“Poiché non
hai domandato
né ricchezze,
né beni, né gloria, né la vita dei tuoi nemici,
ma hai
domandato piuttosto saggezza e scienza
per governare
il mio popolo, su cui ti ho costituito re,
saggezza e
scienza ti saranno concesse”
2Cr 1,11-12
“Ogni
educazione si fonda su questo …noi stiamo costantemente dentro a
delle
tradizioni e questo è sempre qualcosa che sentiamo come nostro…
Riconoscendoci
nelle quali, il successivo giudizio storico non vedrà solo una
conoscenza,
ma un
appropriarsi di una tradizione…
così come si
verifica nelle scienze dello spirito in cui la
comprensione
del passato tramandato
è
(…vissuta]
come qualcosa che interpella.
(Gadamer).
Franz Rosenzweig, in un articolo apparso
nel ’26 dal titolo “Bildung e nessuna fine”, esprimeva il suo profondo
rammarico poiché non si interveniva con la fermezza dovuta a proposito
di una riforma sulla Bildung (formazione) nelle scuole ebraiche. E,
lamentando che le cose andassero per le lunghe,ad un certo punto
scriveva:
“L’emergenza richiede l’azione. Più
imperiosamente che mai. E non basta spargere il seme che, forse in un
futuro remoto, si schiuderà e porterà frutto. Oggi si fa sentire il
bisogno, oggi deve essere trovato il rimedio. Una terapia di artificiose
vie traverse è inopportuna. Chi vuole aiutare deve spicciarsi altrimenti
non trova più il paziente in vita”.
Chi di noi non sottoscriverebbe – per la
scuola italiana- quest’ appello, così appassionato, di R. anche oggi?
Quale parlamento non voterebbe unanime una
tale perorazione? Eppure è su quel “le vie traverse” che ci si
dividerebbe inesorabilmente. Perché si sa, la prognosi è: “il paziente è
in fin di vita”. Ma l’anamnesi metterebbe a fuoco eziologie assai
dissimili, e non solo non ci si accorderebbe sui rimedi, ma nemmeno –
temo- si aprirebbero spazi per un “dialogo costruttivo” .
E, nella consapevolezza di una tale
urgenza educativa,ma anche nella bonaccia che caratterizza l’attuale
dibattito all’interno del mondo della scuola, la Gilda non rinuncia a
farsi espressione di una speranza: che si difenda:
1 una scuola del “sapere”; libera
dall’ossessione avalutativa, ma che assuma il sapere come fonte di
significato per la vita, non deprivato, quindi, da un ordine di
preferenze che lo alimenti.
2 una specificità del ruolo
dell’insegnante;
3 il principio della Bildung o
formazione, che è il valore cardine dell’insegnare.
Vuole difendere questo valore senza
impaludarsi in “artificiose vie traverse”, ma affrontandone
coraggiosamente il cuore: che è per noi rappresentato dall’idea di
responsabilità etica, ovvero l’assunzione consapevole dell’opera di
formazione ai giovani. Tale formazione si articola i due momenti:
1 trasmissione della tradizione -l’“antico”-
,
e
2 attenzione per l’apparizione del “nuovo”:
cioè dei nuovi soggetti e nuove ermeneutiche.
Sia salvaguardando che ridisegnando ruoli
e contenuti.
1 Salvaguardando: perché nella tradizione,
nella memoria conserviamo le nostre radici, nella tradizione si radica
l’identità; nel passato può prodursi l’humus per l’accoglienza del
nuovo.
2 rinnovando, perché il presente deve
trovare spazio, deve essere accolto e ospitato nella sua implicita ma
pur germinante domanda di esistenza.
Questo mio contributo vuole affronterà un
aspetto parziale nelle questioni che il convegno è chiamato ad
indagare.
Io mi occuperò della dimensione
esistenziale del nostro lavoro. Ma per farlo prenderò come riferimento
centrale un’autrice. Questa donna non è certo un’ “esperta” in ambito
educativo, ma – stando alle sue parole -più propriamente è teorica
della politica: è H. Arendt.
Se abbiamo bisogno di fare incontri
giusti in relazione alla pratica dell’insegnamento, quello con H. Arendt
lo è come lo è il rintocco della campana a mezzogiorno: che è invito
alla pausa e alla ri/creazione. Io credo che il pensiero di H. Arendt
su i 2 aspetti che prima ho richiamato - modernità e tradizione nella
formazione- dentro la cornice di una società di massa, sia di grande
aiuto.
Recentemente, con l’apertura dell’anno
scolastico, abbiamo potuto sentire come i media si siano occupati delle
vicissitudini della scuola, in Italia e all’estero. Un solo dato
riferirò. Abbiamo appreso, in verità senza molto stupore- ma comunque
lo registriamo come un altro segno dei tempi- che in Francia si sono
adottati nelle aule manuali di autodifesa dell’insegnante – “come
difendersi dalla violenza”- distribuiti dal ministero. (La Stampa di
lun. 11 sett). Un segno, appunto.
Più in generale, oltre a statistiche,
interviste a celebrità ed a esperti, siamo per lo più alla lamentela,
alla cronaca del malessere.
Pochi sono i segni indicatori che l’affaire-
educazione venga preso sul serio.
O meglio: dal lato giusto. Che non è
quello, per dirla con uno slogan: “nuove tecnologie e nuovi metodi”!!!
I tecnocrati infatti continuano a
proporre tecnologie avanzate, continuano a chiedere di inchinarsi di
fronte alle neuroscienze, i cui ultimi ritrovati non verrebbero
conosciuti dagli operatori della scuola, ma le cui risorse e scoperte
sarebbero risolutive, o certamente facilitatici...
E poi si suggerisce di ampliare gli
spazi fisici, cioè gli ambienti dell’apprendimento: uscire dalle aule….
E riformare le facoltà universitarie che sfornano docenti: svecchiare!!
svecchiare contenuti e metodi; e allestire nuovi corsi per impartire
nuovi metodi, dare avvio a nuove docenze per i nuovi corsi per nuovi
metodi….
Metodologie, strumenti, strategie. Corsi e
ricorsi compulsivamente stregati dal richiamo sempre della stessa
Sirena: la Tecnica.
Ma avverto –in modo un po’ rabdomantico-
che in qualche modo sta germinando, ancora in sordina, ancore con
forme sussurrate, balbettate, un’altra domanda: sta spuntando una fame
di beni immateriali, di senso.
Spesso accade – come tutti sanno- che
questa nostra civiltà trasformi vampiristicamente bisogni ontologici,
vitali, in domande di prodotti, di merci, o in richieste di servizi o
di “trattamenti” appositi, gestiti da personale “competente”
appositamente creato ed offerto dall’Istituzione o da astuti enti
privati. Di fronte all’offerta di rimedi dall’aspetto così
“scientifico”, l’effetto è quello di reclamarne la presenza; tranne il
fatto che poi, dopo la fruizione (costosa per le casse pubbliche) se ne
rimane inappagati. e l’effetto finale è quasi sempre quello di non
sapersene che fare.
È invece un altro il punto decisivo,
essenziale, che va affrontato, illuminato, messo a tema: la
consapevolezza nel proprio ruolo.
Nella cultura contemporanea il nostro
ruolo non ha affatto prestigio. Ma soprattutto non ha nemmeno
chiarezza; ha obliato, smarrito l’“idea”.
Ciò a causa di vari motivi, tra i primi
sono gli orientamenti tecnicistici, che ne hanno oscurato, se non
rimosso la fenomenologia.
Ma la tensione, il desiderio di
ri-conoscere e stabilizzare dentro di noi i confini di tale funzione,
per guadagnare consapevolezza, rimane un desiderio potentemente
presente.
E quindi indugiare a ragionare,
interrogarsi sulle forme (al plurale) del nostro ”ubi consistam”,
sulla consistenza ontologica della figura “insegnante”, oggi, è uno
snodo fondamentale di quell’urgenza di cui sopra dicevamo.
È viva la necessità – credo- di ricerche
e studi, nonchè elaborazioni politiche, che si oppongano con
determinazione a quelle che Rosenzweig ha definito “vie
traverse”; che vadano in direzione contraria a quelle da cui siamo
inondati . Ci occorrono ordini del discorso che ci aiutino ad
autocomprenderci, riconoscerci in una “gravitas” - è H. Arendt ad
evocare l’aura che detiene la gravitas per l’uomo dell’età
passate-.
E non per guadagnarne un potere obsoleto,
un teacher- pride venato dalle ombre della frustrazione
che reclama un riscatto. Tutt’altro: queste parole vanno invece
nella direzione di un cercare insieme, animato da serenità, misura,
convincimento e ascolto reciproco.
Lo sforzo deve essere quello di mettere a
tema quel senso essenziale, quel fondamento costitutivo al mestiere
dell’insegnante, quel perno capace di portarne il peso, quella pietra
testata d’angolo che funzioni da baricentro, come la zavorra di una
nave che mantiene tutto nell’esatto equilibrio.
Che tale ricerca di senso sia da associare
al concetto di autorità è per Arendt evidente.
Nel saggio sulla crisi dell’educazione, (Die
Krise in der Erziehung in Between Past and Future) un saggio
del ‘54 che prenderemo in esame per la sua stupefacente attualità e
profezia, la crisi dell’insegnamento è assai strettamente
imparentata con la crisi del senso di autorità e contemporaneamente
con l’idolatria per la modernità.
Nel saggio precedente sull’autorità, A.
aveva delineato il cammino che il concetto d’autorità aveva percorso
nell’occidente, ne aveva sottolineato il tramonto e il passaggio del
testimone al valore del “nuovo”.
Nel saggio sull’educazione, dopo l’analisi
sui presupposti su cui si fonda la contemporanea crisi dell’istruzione
delle scuole americane, si approda al centro del tema: il senso
profondo della scuola in ogni civiltà.
Esso si compone sostanzialmente di 2
questioni:
1 il nuovo e il vecchio: il
bambino/ragazzo e il vecchio mondo in cui egli si inserirà.
2 la figura dell’adulto - genitore o
insegnante- come essenziale mediatore tra questi due mondi.
Punto 1 L’allievo è un
bambino/ragazzo che è venuto al mondo, in quel mondo dove noi adulti
cresciuti, da tempo già siamo abitatori. Tale mondo possiamo chiamarlo
il “vecchio”. Il bambino /ragazzo è invece “apparso” al/nel mondo. Ed
quindi “il nuovo”.
I due poli della relazione : bambino /
mondo sono in un rapporto dialettico, così come vecchio/nuovo e così
come pubblico/privato .
Arendt dice: il bambino, il nuovo, va
protetto dal mondo. Ma reciprocamente anche il mondo va difeso dal
nuovo, che è rappresentato dal bambino, che questo vecchio potrebbe
offendere, deturpare, dissipare.
Entrambe la aree hanno qualcosa che deve
essere salvaguardato perché potrebbe essere distrutto, ma entrambe hanno
un potenziale nucleo aggressivo ed ostile verso l’altra, e questo
nucleo potrebbe ferire e nuocere all’altro polo.
Il bambino deve essere protetto nella sua
sfera privata e non entrare in una dimensione pubblica.
Quest’ultima a sua volta non può non
essere identificata con quella comunità civile che ci ospita, e in cui
il mondo si fa attraverso noi.
Il mondo ha una
sua durevolezza/continuità che non va considerata come un qualcosa di
scontato, di “naturale”: il mondo dura/permane se noi sappiamo farlo
durare.
Occorre quindi
comprendere il mondo sotto uno sguardo che non è quello della
“naturalità” della quotidianità, ma è quello del dono e della Festa.
Arendt dice “prendersi cura del mondo”. Sento qui gli echi di quell’atteggiamento
tipicamente ebraico che indica “la santificazione della vita” come uno
dei primi precetti. Per chi conosce Martin Buber, e la sua epica
narrazione sui detti dei Chassidim, sa a cosa mi riferisco.
Ma nello stesso tempo il mondo - lo spazio
pubblico- rappresenta la dimensione degli scambi sociali pubblici, e
questi si fondano su criteri inadeguati per chi è ancora in fase di
crescita, la loro è una personalità non ancora formata, stabile, e
quindi assai vulnerabile. Il bambino ragazzo non va esposto
irresponsabilmente nello spazio pubblico.
Spazi pubblici e spazi privati : un tema
su cui Arendt ha insistito in molte sue pagine, soprattutto in Vita
activa, dove la questione è messa in luce in parallelo
all’analisi degli spazi e soggetti della politica, partendo dall’epoca
della Grecia classica.
Ma anche in questo saggio A. riprende un
tema così prezioso per lei: “la società più completamente moderna ha
abolito ogni distinzione tra il privato e il pubblico”.
Pensate quanta preveggenza, quanto acume
profetico c’è in queste riflessioni! La filosofa tedesca scriveva
queste cose nel ’54. E cosa si direbbe di questo nostro tempo
attuale, dove gran parte degli spettacoli televisivi di maggiore
audience, i cosiddetti reality, hanno come architrave della loro
impalcatura la messa in scena, in mostra di materia squisitamente
privata: drammi, conflitti, tormenti e ogni sorta di questioni
morbose tra mariti e mogli, genitori e figli, in cui gran parte dei
protagonisti sono proprio adolescenti? La spettacolarizzazione del
privato è veramente il grande idolo dell’età in cui viviamo; ma se gli
effetti sono patetici e/o nauseabondi per un adulto, per un
bambini/ragazzo quegli effetti sono molto di più: sono spietatamente
infausti. E non per una questione morale, ma perché espongono il
giovane ad una confusione: raccontano di una realtà dove manca l’idea di
separatezza, di contenimento tra ambiti privati – dove ci si può
affidare - e quelli pubblici - dove è bene non affidarsi senza
garanzie.
Punto 2 La scuola è il luogo
dove il bambino viene, in tempi delimitati, separato dal nido familiare
per vivere a contatto con altre persone, che assumono un ruolo di
riferimento, e quindi è luogo per eccellenza in cui il bambino è
introdotto nel mondo. “È l’istituzione che abbiamo inserito tra l’ambito
domestico e il mondo, con lo scopo di permettere il passaggio dalla
famiglia alla società”.
La novità che il bambino ha manifestato
nel suo apparire al mondo, deve trovare ospitalità e dimora. Il fatto
che egli sia “nuovo” nel linguaggio arendtiano significa che egli è un
“unico”, perché l’Unicità distingue ciascun essere umano da tutti gli
altri esseri umani, essendo ciò che è costitutivo della novità.
Sono gli educatori adulti ad assumere il
ruolo di custodia di tale “novità”, ma non si tratta solo di custodia
passiva. Saranno loro, - a mo’ di una ostetrica, seguendo la celebre
metafora socratica - a farla crescere e fiorire. “È qualcosa che non
c’è mai stato prima d’ora” : basta questo enunciato per farci cogliere
quanta preziosa sia considerata da H. Arendt quella vita in formazione
qual è quella di un bambini. L’educatore è chiamato a stimolare lo
sviluppo di qualità e talenti peculiari a ciascuno. E in ciò si è
omogenei a tutto il sapere della paideia.
Ma gli educatori sono le figure che ,
oltre a presentare il mondo che si dischiude agli occhi, ne danno
senso. E ancor di più, e qui sta il punto decisivo , non possono
presentarglielo come qualcosa in cui essi non sono affatto implicati, o
per cui provano completo distacco o totale indifferenza. “ (essi)
rappresentano di fronte al giovane un mondo del quale devono
dichiararsi responsabili, anche se non l’hanno fatto loro, e anche
se, in segreto o apertamente, lo desiderano diverso. Questa
responsabilità non è imposta d’arbitrio agli educatori: è implicita nel
fatto che gli adulti introducono i giovani in un mondo (…) Chi rifiuta
di assumersi la responsabilità in solido,-dice A.- non dovrebbe avere
figli, né costituirsi parte attiva nell’educare i giovani”.
“Assumersi responsabilità” è, qui,
elemento di paideia distinto dall’altro, quello della conoscenza della
propria disciplina. Quest’ultima, che lei chiama “Qualifica”, è la
qualità attraverso la quale si è in grado di istruire i giovani. Ma è la
prima quella per cui siamo chiamati a dire “respondeo”: non solo
rispondo di ciò che insegno, ma anche rispondo del fatto che le cose del
mondo siano così. Questa è la forte marcatura etica del pensiero di
Arendt. “ Di fronte al fanciullo (l’educatore) è una sorta di
rappresentante di tutti i cittadini adulti della terra, (che dice )
<<ecco il nostro mondo!>>”
È come una sorta di giudice che nell’aula
di giustizia rappresenta la Legge: anche se nel merito il
contenuto di quella legge specifica che dovrà applicare non gli
dovesse apparire perfettamente corretto (in relazione al caso
giudiziario su cui si sta attuando il processo) egli non si sottrarrà
comunque, non abdicherà alla funzione che la società gli ha assegnato.
Quella legge che lui impersona è segno del cammino verso il Bene
Comune che gli uomini intraprendono, che è il frutto dei tentativi che
essi sono riusciti a esprimere avvicinandosi il più possibile alla Idea
di Giustezza.
A questo punto, qualcuno di voi potrebbe
avanzare obiezioni e sentirsi irritato in merito a questa opzione
politica, un’opzione che poterebbe sembrare un acritico ed ingenuo
schierarsi dalla parte delle istituzioni, quasi un appello
fondamentalista.
Queste affermazioni potrebbero apparire
una nota stonata nell’orizzonte di un pensiero politicamente adulto e
democratico; e sembrare scaturite da un fervente estimatore dello
“stato etico”, piuttosto che dalla filosofa che ha elaborato uno
studio critico sulla nascita dei totalitarismi in Europa.
Ma Arendt non ci invita a schierarci
con le istituzioni, né con la comunità cui apparteniamo sempre e
comunque. Negli scambi o relazioni col mondo adulto queste
considerazioni non sarebbero ammissibili. Nelle relazioni col mondo
infantile c’è una asimmetria che non trova corrispettivo nel mondo
degli adulti e che non deve mai essere sottovalutata. “C’è una
superiorità assoluta degli adulti sui bambini – dice Arendt. Tale
superiorità non può e non deve esserci tra adulti. Là la
superiorità è temporanea; tra adulti invece – come per es. tra
governanti e governati - i rapporti sono stabili”. Le 2 sfere vanno
tenute presenti come universi diversi.
In questo spazio asimmetrico che
l’istituzione scolastica, se gli adulti si sottraggono all’autorità che
loro spetta è quasi come dicessero : “In questo mondo anche noi non ci
sentiamo a casa nostra: anche per noi è un mistero come ci si debba
muovere, che cosa si debba sapere, quali talenti possedere. Dovete
cercare di arrangiarvi alla meglio, e in ogni modo non siete autorizzati
a chiederci conto di nulla. Siamo innocenti, ci laviamo le mani di voi”.
Se non ci assumiamo la autorità a cui
siamo chiamati, il “tribunale della ragione” a cui A. si rifà, sembra
chiamarci in correo.
Anche il “conservare” muta in relazione
agli ambiti. Se in politica il conservare confluisce e slitta spesso nel
conservatorismo (lo status quo), con effetti deleteri -
perché il mondo è soggetto all’ irrevocabile distruzione del tempo, a
meno che gli uomini non intervengano rimettendolo in sesto -,
nell’educazione invece il conservare consente il dischiudersi di quella
novità irriducibile costituita dall’unicità dell’individuo.
Questo mio contributo è un semplice
spunto, un frammento per incamminarci verso un itinerario che – nel
solco tracciato da figure significative - faccia un po’ di ordine nella
matassa aggrovigliata del nostri bisogni.
Rosenzweig diceva che non basta spargere
il seme. Ma noi no, siamo meno ambiziosi. Vorremmo però che questo seme
giungesse ad elaborare un Pensiero autorevole, un pensiero che, nutrito
dalla riflessione sulla pratica e mai dimentico di essa, conferisca una
forma evidente e una stabilità alla nostra pratica educativa: come
premessa all’inveramento di 2 speranze: quella di formare creature
1
assolutamente uniche, capaci di responsabilità e di libertà, o meglio:
di libertà quindi – kantianamente- di responsabilità.
2
capaci di cogliere la bellezza nuova e insieme antica che è depositata
nel sapere, e di viverlo come un dono.