RIFORMA: il giallo del "no"!

 

 

Questa riforma non va. Lo dicono tutti ormai e ci sono buoni motivi per farlo. Ma non basta. I “no” possono essere di varia natura, soprattutto quando si tratta della scuola, da sempre pallottoliere di politici e  sindacati di parte.

E’ allora importante penetrare il dissenso, soprattutto capire se il gioco politico non coniughi un dissenso di facciata con un consenso di fondo…  

 

Ci sono vari modi di “leggere” la riforma della scuola. Questi, grosso modo, i tre possibili approcci: quello ideologico, quello strumentale e quello che definirei culturale e di pensiero.

Tra i primi due l’intreccio è molto forte: l’approccio ideologico  fa infatti spesso leva sugli elementi strumentali. Per il semplice fatto che essi rientrano nella concretezza della vita e sono quindi immediatamente percepibili.

La saldatura fra i due elementi – quello strumentale e quello ideologico – opera l’incastro perfetto che muove anche i più indifferenti, poiché a quel punto la ragione strumentale del soggetto si impasta con il lievito del richiamo verso più compiute forme di “civiltà”, richiamo che esercita ancora il suo fascino in generazioni cresciute dentro una visione della società, che riteneva che tutti gli aspetti della vita personale-sociale dovessero “essere analizzati in termini di interessi collettivi”  (1).

Che questo tipo di approccio abbia funzionato ce lo dimostrano i recenti, innegabili, consensi alla Cgil. Tutti gli insegnanti che hanno confermato, nelle recenti elezioni delle RSU, un sindacato sul quale gravano molte colpe storiche e che, fuori di ogni dubbio, condivide il nucleo forte e centrale della riforma della scuola portata avanti da questo Governo, hanno percepito la difesa del loro posto di lavoro o della loro disciplina o di  quant’altro non tanto come un  meschino ripiegarsi sul proprio interesse individuale, quanto come una causa giusta, da portare avanti per sé e per gli altri.

Quello che, però, non può non balzare all’occhio di quanti non abbiano perso per strada la Scuola, è l’assoluta mancanza di ogni serio ragionamento sulla scuola stessa, sul suo senso e quindi sulle sue finalità, sulla natura del rapporto educativo e sulle modalità del suo dispiegarsi nel contesto attuale.

E’ ben vero che non spetta ai sindacati, bensì alle forze politiche – adeguatamente sorrette da uomini di ampia cultura – la definizione di tutto ciò, ma è altresì vero  che spacciare come una battaglia di civiltà ciò che battaglia di civiltà non è,  la dice lunga sulle ragioni strumentali, non tanto dei singoli, ma di coloro che come paladini dei singoli e della causa si pongono.

 

Mi limito qui ad analizzare soltanto uno degli assi portanti della riforma: la personalizzazione dell’insegnamento. Lasciando da parte gli altri due:  flessibilità ed integrazione, che si pongono comunque essenzialmente come strumentali al  primo, riconfermando, per così dire, di rimbalzo, la centralità della prima scelta.

 

La personalizzazione dell’insegnamento

 

Parola chiave sia della Legge 30 (Berlinguer) che della Legge 53 (Moratti), la personalizzazione è al contempo strumento e fine. Come strumento, essa si pone l’obiettivo di porre rimedio alla dispersione, le cui cifre, ovunque sbandierate, hanno costituito per gli ultimi due governi, il terreno di sfida della competizione europea. “Vede, chiarisce il Ministro Moratti a Gian Guido Vecchi, in una recente intervista al “Corriere della Sera” (2), noi abbiamo un problema fondamentale: ogni anno ci sono trecentomila ragazzi che si perdono per strada e arrivano a 18 anni senza un diploma e una qualifica, inoltre il livello di apprendimento per la matematica, l’italiano e le scienze è tra il ventunesimo e il ventiseiesimo posto nei paesi Ocse. Ecco, il senso della riforma… è questo: un modello personalizzato e flessibile che garantisca a ciascun ragazzo il successo formativo…”. Come dire: il vestito fatto  dal sarto – su misura – non può che essere migliore dell’abito in serie acquistato al centro commerciale. Che cosa confutare in tutto questo?  Apparentemente nulla, tanto più che la prospettiva del “successo formativo” per tutti – già “imperativo”del regolamento dell’autonomia - non può non apparire seducente. Che cosa non funziona dunque, a nostro avviso, nel binomio personalizzazione-flessibilità? Va tenuto presente che esso verrebbe ad attuarsi all’interno di un sistema che ha progressivamente smantellato ogni strumento selettivo (pensiamo anche soltanto agli esami, passati da tre a due). L’ipotesi che si prospetta non è dunque quella di abbandonare definitivamente la selezione che esclude, che appartiene alla scuola del passato e risulta comunque inconcepibile nel contesto attuale, per passare ad una selezione che orienta. Si tratta di tutt’altro. Si tratta di costruire – in partenza – percorsi intorno al soggetto (il vestito su misura, appunto), cioè di adattare gli insegnamenti alle caratteristiche del soggetto. In questo si sostanzia quella “uguaglianza delle chances” che ha già sostituito ed intende ancora più fortemente sostituire “l’uguaglianza dei diritti”. L’uguaglianza dei diritti, chiarisce Charles Coutel (3), un repubblicano francese, chiama in campo la responsabilità morale di ognuno e l’importanza del lavoro personale, cioè la coscienza intellettuale, civile ed etica  di ogni allievo; l’uguaglianza delle chances, conduce l’allievo a quantificare il proprio sforzo in funzione di quelle che egli stesso percepisce come sue possibilità, senza andare fino al fondo delle stesse. Per questa via imboccata  dalla sinistra,  sostiene sempre Charles Coutel, la scuola perde la sua potenza emancipatrice,  divenendo rifugio del “miséralisme” e del “fatalisme”. Un fatalismo che inchioda gli allievi socialmente meno favoriti nella loro situazione di origine, senza alcuna possibilità di riscatto.

La scuola delle  chances, la scuola non selettiva (e rimando al concetto di selezione orientativa avanzato prima)  è una scuola fortemente classista, che, abdicando al proprio ruolo, rimanda – come sostenevano Mario Pirani e Lucio Russo (4) - la selezione al mercato, cioè  a quella giungla selvaggia e competitiva in cui il gioco finisce ed i conti devono tornare.

Ma questa nuova costruzione (o dovremo piuttosto chiamarla distruzione?) della scuola è un prodotto sia della destra attuale che del passato governo. L’inconfutabile trasversalità del progetto ci pone allora un interrogativo: in che cosa consiste la battaglia di civiltà sulla scuola condotta dalla sinistra e dalla Cgil?  E  verso quale  tipo  di ideologia è stato convogliato il consenso?  

 

Ma riprendiamo ora la riflessione sulla personalizzazione. Dicevamo che essa non è solo intesa come strumento atto a contrastare la dispersione – sul piano unicamente formale, ovviamente, considerato il processo di dequalificazione reale che si avvia al contempo – ma anche come fine.

Qui la riflessione diviene più complessa e più delicata e risulta necessaria una breve disanima  sui nuovi “valori” dei nostri tempi. In un recente intervento alla Terza Università di Roma, Alain Touraine (5), sociologo francese, ha magistralmente fotografato processi storici e realtà dell’oggi. Dopo il dissolversi di una concezione religiosa del mondo – egli ci dice, “per parecchi secoli abbiamo utilizzato nella vita sociale categorie di rappresentazione e di azione che non erano di mera natura sociale quanto politica”. Dentro questa visione nasce la modernità e dentro ad essa si situano, “nel periodo compreso tra il XV e il XVIII secolo… le realtà… più determinanti in assoluto: la nascita dello Stato moderno, della burocrazia in senso weberiano, delle monarchie assolute e dei dispotismi illuminati,   e in seguito  le rivoluzioni democratiche, anti-democratiche o anti-aristocratiche…

Successivamente, egli aggiunge, e potremmo parlare di una seconda tappa della nostra modernità, è la sociologia che si è costituita come interpretazione di quella visione “sociale” della società che era venuta primariamente dalla politica.

“Come la filosofia politica aveva interpretato la prima tappa della nostra modernità, la sociologia si è costituita come interpretazione di questa visione “sociale” della società. L’apporto principale della sociologia definibile classica non è  stato  soltanto quello di considerare il concetto  di società, tanto da un punto di vista descrittivo quanto normativo, in quanto noi abbiamo parlato di utilità sociale, di funzioni e disfunzioni, e siamo arrivati al punto di denominare socializzazione l’educazione, per dimostrare che tutti gli aspetti della vita personale e sociale dovevano essere analizzati in termini di interessi collettivi”.

Questa categoria tradizionale vale ancora? O non è piuttosto ridotta a sovrastruttura di pensiero – ideologia ormai vuota – appiccicata ad una realtà ormai radicalmente mutata? “Come non constatare che il declino o la dissoluzione di queste forme di pensiero e di azione è divenuto ovunque quanto mai palese”?

Quella che gli studiosi chiamano società di produzione, di consumo e di comunicazione di massa ha perso il richiamo ad una società ideale, ad un ordine, a dei valori che costituivano l’essenza delle concezioni precedenti. L’unico richiamo è quello verso il punto estremo dell’individualismo, ovvero “affermare il soggetto come fine a se stesso e fare di lui, invece che della società, il principio di definizione del bene e del male”.

Come non cogliere  il nesso fra questa rappresentazione individualistica della vita sociale, che genera il fenomeno della me-generation (6) e la scelta politica  trasversalmente condivisa di fare del soggetto – si badi bene, e non della persona, benché si parli di personalizzazione – il punto di riferimento del tutto, al quale il tutto va ricondotto?

Se così è, come riteniamo che sia,  le riforme Berlinguer e Moratti si presentano entrambe – senza distinzione – come pura espressione delle scelte dei nostri tempi, con tutte le conseguenze che molti studiosi hanno messo in evidenza (7).

Ma su questo non intendiamo soffermarci.

Ci interessa solo rilevare quale assoluta, totale inconciliabilità ci sia tra queste scelte  e quell’ideologia post-marxista che per lungo tempo ha comunque sorretto una visione in cui forte era il richiamo ad una società intesa come organismo vivo e coeso nello sforzo di un’azione collettiva a favore dell’uguaglianza e della giustizia

La battaglia ideologica, di civiltà, sulla quale la Cgil ha chiamato a raccolta le sue truppe su di un punto ha certamente giocato: sul fatto che puri slogans di categorie  rinnegate, continuino ad esercitare il loro potere di seduzione su tutti coloro che su un pensiero forte sono stati cresciuti e formati.

Ma ora è tempo di porsi delle domande di senso.  Di avviare cioè un approccio alla riforma che sia culturale e di pensiero. Non  servirà forse a frenare un processo relativamente irreversibile in tempi brevi, ma di certo non sarà inutile.

“A livello dei valori culturali non si dà cristallizzazione riformistica, ci dice Umberto Eco, si dà soltanto l’esistenza di processi di consapevolezza progressiva  che, una volta aperti, non sono più controllabili da chi li ha scatenati”. E altrove, ancora Eco: “Negare che una somma di piccoli fatti, dovuti all’iniziativa umana, possano modificare la natura di un sistema, significa negare la possibilità stessa delle alternative rivoluzionarie, che si manifestano solo a un momento dato, in seguito alla pressione di fatti infinitesimali, la cui aggregazione (anche puramente quantitativa) è esplosa…” (8).

Stiamo tracciando un’utopia? Forse. Ma un’utopia vitale.

 

 

1.     Alain Touraine (vedi intervento riportato in allegato)

2.     25/01/04, Alle superiori percorsi personalizzati per gli studenti

3.     Viva la scuola della Repubblica, Libri liberi, Città di Castello (PG) 2002

4.     Convegno a Venezia – 3 aprile 2001

5.     vedi intervento allegato

6.     vedi Inchiesta Gilda sulla sperimentazione della Legge 53, allegato 3 (www.gildains.it – Professione Docente)

7.     ibidem

8.     Apocalittici e integrati, Bompiani, Milano 1999, pag. 49