FONDAMENTI E LIMITI DEL RIFORMISMO IN ATTO

 

di Serafina Gnech

 

 

 

 

Il termine ‘riformismo’ viene generalmente usato, come ben sappiamo, per indicare azioni politiche che – ripudiando sia il sistema rivoluzionario che  quello conservatore – intendono modificare attuando riforme graduali, ma organiche. La parola assume però molto spesso un’accezione spregiativa: connota riforme marginali, sostanzialmente conservatrici, che non intaccano  i fondamenti del sistema dato.

Quale di queste due accezioni può essere applicata alla riforma in via di attuazione?

In altri termini, la legge comunemente definita Moratti è una  riforma vera o una riforma, diciamo banalmente, finta?

La visuale è duplice, a seconda che si guardi il tutto da un punto di vista formale o sostanziale.

Da un punto di vista formale, sospesa e successivamente abrogata la Legge 30 (Berlinguer-De Mauro), la Legge 53 è la prima legge che modifica l’impianto gentiliano della scuola italiana. Essa è dunque una riforma nell’accezione piena del termine. Da un punto di vista sostanziale, le cose sono però diverse. Essa si situa infatti in linea di sostanziale continuità con le riforme di fatto attuate negli ultimi decenni.  Se intacca il sistema formale precedente, non intacca però il sistema reale immediatamente precedente, quello cioè che inizia a prendere corpo dopo il sessantotto. E che, attraverso leggi a margine, leggine estemporanee,  atti governativi e ‘messaggi’ vari  modifica in modo sostanziale la natura della scuola.

 

Quello che ci interessa approfondire qui non è però la natura di una continuità ormai evidente ai più e che consiste essenzialmente nella scelta di privatizzare la scuola pubblica, scelta pienamente condivisa dalle opposte compagini politiche, ma piuttosto vedere quali siano le trasformazioni sociali che stanno alla base di questo lento processo riformistico, trasformazioni che la classe politica ha trasversalmente assunto come dato di fatto, come fatalità ineluttabile. Senza alcuna distanza critica, operando così in modo a-politico o, se vogliamo, solo strumentalmente politico.

 

Ci sono, ci dice il filosofo Charles Taylor nel suo saggio Il disagio della modernità (1), alcuni elementi che caratterizzano in modo evidente la ‘modernità’.

Primo fra tutti l’individualismo. Che cos’è l’individualismo? L’individualismo, che designa peraltro “quella che molti considerano la più bella conquista della civiltà moderna”, la possibilità cioè per gli uomini di “scegliere da sé il proprio modo di vita, di decidere in piena libertà di coscienza quali convinzioni abbracciare, di foggiare la loro vita in mille diverse maniere…”  (2) giunto alla sua forma estrema, dentro la quale si  colloca il fenomeno del narcisismo individualistico e della me-generation, è l’affermazione della centralità del soggetto che ha in sé il proprio fine, e che definisce ‘valori’ riferiti unicamente al sé (3). Questa rappresentazione individualistica della vita sociale  ha soppiantato  (e richiamiamo qui il sociologo Alain Touraine,  che ha fatto di recente un interessantissimo intervento alla Terza Università di Roma) categorie di rappresentazione e di azione che erano inizialmente sacre, successivamente politiche e, nei tempi a noi più vicini, sociologiche:

 

“Per parecchi secoli… abbiamo utilizzato nella vita sociale categorie di rappresentazione e di azione che non erano di mera natura sociale quanto politica. Si tratta di una constatazione elementare, diventata uno dei pilastri delle scienze sociali. Il dissolversi di una concezione religiosa del mondo ha determinato la ricerca di un principio unitario dell’esperienza individuale e collettiva, e l’inizio stesso della modernità è contrassegnato dall’affermazione secondo cui questo principio  di unità e di integrazione della vita sociale è la politica, considerata come la creazione stessa della società. Nel periodo compreso fra il  XV e il XVIII secolo… le realtà più incontrovertibili, identificate come le più determinanti in assoluto, sono state espresse in termini politici: la nascita dello Stato moderno, della burocrazia in senso weberiano, delle monarchie assolute e dei dispotismi illuminati, e in seguito le rivoluzioni democratiche, anti-democratiche o anti-aristocratiche… sono tanti elementi costitutivi della storia di più secoli, costituitisi in maniera del tutto coerente in termini di potere. Come la  filosofia politica aveva interpretato la prima tappa della nostra modernità, la sociologia si è costituita come interpretazione di questa visione ‘sociale’ della società. L’apporto principale della sociologia definibile classica non è stato quello di considerare il concetto di società, tanto da un punto di vista descrittivo quanto normativo, in quanto noi abbiamo parlato di utilità sociale, e siamo arrivati al punto di  denominare socializzazione l’educazione, per dimostrare che tutti gli aspetti della vita personale e sociale dovevano essere analizzati in termini di interessi collettivi”…

Ora “siamo entrati, dicono gli studiosi, in una società di produzione, di consumo e di comunicazione di massa, molti di loro parlano altresì di globalizzazione, e tutto ciò, al di là di una connotazione quasi geografica, sottintende il concetto ben più importante di una perdita di controllo di tutti i centri decisionali… Tutti questi sconvolgimenti sono generalmente riassumibili in una parola: le nostre società, che contavano su forme di organizzazione collettiva, stanno diventando sempre più individualistiche… Le categorie di appartenenza si indeboliscono, che si tratti della famiglia, del vicinato o anche solo della classe di età cui si appartiene…” (4)

 

Mentre nelle prime visioni – la visione sacra, la visione politica e la visione sociologica - l’individuo si collocava all’interno di  un tutto dotato di senso e c’era sempre il richiamo verso altro - una società migliore, dei valori – con il trionfo dell’individualismo ogni richiamo cessa, viene a mancare totalmente il senso di uno scopo superiore, si opera, insomma,  una specie di restringimento sull’io e un allontanamento dagli altri. Dice  ancora Alain Touraine, nello stesso intervento:

 

“… Allorché entriamo in una rappresentazione individualistica della vita sociale, assistiamo ad un distacco…  estremo… fra il mondo del consumo, dell’interesse e del piacere e… il richiamo ad  una società ideale, ad un ordine, a dei valori. Il richiamo è verso il punto estremo dell’individualismo, ovvero affermare il soggetto come fine a se stesso e fare di lui, invece che della società, il principio di definizione del bene e del male”.

 

E Charles Taylor:

 

“… il lato oscuro dell’individualismo è il suo incentrarsi sull’io, che a un tempo appiattisce e restringe le nostre vite, ne impoverisce il significato, e le allontana dall’interesse per gli altri e la società” (5).

 

Il secondo elemento caratterizzante della modernità è, sempre secondo Charles Taylor,  il primato della ragione strumentale, cioè del “tipo di razionalità a cui ci rifacciamo quando calcoliamo l’applicazione più economica dei mezzi disponibili a un fine dato. La misura del suo successo è il massimo di efficienza, il miglior rapporto costi-prodotto” (6). La correlazione con il primo elemento è chiara: una volta che abbiamo perso ogni visione complessiva della vita – riconducibile, come dicevamo ad elementi sacri o valoriali in senso più  lato -  non resta che l’elemento strumentale: che cosa mi/ci conviene, che cosa mi/ci dà piacere… . Non a caso, rileva sempre Tayor, la modernità è caratterizzata dal prestigio e dall’aura che circondano la tecnologia “e che ci inducono a credere che dobbiamo cercare soluzioni tecnologiche anche quando quel che ci occorre è in realtà qualcosa di molto diverso “(7). Gli esempi che ci danno la misura dell’invadenza dell’imperialismo tecnocratico sono reperibili in quasi tutti gli ambiti, persino quello della medicina, che sempre più guarda al paziente come a un problema tecnico e non ad una persona.

 

Proviamo ora a guardare alle due recenti riforme – la riforma Berlinguer-De Mauro e la riforma Moratti – sullo sfondo che abbiamo tracciato.

Non v’è dubbio che essa nascano dagli elementi che abbiamo tracciato, ne consacrino la ‘validità’ e ne assicurino la perpetuazione.

 

Le parole d’ordine della riforma Moratti, in continuità con la riforma Berlinguer,  sono tre (8):

 

PERSONALIZZAZIONE

FLESSIBILITA’

INTEGRAZIONE

 

La personalizzazione (cioè l’insegnamento ad personam) avviene per una triplice  via: 1) l’adattamento degli insegnamenti alla persona, alle sue potenzialità e capacità, con relativa enfasi sulle metodologie didattiche adatte a quello che viene definito ‘lo stile di apprendimento’); 2) la configurazione di un’offerta che contenga elementi variabili – le cosiddette attività  facoltative-opzionali; 3) la costruzione di percorsi sulla persona e per la persona.

La Legge 30 aveva già tracciato la direzione. Essa definiva infatti il sistema educativo di istruzione e di formazione come un sistema finalizzato “alla crescita e alla valorizzazione della persona umana, nel rispetto dei ritmi dell’età evolutiva, delle differenze e dell’identità di ciascuno, nel quadro della cooperazione tra scuola e genitori (art. 1). E nel Programma di attuazione della legge si ribadiva: “… la repubblica assicura a tutti pari opportunità di raggiungere elevati livelli culturali e di sviluppare le conoscenze, le capacità e le competenze, generali e di settore,  coerenti con le attitudini e le scelte personali”.

In questo ambito, d’altro canto, il sentiero risultava tracciato dalla Bassanini ed in particolare dal Regolamento dell’autonomia delle istituzioni scolastiche (Dpr. 275 del 1999) che, all’art.1, comma 2,  recita:

 

“ L’autonomia delle istituzioni scolastiche… si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire loro il successo formativo, coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e con l’esigenza di migliorare l’efficacia del processo di insegnamento e di apprendimento”.

 

Comunque, se consideriamo  anche che la dotazione oraria prevista dalla riforma Berlinguer per la Scuola di base (1000 ore + 330 per specifiche esigenze delle famiglie e socio-culturali), benché più consistente, era analoga nella sua strutturazione a quella prevista dalla Legge 53,   ci rendiamo conto come non si possa parlare di una continuità generica, ma di una continuità forte, in buona sostanza di un’unica visione.

La flessibilità, cioè la possibilità  per gli allievi di avere  dei percorsi diversi l’uno dall’altro (grazie alle materie facoltative opzionali) e diversamente articolati nel tempo, la possibilità inoltre  di passare da un corso all’altro dello stesso sistema e da un sistema all’altro  (dall’istruzione all’istruzione-formazione e viceversa) è ovviamente funzionale alla personalizzazione. Funzionale ad essa risulta anche la suddivisione dei vari ordini di scuola in ‘periodi didattici’, prevista anch’essa già dalla Legge 30, che fissava per la Scuola di base (derivante dalla fusione elementari-medie) la scansione 2+3+2.

L’integrazione, dal canto suo, è la traduzione  di quel superamento della dicotomia fra theorìa e téchne, che aveva un senso, ci dice Bertagna,  quando si dovevano fare i conti con il lavoro esecutivo, il lavoro ‘alienato’ di Marx, in cui l’uomo non è creatore e nemmeno può proporsi come testimone, mentre noi dobbiamo fare i conti con la società globalizzata della conoscenza, che “ha reso inservibili le artificiose separazioni del passato tra sapere e lavoro, tra istruzione da una parte e istruzione/formazione professionale dall’altra” (9).

E, prima di lui, Tullio De Mauro scriveva:

 

“Se la nuova scuola deve essere non scuola di sudditi, ma di cittadine e cittadini pleno iure è assolutamente necessario che essa restituisca a chi essa  forma quel rapporto stretto con la cultura dell’opera, del produrre e lavorare, della manualità e fisicità corporea che è stato un bene diffuso extrascolasticamente nelle società a base produttiva agricola e industriale e che oggi va diventando merce rara nel Pianeta a mano a mano che le società entrano, come desiderano, nella fase delle società della conoscenza” (10).

 

Ora, se noi guardiamo alla riforma (alle riforme!),  di cui abbiamo appena evidenziato gli elementi caratterizzanti, sullo sfondo tracciato nella prima parte di questa analisi, appare evidente come essa sia  specchio fedele dell’esistente.

La riforma pone l’accento sull’individuo, sul soggetto, in quanto la società odierna  pone il soggetto al centro di tutto (l’individualismo di cui parlavamo), essa pone l’accento sul fare in quanto quella che domina è la ragione strumentale, che giudica e sceglie sulla base dell’utile e/o del piacere immediato.

 

Quali problemi si pongono per la società e per la scuola?

 

I problemi sono costituiti dal pericolo che la direzione imboccata dalla società e confermata dalle scelte di politica scolastica, svuoti la scuola e la renda impotente. Non le permetta cioè di svolgere le proprie funzioni vere ed alte:

1)     la funzione emancipatrice del singolo

2)     la funzione di formazione alla cittadinanza

 

L’accento sull’individuo, l’uguaglianza delle chances (che sostituisce l’uguaglianza dei diritti), non chiamando in campo la responsabilità morale di ognuno e l’importanza del lavoro personale, cioè la coscienza intellettuale, civile ed etica, porta l’allievo a quantificare il proprio sforzo in funzione di quelle che egli stesso percepisce come sue possibilità senza andare fino in fondo alle stesse. Per questa via, imboccata dalla sinistra, ci dice Charles Coutel (11), un repubblicano francese,  la scuola perde la sua potenza emancipatrice e diviene il rifugio del ‘miséralisme’ e del ‘fatalisme’. Un pericolo serio, più volte evidenziato anche da Mario Pirani, il famoso editorialista della ‘Repubblica’.

 

Ma c’è un altro pericolo ancora, e qui veniamo a quello che Charles Taylor identifica come terzo elemento costitutivo della modernità: la perdita di libertà.

L’individualismo solo superficialmente può apparire come una conquista di libertà. In realtà esso, portando gli esseri umani a rinchiudersi, a cercare soltanto le soddisfazioni della vita privata, conduce all’”alienazione dalla sfera pubblica e alla conseguente perdita del controllo politico… ossia una facoltà che possiamo esercitare in comune in quanto cittadini”.  Taylor, citando Alexis de Tocqueville, si dichiara abbastanza pessimista. In mancanza di una “vigorosa cultura politica che attribuisca un alto valore alla partecipazione… alla struttura di governo e anche alle associazioni volontarie” probabilmente emergerà un dispotismo nuovo, specificamente moderno: il dispotismo ‘morbido’.  Non sarà una tirannide del terrore e dell’oppressione, come nel tempo andato. Il Governo sarà mite e paternalistico. Potrà persino conservare le forme democratiche,con elezioni periodiche. Ma di fatto ogni cosa sarà governata da un potere immenso e tutelare, su cui gli uomini avranno ben scarso controllo” (12).

Analogamente, anche il trionfo della ragione strumentale, che trova la propria traduzione nella esaltazione dell’utile immediato (nella legge di riforma della scuola: esplicitazione delle competenze,  crediti immediatamente spendibili nel mercato del lavoro, ecc.) ha come conseguenza una perdita di libertà. L’imperativo è infatti quello di accettare le scelte dettate dalla ragione strumentale, anche per cose o per ambiti in cui una seria deliberazione morale  porterebbe su altre vie.

 

Una scuola che fa da specchio ad una società individualistica e utilitaristica è una scuola che perde la sua funzione emancipatrice, una scuola che trasforma la società in uno spazio incontrollato aperto all’infinito,  terreno arido in cui soggetti isolati si muovono solitari, in continua competizione gli uni con gli altri. Una scuola in cui fenomeni come il bullismo - per citare solo una delle tante punte estreme che sono ogni giorno sotto i nostri occhi - tenderanno senza dubbio ad accentuarsi …

Una scuola, in una parola, che non potrà essere Scuola ma solo luogo di addestramento – fra i tanti – chiamato a rispondere  alle molteplici e mutevoli richieste della società globalizzata di produzione e consumo.

(relazione per le Assemblee-convegno di Avellino e di Cesena)

 

1.      Laterza, 1999

2.      Ibidem, pag. 4

3.      Questo avrebbe grosse conseguenze sui giovani, scrive  Pierpaolo Donati, che si sentono “preda di incertezze, in una società sempre più avara di amore, sempre più rischiosa, che non offre né un’immagine né un progetto sicuro e simbolicamente consistente per loro… . Se c’è qualcosa che accomuna oggi il senso generazionale dei giovani è il loro sentirsi in gioco come generazione che deve fare delle scelte etiche in un vita quotidiana che non ha più paletti da nessuna parte. E cioè, precisamente, in risposta ad una società che viene percepita come sempre più anomica (priva di regole), a-morale (indifferente alle scelte etiche), quando non immorale (cioè corrotta). Con un termine di Zigmunt Barman …, una società adiaforica, che riduce le scelte etiche a questioni tecniche, ossia è indifferente al problema del bene e del male” (Pierpaolo Donati e Ivo Colozzi, Giovani e generazioni, Il Mulino, Bologna 1997, pagg. 24-25)

4.      L’intervento di Alain Touraine alla Terza Università di Roma, riportato dal “Corriere della Sera” dello 01/04 nella traduzione di Anna Bissanti, www.gildacentrostudi.it.

5.      op. cit. pag. 6

6.      op. cit., pag. 7

7.      op. cit., pag. 8

8.      L’Aran, nel documento di lavoro del 18/12/03 relativo alle carriere, definisce la “personalizzazione, la flessibilità e l’integrazione” come le architravi della Legge 53

9.      Rapporto finale del gruppo ristretto di lavoro costituito con D.M. 18 luglio 2001

10.                       Tullio De Mauro in Nicola Rossi, L’istruzione in Italia: solo un pezzo di carta?, pag. 493

11.                       Que vive l’école républicaine, Conversations pour demain, Textuel, Parigi 1999

12.                       op. cit., pag. 13