Ragionando sul contratto…
Il contratto dei docenti è scaduto nel mese di dicembre 2001 e nulla fa pensare che gli incontri per il rinnovo inizino a breve. L’atto di indirizzo, che contiene le indicazioni che il governo dà all’Aran (l’agenzia delegata alle trattative), presentato verbalmente ai sindacati nel corso della primavera scorsa, non ha ancora avuto una presentazione ufficiale. In questa impasse i docenti non possono nemmeno vedere in busta paga la sia pur misera somma prevista dalla Finanziaria 2002 e incrementata (di circa 15 euro!!) dal Protocollo d’intesa governo-sindacati del 4 febbraio 2002. Come dire: i 100 euro (pari ad un incremento stipendiale del 5,56% a copertura dell’inflazione programmata di due bienni economici e del differenziale fra inflazione programmata e inflazione reale del biennio 2000-1) dell’inflazione previsti per i pubblici dipendenti restano congelati. E restano ovviamente congelate le fantomatiche risorse aggiuntive che – sempre secondo il Protocollo di febbraio firmato e sbandierato da CGIL, CISL e UIL – dovrebbero “essere prevalentemente destinate all’incentivazione della produttività dei dipendenti”.
Il Dpef, cioè il Documento di programmazione economica e finanziaria che delinea gli investimenti per il periodo 2003-2006 e pone le basi della finanziaria 2003, dà respiro concreto soltanto alla ricerca scientifica. Mentre il progetto di cambiamento della scuola prevede delle “misure finanziarie da verificare nella loro compatibilità con i conti pubblici” e fa il paio con gli investimenti all’università, che devono tener conto dei “complessivi equilibri di finanza pubblica”, per la ricerca il Governo assume impegni precisi: i finanziamenti del prossimo quadriennio passeranno dall’attuale 0,6% all’’1% del PIL. Questo investimento sulla ricerca, dettato dagli impegni assunti nel Consiglio Europeo di Barcellona del marzo 2002 (entro il 2010 l’UE si impegna a investire in ricerca il 3% del PIL), si pone l’obiettivo di “concorrere a rafforzare il sistema economico italiano e aumentarne la competitività nelle produzioni di alta tecnologia”.
A parte questo, la volontà politica che sembra ispirare gli estensori del documento, approvato con una maggioranza non larghissima – 277 a favore contro 220 contrari e 6 astenuti, sembra quella di investire prevalentemente sugli ultimi anni del secondario, sul post-secondario e sulla formazione professionale in genere. Lo prova ci è data dalle iniziative concrete prese in questi giorni: dall’investimento di 59 milioni di euro per gli Ifts (vedi Italia Oggi del 20 agosto) al nuovo input dato agli stages aziendali per gli studenti del 4° e 5° anno delle superiori con l’avvio dei bandi di gara per accedere ai fondi Cipe (ibidem).
Se questo ci pare dettato dalla necessità di avvicinare l’assetto della nostra scuola, storicamente debole sul versante professionale, a quello dei sistemi europei, ci chiediamo come questo nuovo equilibrio possa essere raggiunto senza una politica per i docenti che accompagni e sostenga in modo armonico il cambiamento.
Soffermiamoci brevemente almeno su un punto fondamentale.
I dati OCDE (Organisation de Coopération et de Développement Economiques) 2001 ci segnalano che al 1999 il rapporto studenti-insegnanti era il seguente: 11.3 nell’istruzione primaria, 10.3 nell’istruzione secondaria, 24.8 nell’istruzione terziaria – in cui il rapporto medio UE è di 15.3.
Come si può notare, ad un rapporto basso nell’istruzione pre-universitaria, si contrappone un rapporto altissimo nella educazione terziaria. Se consideriamo che l’investimento sugli Ifts e la recente riforma universitaria veicoleranno verso il post-secondario flussi di popolazione scolastica sempre più massicci, intravediamo nuove possibilità. Lo spazio di assorbimento enorme che si verrà a creare permetterà, ipotizzando uno scorrimento verso “l’alto” dei docenti della primaria e della secondaria (come propone la GILDA nella propria piattaforma), sia di riequilibrare il rapporto medio studenti-insegnanti dell’intero sistema, sia di offrire ai docenti interessati reali e stimolanti possibilità di “carriera”.
Una politica di questo tipo porrebbe inoltre le basi per la soluzione del problema dell’atrofia del sistema primario e secondario, caratterizzato al contempo da eccesso e carenza di personale e destinato, entro un arco di 10 anni, ad essere minacciato dalla massa dei pensionamenti a causa dell’abnorme “invecchiamento” del personale scolastico docente italiano (la media delle maestre italiane ha l’età più alta in Europa insieme alla Germania e alla Svezia – quasi il 30% ha più di 50 anni; nella scuola media gli insegnanti che hanno più di 50 anni superano in Italia il 40% ).
Poiché la sede delle scelte relative ai docenti è quella della contrattazione, il confronto con le Associazioni dei docenti e l’apertura del contratto risultano fondamentali in questo momento per evitare lo scollamento fra le scelte di politica scolastica generale e quelle relative al personale docente.
Fondamentale risulta anche la volontà di rendere appetibile una professione a rischio - anche se non a breve - di sopravvivenza.
Perché gli squilibri ormai vistosi che la caratterizzano rischiano di esplodere.
Chi investirà per il futuro in una professione che richiede 7-8 anni di studi post-secondari per uno stipendio inferiore a quello di un infermiere? Come si potrà invertire il fenomeno di femminilizzazione del corpo docente che ha ormai raggiunto il livello d’allarme? Quale intellettuale potrà pensare alla scuola come al proprio habitat naturale, se il tempo professionale da dedicare allo studio continuerà ad essere inesorabilmente rosicchiato? In quale misura i crescenti livelli di violenza giovanile allontaneranno dalla professione?
Le scelte contingenti di micro-economia non sono tutto. Spesso sono addirittura dannose.
Allora forse è necessario recuperare spazi di ragionamento e di dibattito…
Se.G.