un Paese in cui, la storia ce lo insegna, il diritto è
stato spesso calpestato; e anche regionalizzare l'istruzione – al di là delle
percentuali del 5% e del 20% dei curricula – non sappiamo a che cosa questo
possa portare a livello pratico. Siccome la storia di questo Paese ci dice molto
e ci permette di intravedere qualcosa sul futuro, noi, che in questo caso siamo
utenti oltre che cittadini, forse il diritto ad avere le antenne ben dritte ce
l'abbiamo, o no?
Risposta:
Guardi, sono assolutamente d'accordo con Lei, ma non posso calpestare la
Costituzione vigente per il timore che l'applicazione della Costituzione possa
avere conseguenze negative.
Ha perfettamente ragione; non sono un
entusiasta del nuovo Titolo V, si poteva farne a meno; tuttavia temo che si
possa rimanere in una sorta di limbo e di pasticcio istituzionale, il che
rappresenta la peggiore delle soluzioni. Sul piano giuridico, non vorrei essere
frainteso, mi sono pronunziato in modo netto, perché c'è stata una campagna in
parte fuorviante sui giornali. Per il resto, sono preoccupatissimo come Lei; ad
esempio, sul fatto che anche la ricerca sia di competenza regionale concorrente.
Domanda:
Può darsi però che abbia più soldi..
Risposta:
Può anche darsi, però so che se si dice di no a quello che richiedono
(legittimamente, dal loro punto di vista) gli indirizzi politici regionali (o di
altri enti, il problema esiste con tutti), di soldi si finisce per vederne
pochi, come è ovvio.
Domanda:
Volevo tornare un attimo al tema centrale
della riflessione e cioè alle forme di organizzazione della professione, ordine,
associazione, eccetera. Lei ha avanzato un’ipotesi di un consiglio nazionale e
regionale. Vorrei fare due domande: la prima è quanto questa ipotesi si concili
con l'esistenza anche di un ordine o anche di un'associazione
professionale ed eventualmente di sindacati. L’altra domanda riguarda questa
alternativa ordine/associazione che lei ha ben configurato e che mi sembrava
interessante soprattutto per quanto riguarda la definizione dell'associazione
professionale come qualcosa che si garantisce un po' da sola sul piano della
qualità del prodotto. E’ calzante l'esempio del consorzio del Gallo Nero, che ha
interesse da un lato ad avere molte adesioni, senza però che questo pregiudichi
la qualità del vino, perché altrimenti diventa poco credibile. Quello che mi
chiedevo in pratica è questo: tale idea, che è ben applicabile a una situazione
di mercato, come si può conciliare con la condizione di dipendente
dell'insegnante?
Domanda:
Io volevo tornare alle norme generali sull'istruzione. Lei comprensibilmente ha
insistito molto sulla riserva allo Stato. L'ultimo comma del 116 prevede, se non
ho letto male, questa materia come attribuibile alle regioni ordinarie con nuove
forme e condizioni particolari di autonomia comparabili a quelle delle regioni a
statuto speciale. La prima domanda è come si deve prefigurare questa
possibilità? Mi pare di capire che lo Stato perderebbe la competenza esclusiva.
Risposta:
In questo caso sì, ma d'accordo con le Regioni.
Domanda:
Ma soprattutto se così fosse, quale miscela potrebbe crearsi più o meno
esplosiva con altre competenze che, viste da sole, lei aveva giustamente
sterilizzato con questo baluardo della riserva statale?....
Domanda:
C’è quindi un vuoto riguardo il problema
della scuola, che dovrebbe essere coperto da un'associazione, un ordine, una
qualche entità che possa fungere da autorevole referente, come diceva lei per i
medici, gli avvocati o altri; in questo caso non c’è qualcuno che in qualche
modo metta dei paletti, a partire dai quali i politici poi possano legiferare. I
connotati per fare una cosa del genere mi sembravano più dell'ordine
professionale, da come ha spiegato lei, piuttosto che dell'associazione; e da
stasera io penso che il mio impegno per cercare di iscrivere più persone e
quindi aspirare a contare di più qualitativamente, ma anche quantitativamente,
deve triplicare; e mi dispiace un po', perché speravo in qualche scorciatoia di
questo tipo e che prima o poi, grazie anche ai politici che recepiscono certe
linee di diritto, venisse istituzionalizzata qualche entità di riferimento a cui
conferire finalmente una consistenza giuridica. Poi mi confermi se ho capito
bene.
Riguardo alle questioni del regionalismo, Lei
ha detto che la legge sulla parità è già una contravvenzione alla funzione
docente, che deve essere identica su tutto il territorio della Repubblica. Il
successo garantito e assicurato della scuola berlingueriana, che non credo abbia
differenziazioni rispetto alle attuali tenenze, secondo me è ancora minare alla
base la funzione docente nella sua autonomia, nella sua libertà e così via. Le
intromissioni di esperti, a livello comunale, provinciale, regionale,
rappresentano anch’esse un ridimensionamento dell’insegnante, che si limita a
tenere i ragazzi, tanto poi ci pensano gli esperti, che spesso sono molto meno
esperti degli insegnanti. Poi quello che si sta ventilando ora con la riforma
Moratti è allucinante: la scuola ha un compito di formazione spirituale e
morale, anche (!) in riferimento alla Costituzione. Se penso poi ai vari
progetti delle regioni riguardo al titolo quinto già esistente, che configurano
scuole abbastanza diverse… mi permetta di dire che questo insieme di cose – se
lei come giurista ne tratta in termini abbastanza asettici e al massimo è un po’
preoccupato – a noi ci allarma fortemente.
Mi si dice che la scuola regionale tedesca,
per esempio, è buona; io so comunque che, come in tutti i Paesi che applicano il
federalismo per unire qualcosa che era disunito, c'è l'esigenza massima di
uniformità. Qui noi stiamo facendo proprio l'inverso; cioè da un qualche cosa di
unito (che ha tuttavia problemi di disunità culturale e sociale) si cerca di
tornare indietro, perché tornano quegli istinti da giungla del "ghe pense mi".
A maggior ragione, stando così le cose, vedo allarmante il problema della
mancanza di un referente autorevole di coloro che si occupano della trasmissione
culturale dalla Sicilia alla Valle d'Aosta. Quindi, viva la scuola della
Repubblica, come dice il titolo di un libro di Charles Cutel. Allora io vorrei
sapere qualcosa di più, su quello che posso sperare, perché si possa dar vita a
questo organismo.
Risposta:
L'ipotesi che a me pare preferibile è un'organizzazione pubblica che esprima la
specificità della funzione docente; come cittadino ritengo che questa sia la
dimensione giuridicamente più corretta per soddisfare quell'esigenza, così come
credo che la dimensione giuridicamente più corretta per garantirmi quanto
all'indipendenza dei magistrati sia la formula del Consiglio Superiore della
Magistratura e non l'ordine professionale dei magistrati. È un'interpretazione,
ma la libertà di insegnamento come funzione pubblica non può essere veramente
garantita, a mio parere, attraverso il connubio tra profilo pubblicistico e
profilo privatistico che è il tratto comune degli ordini professionali. Qui si
tratta di garantire la libertà della funzione e ritengo che giuridicamente il
modo più coerente con la libertà della funzione sia quello di definire un
organismo, nel modo migliore possibile, realmente rappresentativo delle capacità
sostanziali dei docenti.
Un organismo pubblico: è la Repubblica che si
deve assumere il compito di concretizzare la garanzia, perché è un problema
della Repubblica, non è un problema (solo) dei docenti, come è un problema
innanzitutto della Repubblica (e non dei magistrati) garantire l'indipendenza
dei magistrati. L'ordine professionale non si incastra bene in tutto questo.
D'altra parte, nella sostanza, salvo vedere come è praticata un'ipotesi di
questo genere, non credo che tutto questo possa costituire un elemento deteriore
dal punto di vista dell'autoidentificazione e dell'autogoverno della funzione
docente; semmai l'obiezione che si può fare è che si dà troppo, come si dice per
i magistrati, in parte non a torto. Voglio dire: se i docenti hanno qualche cosa
da dimostrare, non vedo perché sia possibile con l'ordine professionale e non
lo sia attraverso l'altro modello.
Peraltro, un organismo del tipo indicato,
naturalmente, non può avere compiti sindacali. I profili sindacali sono un'altra
cosa; dobbiamo abituarci a scindere; se cominciamo a sindacalizzare la libertà
non abbiamo né le retribuzioni né la libertà. Ognuno dal punto di vista
sindacale si organizza come vuole. Il punto è uno solo: bisogna rideterminare
la funzione docente e ciò significa in parte rivedere le aree della
contrattazione, nel senso che ci sono aspetti che forse nella contrattazione non
ci stanno. Detto questo, poi, naturalmente, i conflitti ci possono essere: può
succedere che l'organismo a tutela della professione docente si metta a fare il
sindacato, ma sono altre questioni (importantissime e decisive, ma da non
sovrapporre alle altre).
Per quanto riguarda l’associazione cosiddetta
non regolamentata, a questo punto, se viene fatto un organismo pubblico, essa
può rimanere, come una figura puramente privata. Sarà l'associazione di un
gruppo di docenti; l'ipotesi di un organismo pubblico non vieta affatto che i
docenti si facciano le loro associazioni, culturali o sindacali, come del resto
hanno i magistrati.
In tutto questo discorso è rimasto in ombra
un profilo: come accade anche per i magistrati, la libertà della funzione
docente è al servizio di un servizio (l'istruzione pubblica) e quindi la si
garantisce solo se uniamo libertà e sistemi di valutazione e di controllo, sia
pure con tutte le garanzia necessarie per la serenità degli interessati. In
mancanza, la libertà della funzione docente deperisce, come sta deperendo, e
correndo gravi rischi, anche l'indipendenza della magistratura, che
nell'immagine diffusa è un valore in parte spento: se il giudice, alla fin fine,
non dà la sentenza, al cittadino comune del giudice indipendente non interessa
molto; se l’indipendenza non produce un risultato socialmente utile,
l'indipendenza del magistrato interessa a pochi intimi, come a me che sono
giurista... Il vero rischio che corre l'indipendenza della magistratura è un
eccessiva dilatazione degli spazi di politiche (legittime ma) corporative fatte
dalla magistratura. Non è condivisibile un sistema in cui ci si può troppo
agevolmente trasferire lasciando le cause di cui ci si occupa, o in cui una
causa è decisa dopo quindici anni, perché cambiano tanti giudici. Si potrebbe
prescrivere un più rigorose obbligo di residenza, come del resto praticato per
i professori universitari. Questo (un'eccessiva attenzione a esigenze legittime
ma proprie della sola corporazione) è il vero rischio per l’indipendenza della
magistratura, perché questo è nelle cose, e non solo in volontà politiche
soggettive di qualcuno.
E' da evitare che una situazione di questo
genere si produca anche per l'insegnante; l'insegnante, in qualche modo, deve
vivere la sua libertà in una situazione dinamica, di confronto. Io ho la mia
libertà e la debbo misurare e difendere di volta in volta, già con il mio
collega, perché lui (del tutto legittimamente se e finché rimane
un'aspirazione) mi vorrebbe far studiare una cosa, dicendo che se si fa in due
è meglio; e io voglio studiarne un'altra.
Con questa consapevolezza occorre affrontare
anche la prospettiva della regionalizzazione. E' vero che ci sono gravi rischi e
certamente è l'apertura di un nuovo fronte, ma soluzioni schematiche a livello
preliminare e pregiudiziale sono posizioni che giuridicamente tengono poco. E
siccome sono un giurista, sono portato a pensare che, se le soluzioni tengono
poco a livello giuridico, allora tengono poco anche su altri piani; ma questa è
una deviazione professionale.….
Domanda:
Le chiedo se può essere più chiaro. Siamo costretti a seguire Tele Padania per
dovere d'ufficio, per capire le tendenze. L'onorevole Pagliarini, papale papale,
diceva che alla fine, col combinato disposto di quanto è vigente e di quanto lo
sarà nelle loro aspettative e auspici, ogni regione farà quel che vuole. Ci
sarà chi avrà la scuola come noi la conosciamo, parte pubblica, parte privata (
interpretava la competenza organizzativa), altri avranno tutto pubblico –
liberissimi – e altri tutto privato. Secondo lei è plausibile?
Risposta:
Naturalmente, questa cosa (che dice Pagliarini) è da comizio, però non vuol
dire che non possa accadere. Il dato più banale, noto a tutti, è che la
Costituzione della Repubblica è entrata in vigore il primo gennaio 1948, mentre
la Corte Costituzionale ha cominciato a funzionare solo nel 1956. La Corte di
Cassazione, all'indomani dell'entrata in vigore della Costituzione, si inventò
la tesi delle norme programmatiche, cioè di norme che erano acqua fresca, anche
se riguardavano diritti di libertà individuale molto importanti; fino
all'istituzione della Corte costituzionale era la Corte di Cassazione che faceva
il controllo di costituzionalità delle leggi, e non poche norme liberticide del
Testo Unico di pubblica sicurezza – ad esempio – furono salvate con l'invenzione
della norma programmatica: c'era, sì, la norma costituzionale, ma era
programmatica, cioè una norma che si rivolge al legislatore, non direttamente
vincolante: si vedrà, si farà...
La Costituzione della Repubblica prevedeva le
Regioni, ma abbiamo dovuto aspettare quasi trent’anni (se si considera che il
processo di regionalizzazione si è in qualche modo concluso con il D.P.R. n.
616/1977). E' stato un ritardo grave; probabilmente, se le Regioni ordinarie
fossero state istituite per tempo e un pochino meglio, a nessuno (fra l'altro)
sarebbe venuta l’idea di questa rincorsa sul "federalismo". La vita del diritto
è dunque piena di storie di norme non applicate, disattese, deliberatamente
contrastate.
Ma, sul piano dell'interpretazione dei testi,
i discorsi di Pagliarini di cui mi si riferisce sono infondati. Come Lei sa, e
come ho or ora ricordato, però, l'interpretazione giuridica non ci mette al
riparo dagli eventi. Dico sempre ai miei studenti che l'atto amministrativo,
quando è nullo, può non essere osservato, perché non è efficace, e dunque non è
vincolante, ecc. Se però l'atto amministrativo prende la forma di un carro
armato, dico: “attenzione ... è vero che il l'atto amministrativo-carro armato
è nullo, però vi invito alla prudenza"; poi, ognuno decide come vuole
naturalmente: il coraggioso dirà “tu sei nullo, dunque giuridicamente non ti
puoi muovere e perciò non ti muovi"; l'altro dirà “tu sei nullo, e dunque
giuridicamente non ti puoi muovere, ma solo giuridicamente: meglio, intanto,
spostarsi...”.
Questo ribadito, non si deve però dimenticare
che l'interpretazione dei testi è comunque un fattore che incide sulla realtà.
E vale la pena - credo - di spenderlo, anche perché, altrimenti, l'alternativa è
solo la violenza.
Domanda:
Io volevo esprimere due valutazioni e poi invece rivolgerle una domanda molto
diretta. La prima valutazione è sul tema del federalismo e della devoluzione. Io
ho l'impressione che noi come cittadini non eravamo pronti per affrontare così
ex-abrupto una scelta, che comunque è radicale e che lascerà dei segni. Per noi
è molto difficile dimenticare i fantasmi del futuro e superare quelli del
passato, quindi io mi auguro solo che sia una cosa piuttosto lenta e che salti
in avanti e remore ci facciano trovare la giusta strada. Però, ripeto, mi è
sembrato un salto nel buio chiunque l'abbia fatto prima e chiunque lo acceleri
adesso.
Una valutazione volevo fare poi sul suo
discorso del pluralismo nelle scuole, che io condivido in pieno, ma che ritengo
fortemente datato per quanto riguarda la mia storia; cioè il pluralismo nella
singola scuola è un valore inestimabile, ma credo che, per i cambiamenti che ci
sono nella società, per la legge sulla parità, che non è stata cosa da poco, noi
di fatto abbiamo aperto la strada al pluralismo delle scuole. Proprio per questo
ritengo che il reclutamento degli insegnanti, istituto per istituto, da parte
presidi o dirigenti, non sia una cosa così campata in aria. Non sul piano
giuridico, sul piano delle cose effettuali, anche per il semplice motivo che
oggi i presidi sono responsabili dei risultati e, se non hanno la libertà di
avere gli strumenti per raggiungerli, ritengono di non poterci arrivare.
L'altra cosa invece su cui volevo chiedere un
suo parere è questa: ho capito bene oggi la differenza tra ordine e
associazione; sulla base di quella proposta, però, capisco anche che, senza
ordine, per noi insegnanti grandi vie non ce ne sono, perché l'ordine è una
bella lobby, è forte, dà le sue leggi sul reclutamento, sui codici deontologici,
eccetera. e garantisce di più. Il fatto che ci sono per gli altri vuol dire che
un senso ce l'hanno; l'associazione la ritengo una libera scelta di persone che
si ritrovano. Allora ritorno al suo discorso, quello della famosa consulta
nazionale, che io chiamo così e che mi sembra ci sia in Scozia. L'ho visto
presentare come modello esportabile, ma allora le chiedo, l'istituzione di
questa consulta nazionale degli insegnanti deriva dalla forza di una base, che
come dice il collega, a furia di iscrivere gente la si impone o è una scelta che
nasce dal Parlamento, che, in base alla revisione dello stato giuridico degli
insegnati, ritiene che si debba fare? In parole povere noi che strade abbiamo?
Grazie.
Domanda:
Una domanda rapidissima sui rischi della regionalizzazione. Leggevo proprio
stamattina sul Sole 24 Ore Scuola che c'è questo problema per le regioni che
avranno materia esclusiva. Non si capisce bene se sarà esclusiva, non esclusiva,
eccetera. Comunque la contrattazione e comunque la gestione del personale della
scuola saranno regionalizzate, quindi è presumibile che noi avremo 20 contratti
nell'ambito del territorio nazionale. Questo creerà sicuramente delle disparità
fra regione e regione, quindi non c'è in questo modo una violazione del dettato
costituzionale che appunto assicura ai cittadini dignità pari dignità e pari
trattamento per ciò che riguarda la retribuzione e le questioni del lavoro?
Quindi è una questione molto importante. Anche la mobilità sarà in qualche modo
un grosso problema, che si porrà. Quindi come si esce da questi due problemi,
mobilità e contrattazione?
Risposta:
Il diritto ha questo di particolare: siccome è un dover essere e non un essere,
se ne siamo convinti, lo ripetiamo per l'eternità; questo è il mio mestiere.
Lei ha molte ragioni, tant'è vero che vado
ripetendo, in ogni sede, che, in realtà, il vero elemento di riforma della
scuola, ma in senso devastante per la scuola della Repubblica, è la legge sulla
parità (legge n. 62/2000), non il Titolo V. Continuo a dire che quella legge è
incostituzionale. Forse arriverà alla Corte, forse no. E non so che cosa farà la
Corte, se si orienterà per la costituzionalità o per l'incostituzionalità. Però
continuerò a dire come stanno le cose sul piano giuridico (secondo
l'interpretazione per me più convincente), poi ognuno valuta, sul piano della
convenienza, che cosa può fare.
L’ordine professionale. Che l'ordine sia uno
strumento molto utile per fare lobbismo non c'è dubbio alcuno e nulla c'è di
male. Dal mio punto di vista, però, nel sistema costituzionale, siccome la
funzione docente è quella che ho indicato, l'ordine non si attaglia.
Vi è un altro profilo da considerare.
Realizzare l'ordine è più difficile, perché il potere politico avrebbe tutte le
ragioni, a mio parere, per scegliere l'altra soluzione. Anche in termini di
politiche realistiche, dunque, mi sembra più adatta l'altra ipotesi.
Domanda:
Come si può arrivare ad avere questa famosa consulta? Chi lo deve fare?
Risposta:
Non avrei dubbi: la sede è quella delle norme generali sull'istruzione, quindi
competenza del Parlamento. Ora vi è il disegno di legge delega; non va bene
intervenire sulle norme generali dell'istruzione con delega; comunque, se si
dovesse andare avanti con la delega, è allora lì che bisognerebbe inserire
qualche cosa.. Ma questo spetta comunque al
Parlamento. Lo strumento di identificazione della funzione docente e dei
docenti va fatto, come associazione o come sindacato; la categoria deve farsi
sentire. Anche per evitare che qualcuno ripeta ciò che si afferma a proposito
dell'autonomia delle scuole: che non ha decollato perché, in realtà, i docenti
non vogliono l'autonomia.
Domanda:
La vogliono solo i dirigenti.
Risposta:
Ma questo indebolisce fortemente i docenti, perché la rivendicazione della
libertà senza un qualche contenuto è operazione difficile anche per la lobby più
potente.
Domanda:
I dirigenti non la vedono come libertà per i docenti. I collegi sono manovrati e
poi ci sono degli atteggiamenti millantatori da parte dei dirigenti.
Risposta:
Se sento i dirigenti, dicono: ma come si fa a dirigere, comandano tutti gli
altri.
Domanda:
Ma se un dirigente dice, all'inizio di un collegio: "Se ci sbrighiamo, tra
un'ora vi mando a casa" e tutti si sbrigano...
Risposta:
Forse, non è il caso di dire queste cose quando si rivendica la libertà della
funzione docente, altrimenti sarà difficile averla (o mantenerla).
Torniamo alla regionalizzazione, ai contratti
e alla mobilità. La regionalizzazione comporterà contratti diversi e quindi
comporterà probabilmente, anche se ci saranno degli standard nazionali, delle
differenziazioni retributive. Ma non è scandaloso, è quello che succede
normalmente per qualsiasi dipendente regionale.
Qui c'è un equivoco di fondo. E' vero che
hanno fatto il Titolo V in fretta, all'ultimo momento, che l'hanno approvato per
ragioni tattiche. Ma (ci può piacere oppure no) l'autonomia è differenziazione,
comunque, indipendentemente da come hanno redatto il nuovo Titolo V. Agli inizi
di ottobre a Siracusa, al convegno che tutti gli anni facciamo con gli amici
spagnoli di Diritto Amministrativo, organizzato dalle rispettive associazioni
(private), le associazioni dei professori di diritto amministrativo. Anche lì
venne in evidenza questo problema. Giuridicamente autonomia e differenziazione
sono la stessa cosa. È normale. L'autonomia regionale significa che i dipendenti
della Regione toscana possono guadagnare il doppio o la metà dei dipendenti di
un’altra Regione.
Altro punto. Fu un collega spagnolo che ce
lo ricordò, che soprattutto lo ricordò a colleghi regionalisti da sempre.
L'autonomia nella Costituzione del 1948 c'è già. Articolo 5: “La Repubblica, una
e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che
dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i
princìpi e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del
decentramento.”
L'autonomia è prevista per aumentare la
partecipazione politica e la responsabilità dei cittadini, non è un valore da
leggere sempre in negativo. Quindi gli stipendi possono essere diversi. In ogni
caso il rimedio si ha con la mobilità. La regionalizzazione non significa che
non si debba, attraverso le norme generali (statali) sull' istruzione, prevedere
un sistema che garantisce che il nostro collega della Sicilia possa, a un certo
momento, ricoprire un posto in Toscana o che dalla Toscana, se lo stipendio è
più basso, ci si possa trasferire a Palermo.
Domanda:
Ci vogliono giustificazioni, però, per queste disparità.
Risposta:
Sì, ci vogliono giustificazioni, ma le giustificazioni possono essere
semplicemente nel fatto che una Regione ritiene che sia necessario investire
nell'istruzione e che in quel momento investire nell'istruzione significhi, ad
esempio, anche aumentare le retribuzioni del personale docente; perché vogliamo
impedire tutto questo?
Domanda:
Riguardo sempre a quel discorso della retribuzione agganciata alla funzione, una
battaglia giuridicamente forse da fare è garantire una retribuzione minima
omogenea a tutti sulla base della funzione; cioè, una volta definita la
funzione, va definita la retribuzione minima ad di sotto della quale nessuna
regione può andare.
Risposta:
Non c’è dubbio. Ma quello che avete da temere è solo una corsa …. al rialzo, non
al ribasso. Però chiederanno qualcosa in cambio. Per esempio: valutazione e
controllo.
Domanda:
Lei parlava di nuovo profilo docente. Nella Gilda, nelle associazioni
professionali in generale, si discute da molti anni sui nuovi ruoli all'interno
della scuola da far svolgere agli insegnanti, come coordinatore di dipartimento,
coordinatore della didattica, la ricerca didattica, la documentazione, eccetera.
E le soluzioni prospettate vanno dal concorso statale all'idoneità con
successiva chiamata delle scuole, come a un certo punto aveva deciso la Gilda.
Poi ci sono, attualmente, le funzioni obiettivo. Intanto volevo sapere questo:
secondo lei sul piano dello sviluppo della professionalità, se siamo
professionisti, sono funzioni in qualche modo definite, ma comunque necessarie,
oppure sono giustificati i timori di quanti dicono che in fondo si strutturano
delle gerarchie, dei ruoli autoritari (o cose di questo genere), che limitano la
libertà di insegnamento?
Risposta:
La mia idea, che ho già esposto in un'altra sede – più ci penso più ne sono
convinto –, è che l'indistinto non funziona. Vogliamo garantire la libertà
della funzione docente? Se sì, ho la sensazione che dobbiamo dargli più forza e
mettere in condizione il docente non solo di esser garantito, ma di usare
questa libertà (che è l'unico modo con cui acquista peso nei confronti della
società e anche della politica). In un raggruppamento che comprende centinaia
di migliaia di persone, dare una garanzia di un certo tipo a tutti quanti non è
facile. A mio parere, anche nel sistema dell'istruzione, come in parte
nell'università, il rischio è che per salvare tutti non si salva la funzione. È
possibile dire che anche nel servizio dell'istruzione ci sono più (usiamo questa
parola) ruoli di lavoro? Il ruolo di lavoro determinante, caratterizzante
l’istruzione è quello che si chiama funzione docente. Però la funzione docente
non è, come dire, l'unico mattone che viene utilizzato per rendere il servizio
dell'istruzione. Ci saranno altri mattoni, che egualmente svolgeranno attività
di tipo didattico, che però non sono la funzione docente. Questi altri mattoni
hanno uno stato giuridico differenziato e non possono avere le stesse garanzie
giuridiche del mattone che chiamiamo “funzione docente”. Il punto è (come
schema, poi ci sono tutte le transizioni del caso) che non c'è eguaglianza di
stato giuridico. D'altra parte, dal punto di vista della garanzia della
neutralità della funzione, il discorso regge se c'è un nucleo sufficiente,
stabile e garantito, che come tale imprime e salvaguarda l'autonomia della
funzione. Poi ci possano essere persone che ruotano con contratti a termine,
anche se reclutati con imparzialità, ecc. Questa è una differenziazione. A mio
parere, in prospettiva, in termini di consequenzialità dei meccanismi giuridici,
potrebbe essere un modo per evitare dei sistemi che in realtà riducono la
stabilità del rapporto di lavoro di tutto quello che oggi è personale docente.
Perché è una misura inevitabile di elasticità. Lo vediamo all'Università: se c'è
bisogno di fare 10-15 ore di lezione su un certo argomento, che facciamo? Una
cattedra di diritto amministrativo per quelle dieci ore su quel certo argomento?
No, diamo l'incarico a qualcuno che sia idoneo. Questo, credo, sia il
ragionamento; lo si fa nell'Università e mi sembra che non sia insensato.
Domanda:
Io mi riferivo anche a ruoli diversi.
Risposta:
Infatti. Questa era la prima cosa. Per quanto riguarda la funzione docente,
parlerei di nuovo dell'università. Nell'università siamo ormai un discreto
numero. Appartengo alla generazione che ha fatto, ai tempi dei tempi, anche
politica sindacale in sedi universitarie, all'insegna di una parola d'ordine che
era il "docente unico". Questa cosa, sempre da libero pensatore, la contestavo
già quando ero giovane. Non ci credo, nel docente unico: all'interno della
funzione docente, fermo restando che la funzione docente ha delle garanzie
identiche per tutti, davvero non è possibile qualche differenziazione di ruoli?
Certo che è possibile, con la garanzia che da un ruolo a un altro si transita
con meccanismi indipendenti, imparziali; questo è intoccabile. Se, poi, mi
fate l'obiezione che la garanzia delle procedure non è possibile nella realtà
dei fatti…...che Vi devo dire?
In astratto, la configurazione di funzioni
differenziate, e quindi anche con diversità retributive, non contrasta con la
libertà di insegnamento. Ad esempio, noi abbiamo il direttore di ricerca.
Domanda:
Ha una sua utilità oppure no?
Risposta:
Sì, altroché se ha una sua utilità. Siamo tutti uguali, ma non è vero;
nell'Università ci sono due ruoli docenti: associato e ordinario. Come ordinari
siamo tutti uguali, ma abbiamo idea di gerarchie ben precise, che non sono
formali, e sono ancora più forti perché non sono formalizzate. Il
formalizzarle, invece, probabilmente, le attenuerebbe. Ma gerarchie in senso
serio, non la gerarchia della cordellina accademica; la gerarchia nel senso
che, se io mi occupo di una certa cosa, sento il bisogno di consultarmi e di
scambiare due parole con un certo mio collega, come qualcun altro sente il
bisogno di scambiare due parole con me. Per quanto riguarda la mia categoria,
per primo sarei dell'idea di fare una terza fascia, una fascia di professori
"superordinari" a concorso, anche se vi è il rischio che possa non entrarvi. Mi
sembrerebbe che le cose potrebbero andare meglio, se ci fosse un gruppo più
ristretto di colleghi, che in qualche modo potrebbero, ad esempio, selezionare
i lavori che si pubblicano. Non mi convince che si sia condannati ad essere
tutti uguali. C'è una soglia su cui non si transige, e questa è la funzione
docente uguale per tutti e la stabilità per tutti. Ma non è il tutto, e per il
resto si può differenziare (ma, naturalmente, dipende dalla Vostra esperienza,
io, in astratto, sarei favorevole).
Domanda:
È troppo sperare, ad esempio, che ci si possa accedere con esami e titoli?
Risposta:
Appunto. Con esami e titoli.
Domanda:
Non sta avvenendo così.
Risposta:
Lo so, ma, d'altra parte, non dobbiamo rassegnarci; rassegnarsi significa subito
perdere.
Domanda:
Vorrei sapere, intanto, se il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione,
così com’è oppure opportunamente modificato, può svolgere delle funzioni
analoghe a quelle che per i magistrati sono svolte dal Consiglio Superiore della
Magistratura.
Un'altra domanda sul decreto legislativo 165
del 2001, ma a partire da quello del '93, insomma l'articolo sulla dirigenza. Io
le parole precise non le ricordo; mi ricordo questo, che negli istituti di cui
all'articolo 33, comma 6 della Costituzione, la dirigenza amministrativa non si
estende alla gestione della ricerca e dell'insegnamento, se non vado errato. Ora
se ci fosse scritto che la dirigenza, essendo di natura puramente amministrativa
non si estende alla gestione della ricerca e dell’insegnamento, allora sarebbe
chiarissimo. Ma, essendo scritto così, ho avuto proprio un contraddittorio con
un collega sindacalista della CGIL Scuola, che sosteneva che sì, la dirigenza
amministrativa non si estende a questo, però esiste un'altra natura, non so di
quale tipo, della dirigenza scolastica con competenze didattiche, che invece si
estende in qualche forma che, ripeto, non riesco a capire, alla gestione della
ricerca e dell’insegnamento, tanto è vero che il dirigente scolastico è quello
che coordina il Collegio dei docenti. Io vorrei sapere la sua opinione, tenuto
conto anche che il collega della CGIL Scuola ha tra i suoi iscritti anche
dirigenti scolastici.
Risposta:
Il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione è da azzerare, anche perché
un'operazione di questo genere deve in qualche modo nascere dal basso; poi
deve essere solo di docenti, non c'è dubbio alcuno. Tutt'al più si può
consentire qualche esperto, come del resto nel CSM, ma esperti, magari nominati
dall'università; nella sostanza, deve essere il docente che trova lì la sua
identificazione, la sua produzione di regole tecniche, deontologiche, eccetera.
Per quanto riguarda la dirigenza
amministrativa, credo che la funzione del dirigente scolastico non si ricavi
dalla norma citata, che parrebbe essere l'art. 15, c. 2, del D.Lgs. n.
165/2001). La sua funzione si ricava dalle altre norme, che indicano (ma non
completamente e non chiaramente) i suoi specifici compiti, come l'art. 25 (e
l'art. 21 della legge delega n. 59/1997). D’altra parte, sulla gestione
amministrativa c'è anche il profilo del responsabile amministrativo, quindi in
realtà il Dirigente scolastico è una figura di coordinamento e comunque, in
effetti, molto particolare.
Domanda:
Ma magari, essendo responsabile dei risultati, potrebbe intervenire.
Risposta:
Sì; infatti, questa è la difficoltà del ruolo. Il dirigente scolastico è
comunque responsabile dei risultati. Questo aspetto non deve essere però
ingigantito. Anche perché, per ora, ho visto pochi dirigenti (scolastici e non
scolastici) rispondere dei risultati.
Domanda:
Però lo dicono, lo dicono continuamente.
Risposta:
Lo so. Comunque i risultati devono essere conseguiti nel più scrupoloso
rispetto delle altrui competenze. Si tratta di due cose diverse; a dirigere con
il manganello siamo tutti bravi. Un pochino più difficile è dirigere rispettando
le competenze altrui ed esercitando le proprie. Il collegio dei docenti non deve
essere prevaricato (dal dirigente), ma anche il dirigente non deve essere
prevaricato (dal collegio).
Quindi quel discorso mi torna poco. Che
cosa vuol dire che è responsabile dei risultati? Il Presidente del Consiglio è
responsabile dei risultati, ma un decreto legge con cui minaccia la pena di
morte per qualcuno non può farlo, né quello di ora, né quello che c'era prima.
E' lo Stato di diritto, nel quale bisogna governare dando per normale che si
debbono gestire i conflitti secondo le regole stabilite e che la vita va avanti
grazie ai conflitti, sempre che ciascuno non debordi.
Domanda:
Sì, i conflitti a partire da quelle che sono le proprie competenze; perché la
cosa che succede nelle scuole della Repubblica, usando il termine che usava lei,
è che il dirigente è praticamente risucchiato in una logica di tipo
burocratico-manageriale (R: Soprattutto burocratica...) e l'insegnante
purtroppo è risucchiato invece in una logica impiegatizia. Se ci fosse una
coscienza professionale alta, un collegio non si fa prevaricare e rispetta i
dirigenti. Se il dirigente a sua volta avesse uno spessore culturale all'altezza
dei compiti, saprebbe gestire i conflitti e governarli.
Domanda:
Ma secondo lei, l'assunzione, anche ora, da parte di un’ associazione, di
principi etici tipo quelli della nostra ipotesi, un po’ come manifesto, ha un
senso?
Risposta:
Certo che ha un senso. Veramente vorrei non essere equivocato. La molla della
libertà è l'iniziativa associata come un fatto puramente privato, espressione
della libertà di privati, che insieme vogliono e insieme fanno. La
partecipazione nella scuola è morta quando l'hanno istituzionalizzata. Se come
associazione lo fate, vi ringrazio come cittadino. Vi identificate: siamo
un'associazione di docenti e ci vincoliamo a questi principi. Se come associati
vi volete vincolare a un codice etico, è cosa che professionalmente dimostra la
vostra consistenza e la vostra serietà.
Docente di Diritto amministrativo presso la Facoltà di Giurisprudenza
dell’Università di Firenze.
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