Riordino(!)dei Cicli. 2

 L’altra Pedagogia.

“…il lavoro intellettuale , e a maggior ragione quello educativo, basato sull’intensità della relazione umana, non può obbedire a nessuna “quantofrenia”. Un parere dato da una persona saggia condensa in sé il tempo non misurabile di una vita. Una lezione di un docente, se fatta come si deve, nasce dalla sintesi di letture che trascendono di gran lunga quelle strettamente professionali. Un docente che individua una sofferenza interiore di un suo allievo e la sa elaborare vale mille volte di più di un altro che svolge le cosiddette “funzioni obiettivo”, ma non è capace di questa sensibilità.

…( C’è , nella scuola) una moltiplicazione soffocante delle “carte”di istituto, con protocolli di intesa, carte e controcarte dei servizi, Pof generali e poffini per riduzione, programmazione e moduli , progetti, relazioni, verbali, circolari del dirigente ecc… Insomma, mentre in tutte le vere aziende postfordiste si tentano strade per aumentare davvero…i valori connessi alla responsabilità e all’autonomia personale, al coinvolgimento affettivo, alla collaborazione…, nella scuola si incrementano invece ( vedi la vicenda “quizzone”e le cosiddette incentivazioni) le occasioni di competizione tra i docenti, di sospetto e di diffidenza reciproca…”

G. Bertagna, La scuola nell’epoca del postfordismo,in “Ideazione”, n. 3 Maggio- Giugno 2000

 

Giuseppe Bertagna è stato professore di Filosofia e Storia, preside e poi ispettore per le scienze umane e storiche. Ora insegna Pedagogia generale a Bologna e Didattica generale alla SIS del Piemonte. È anche redattore capo di due riviste scolastiche

( “Scuola e didattica”e “Nuova Secondaria”), pubblicate dall’editrice “La Scuola”.

È stato componente della Commissione ministeriale sul Riordino dei Cicli scolstici.

 

Ha accettato di rispondere alle nostre domande con disponibile generosità e per questo lo ringraziamo.

Pubblichiamo su “Professione docente” solo una parte della sua intervista  stimolante ed  esauriente. I lettori troveranno sul sito del “ Centro Studi” della Gilda

( www.gildains.it ) il testo integrale .

Il numero di Gennaio  del nostro giornale ospiterà, come allegato, un  prezioso contributo del professor Bertagna su “Scuola e organizzazione ( ovvero come giungere al fordismo quando le stesse aziende lo abbandonano)”.   

 

1) Professor Bertagna, il 3 Novembre 2000, il Ministro De Mauro ha presentato al Consiglio dei Ministri il documento di attuazione del Riordino dei Cicli scolastici, che dovrà essere discusso in Parlamento. Lei è stato componente attivo e critico della Commissione sul Riordino . Non Le chiedo un giudizio  complessivo. Le chiedo, invece, se ritiene che l’intenso lavoro della Commissione sia stato  utilmente impiegato da chi ha operato la traduzione politica di quei risultati.

 

Il Ministro doveva presentare il Programma in questione al Parlamento entro il 26 settembre. Poco più di un mese di ritardo, da noi, per la nostra tradizione, è perfino puntualità. Il Parlamento ha 45 giorni di tempo per esprimere un parere. Tale parere, tuttavia, come ha tenuto a sottolineare il Ministro, è solo consultivo, non vincolante. Come a dire che la maggioranza parlamentare ha approvato una legge sui cicli (la famosa legge 30/2000) che autorizza il Governo a decidere comunque quello che vuole, anche, se del caso, contro il parere di metà delle camere. Se è consultivo e non vincolante il parere del Parlamento, si può immaginare quanto lo possa essere quello delle cosiddette ‘forze sociali’ (sindacati, forze imprenditoriali, associazioni professionali) e, ancora di più, quello delle 10 mila scuole a cui il Ministro ha ‘democraticamente’ inviato, per conoscenza, il Programma in questione. Con queste premesse, è ovvio che siamo in presenza di una strategia volta a ricercare il consenso piuttosto che a registrare i punti critici di una proposta. Far sfogare i mugugni, prendere l’occasione per ‘gestirli’, spiegare agli ignoranti, convincere i renitenti, enfatizzare i plausi, tranquillizzare i preoccupati. Una duplicazione del percorso già sperimentato con successo dal ministro Berlinguer a proposito dei regolamenti sull’autonomia scolastica. Che il ministro faccia quello che ritiene giusto, del resto, lo dimostra anche la vicenda della commissione dei 300. Non era una commissione politica, basata sulla forza e sugli schieramenti; quindi i pareri espressi non andavano contati come pro od antigovernativi, ma semmai pesati per le differenti filosofie e pedagogie curricolari e istituzionali ad essi soggiacenti. Un parere andava considerato nel merito anche quando 299 erano di segno contrario. Per la verità, non si può dire che la commissione sia stata monocorde; anzi le ipotesi confluite nei documenti conclusivi sono state molte, e anche tra loro disparate, indubbio segno della libertà di dibattito intervenuta. Il ministro però, con i suoi tecnici, ha fatto, nella sostanza, quello che ha voluto. O meglio, quando non ha inventato soluzioni che nessuno in commissione aveva avanzato (è il caso dell’articolazione della scuola di base o della formazione dei docenti della scuola di base e non), ha scelto di percorrere strade che confermavano orientamenti  già largamente espressi da suoi organi tecnici e da tempo noti agli addetti ai lavori.  È stato ingeneroso, oltre che disinformato, perciò, Enzo Biagi quando, sul Corriere della sera del 4 novembre, ha attribuito genericamente ai 300, in fondo, a suo avviso, né giovani né forti, le soluzioni adottate nel Programma di attuazione. 

 

 

2)Ambiti e discipline : quale  dovrebbe essere , a Suo avviso, un equilibrio sensato tra  di essi?

 

Continuo il discorso avviato prima. C’è qualcosa che non torna in questo linguaggio. A volte si usa la parola ‘ambito’ per indicare qualcosa di predisciplinare; altre per riferirsi ad un insieme di discipline integrate (speriamo non assiepate), qualcosa di interdisciplinare. Nel primo caso, bisognerebbe essere più precisi: che cos’è che sta prima delle discipline? Nel secondo bisognerebbe essere coerenti: come si può parlare di inter o pluri o trans disciplinarità se, prima, non esistono le discipline? Ma allora questi ambiti che cosa sono? Una formula amministrativa, con i docenti sacerdoti del rito? Un mero artificio organizzativo pragmatico? Se è così non vale la pena di spendere parole sul passaggio dagli ambiti alle discipline. Sarebbe come discettare sul passaggio dalle pere alle mele. Sono due questioni diverse e incomparabili. Non si possono mettere in linea. Allora parliamo pure di ambiti, ma non pretendiamo di attribuire loro dignità epistemologica, con chissà quali ardite elaborazioni culturali. Gli ambiti possono esistere sempre e mai: dipende se servono o meno a far quadrare posti, orari e, vista la moda, ormai, anche i criteri per arrotondare lo stipendio. Che esistano o che non esistano, però, il problema è un altro. Kant ha  scritto che tutta la cultura nasce dalle domande esistenziali sulla vita, sul cosmo, sulla natura, sulle relazioni interpersonali, sull’essere che ciascuno di pone. Come rispondere a queste domande? Si ritorna alla risposta già data prima. Non si può rispondere se non cominciando ad esplorarle ora da una prospettiva ora da un'altra. Non è questa la dinamica che ha fatto nascere le discipline di studio? Se l’educazione è la trasmissione del patrimonio collettivo elaborato dall’umanità a ciascun nuovo venuto al mondo, perché allora non prendiamo sul serio il cognitivismo postvygotskiano e non ribaltiamo il discorso? Proprio usando con i ragazzi l’ordine delle discipline di studio inventate per esplorare i problemi della vita e del mondo noi rispondiamo alle domande di ciascuno. Non si tratta di far dire alla fisica quello che non può dire, per esempio se esiste Dio. O alla chimica se esiste la libertà e la responsabilità. Si tratta, per rispondere ai problemi, di impiegare le diverse prospettive consapevoli dei limiti e delle possibilità che offrono. Le discipline tornano quindi prepotentemente in gioco. E bisogna che i docenti le conoscano molto bene, non un tanto al chilo. Inoltre, che loro stessi non facciano incroci innaturali, e non chiedano alla chimica quello che va chiesto alla morale e alla religione quello che va chiesto alla politica e all’azione sociale. Se per loro queste distinzioni non sono questioni di vita, ovvero di risposta ai perché di sé, del mondo, del cosmo e dell’essere, come possiamo pretendere che siano poi di esempio ai ragazzi e che insegnino loro i segreti di questa affascinante esplorazione? Altro che corsi di riconversione che in 60 ore abilitano un letterato a insegnare filosofia e un docente della media a passare nella superiore! Servirebbe prendere sul serio il discorso della formazione, iniziale e continua, non risolverlo con gli incredibili  pressappochismi esplosi in questi ultimi anni. Un’ipotesi come quella avanzata recentemente da Morin, quella di un curricolo centrato sulle grandi e complesse domande della vita, non è risibile solo in presenza di un docente che sia un raffinato uomo di cultura, non un imbonitore confusionario e superficiale. La società è, del resto, ricca di istituzioni e di occasioni che stimolano il bambino ad impiegare modalità empiriche, quando non capricciose, di rispondere ai problemi che si fa e che incontra. Che bisogno c’è di una scuola che amplifichi questa già corposa tendenza? Non è meglio invece una scuola concepita come il segmento sociale in cui si fa specificamente l’esperienza di un ordinamento delle risposte ai nostri problemi di fondo attraverso le discipline? Non partecipo insomma all’entusiasmo di chi  le vuole liquidare o ridimensionare.  Così come reputo snobistica la proposta di assegnare prima peso ai saperi procedurali e poi, solo poi, a quelli dichiarativi. Queste successioni esistono solo nella mente di chi le formula. Nella realtà epistemologica, e  a maggior ragione in quella esistenziale, il dichiarativo è sempre connesso al procedurale. Galileo non avrebbe mai ‘visto’ la sua meccanica senza bilance e piani inclinati per procedere agli esperimenti. Né queste avrebbero mai ‘parlato’ se non dentro il quadro di quelle. Sarebbe paradossale sostituire uno schematismo, quello attuale, che scambia sapere dichiarativo per ripetere a memoria qualche notizia letta sul libro o sulla videata del computer, con un altro, quello che pensa che prima si impara il fare qualcosa e poi, solo poi, si passa al sapere. No, l’uomo deve sapere  facendo e fare, ed agire, sapendo. Sono le dimensioni (theoria, poiesis, phronesis) della vita quando è umana. 

 

3) «Il lavoro intellettuale basato sulla relazione umana non può obbedire a nessuna ‘quantofrenia’». Così Lei afferma in un Suo articolo apparso su “Ideazione”, n. 3, maggio-giugno 2000. Eppure, tutta la Scuola sembra investita da una furia valutativa, o meglio, da          una ricerca ossessiva di quantificare tutto, anche l’imponderabile.

 

Devo dire che considero un grave errore, anche e soprattutto in prospettiva, l’impostazione metalmeccanica, da anni settanta, con cui si tenta di interpretare la delicatissima e decisiva funzione dell’insegnamento. Un’attività come questa che ha sempre mal sopportato la quantificazione del lavoro, proprio perché intellettuale e qualitativa, è sottoposta ad un’operazione di scomposizione dei carichi di lavoro e di misurazione oraria delle  prestazioni che produce addirittura incentivi economici (il cottimo contro cui hanno lottato almeno quattro generazioni di operai). Da parte di qualcuno, si  è giunti perfino alla vertigine di proporre differenziazioni salariali collegate al grado di apprendimento degli alunni, stabilito attraverso test e prove oggettive, come se il rapporto apprendimento-insegnamento fosse paragonabile a quello esistente tra processo e prodotto meccanico in fabbrica. Ritengo deleteria questa deriva. Porta alla perdita di ogni entusiasmo, oltre che di ogni dignità professionale. Non si è bravi docenti perché si sta a scuola 30 o 36 ore, firmando il cartellino o quante altre carte si voglia: lo si è, se si è scelti dagli allievi e se si è capaci di instaurare con loro i rapporti educativi necessari per il tempo necessario. Altro che mansionari e funzioni-obiettivo! Dobbiamo mirare ad una scuola nella quale torni ad essere importante non progettare l’educazione sulla carta, ma praticarla, facendo provare la gioia dell’apprendimento agli allievi; non incontrare tecnici di qualche moda didattica più o meno lunare, ma veri ‘maestri’ e mentori della crescita. È ovvio che persone del genere vadano pagate e premiate, non lasciate a stipendi di sopravvivenza. E che vadano formate e riqualificate come si deve.

      

                                                                                                                                                              A cura di  R.B.