IL SISTEMA MERITOCRATICO: L’OPINIONE DI UN PRESIDE      

 

Nel volume «Professionalità e codice deontologico degli insegnanti» (Erickson, Trento, aprile 2000), Rosario Drago, Preside dell’Istituto professionale «G. Falcone» di Roma, dedica un capitolo all’«insegnante massa» figura di insegnante «sempre più omogeneo, fungibile e, pertanto, deprofessionalizzato» che si è venuta configurando a partire dagli anni sessanta, sulla spinta delle «pressioni del mercato del lavoro, intellettuale e femminile, soprattutto nel Mezzogiorno».

L’ultima parte del capitolo prende in esame l’ipotesi di un nuovo sistema meritocratico per i docenti, che indurrebbe gli insegnanti ad investire nella professione, non fosse altro che «in vista dei vantaggi o degli svantaggi del sistema di premio-sanzione».

Il ragionamento segue grosso modo il seguente schema logico:

n    il sistema premiante migliora il rendimento del singolo e quindi la qualità della scuola;

n    il sistema incontra ora delle difficoltà nella individuazione dei parametri, per la presenza di elementi variabili, quali le caratteristiche degli alunni e le condizioni di lavoro;

n    il sistema potrebbe funzionare a condizione che:

a) i dirigenti scolastici godessero di una reale autonomia nella gestione del personale, autonomia che si esplicherebbe nella possibilità di assumere, licenziare, articolare una carriera per i loro dipendenti. In questo caso il dirigente opererebbe una valutazione che terrebbe conto anche degli elementi  indicati come variabili (caratteristica degli alunni, condizioni di lavoro);

b) l’insegnante ricevesse una formazione atta a farlo diventare un «tecnico della pedagogia», «rispettoso dei compiti e delle consegne che gli vengono affidati». In tal caso «l’indipendenza non avrebbe più ragion d’essere e il problema della mobilitazione e motivazione del personale si porrebbe nei medesimi termini in cui si pone in una qualsiasi impresa o azienda».

La prima ipotesi ci rimanda ad un sistema di «management» del personale, che, già presente nel sistema inglese, incontra invece in Italia delle difficoltà nella misura in cui nel nostro paese il «Ministero, anche dopo le riforme, resta l’unica sede legittimata all’amministrazione del personale (non delegata alle scuole autonome), che si definisce soprattutto come l’applicazione di norme giuridiche alle condizioni dei dipendenti: il sogno di tale cultura è di ridurre ed eliminare ogni variabile soggettiva e di trasformare l’organizzazione in una perfetta macchina semovente, mossa da un motore immobile centrale, il cui carburante è la cultura giuridica ed amministrativa. In questa concezione non vi è posto per la responsabilità personale (verso  i risultati) né per l’autonomia professionale: tutti sono esecutori della Norma, che contiene in sé la garanzia della realizzazione dei risultati, che non occorre valutare»  (B. FIDLER - T. ATTON, Insegnanti in difficoltà professionale, Trento, Erickson, 2000).

La seconda ipotesi presuppone un accordo sulle tecniche da mettere in atto e/o una definizione reale dei saperi, che siamo ancora ben lungi dal raggiungere.

          Il sistema meritocratico, che non solo ovvierebbe ai mali della scuola italiana, ma conferirebbe altresì - vi si dice - nuova dignità al profilo professionale del docente, risulta di difficile realizzazione, poiché incontra delle resistenze politiche, nella prima ipotesi, e delle inadeguatezze professionali nella seconda.

 

Questo il ragionamento di Rosario Drago sul quale vorrei fare alcune osservazioni.

 

1.   Esso poggia sull’assunto, dato come dato scontato, che l’introduzione di un sistema meritocratico, e quindi competitivo, migliori la scuola. Se il punto di partenza è errato, l’intero ragionamento viene a cadere. Ora, sulla bontà di questo assunto non tutti sono d’accordo. Vorrei,  a questo proposito, citare Massimo Bontempelli, autore di un ottimo libro dal titolo  «L’agonia della scuola italiana», Editrice CTR.

     «Il postulato ideologico della differenziazione retributiva è a sua volta un corollario di un postulato  ideologicamente ancora più forte, quello cioè della competizione a tutti i costi e in tutti i campi, che i poteri economici stanno imponendo, con il servile aiuto della sinistra politica, a tutta la società. In un Convegno tenuto a Londra all’inizio del 2000, le Confindustrie di 7 paesi europei... hanno redatto un documento, in cui indicano la scuola che pretendono su scala continentale. Ebbene: in questo documento finalità e contenuti della scuola non sono che sottoprodotti di un superiore principio fondante, quello della competizione generalizzata. La competizione, vi si dice, deve operare simultaneamente a tre livelli: tra sistemi scolastici, tra istituti scolastici  e tra singoli insegnanti. La gara tra sistemi e istituti per accaparrarsi i clienti, attraverso una libera offerta di istruzione, vi si spiega, porterà a contenuti di insegnamento più moderni. Materie obsolete come il greco e la storia antica, si sottintende, saranno spontaneamente emarginate dalla concorrenza a favore dell’informatica e dell’inglese, della scienza bancaria e delle tecniche di indagine di mercato. Insegnanti preparati a sorpassarsi l’un l’altro, in una gerarchia di ruoli e di redditi molto diversificati, renderanno migliori i loro istituti.

     Naturalmente, poiché la scuola non può diventare azienda rimanendo scuola, né l’educazione diventare merce rimanendo educazione, il quadro di una competizione generalizzata che migliora il sistema dell’istruzione è del tutto falso. La competizione, invece, abbasserà il livello culturale della scuola, in quanto porterà ad eliminarvi i contenuti più teorici e deprimerà lo spirito critico, in quanto piegherà  i saperi e gli interessi all’adattamento alle situazioni date. Sarà fonte non di maggiore, ma di minore efficienza organizzativa, perché moltiplicherà i congegni da gestire».

     Personalmente, aggiungo che alcuni segnali che supportano questa ipotesi ci giungono dall’Inghilterra, laddove l’introduzione di criteri meritocratici per i docenti non ha avuto significativi riflessi sullo stato di degrado delle scuole pubbliche inglesi.

2.  La volontà di dare avvio ad un sistema meritocratico per i docenti va di pari passo con la sempre maggiore spinta verso l’ugualitarismo garantista per gli studenti. Ora, se si ritiene che la meritocrazia influisca positivamente sul rendimento, non si capisce come il ragionamento abbia una validità solo unilaterale.

     Diventa allora lecito chiedersi se il fine conclamato non sia diverso da quello reale, che sembra piuttosto andare nella direzione di una sempre maggiore volontà di controllo delle masse. In questa ipotesi, la meritocrazia dei docenti, che impone o la presenza di un controllore capo (il dirigente della scuola autonoma), o la riduzione del docente a tecnico che, privato di ogni autonomia professionale, esegue pedissequamente le tecniche concepite da altri, e l’egualitarismo dei discenti, che uniforma a bassi livelli, emarginando di fatto la Cultura reale, rispondono ad uno stesso scopo.

     «Il professor Bingo ripensava alle parole di Antonio Gramsci,... "studiate, studiate, studiate, compagni, perché abbiamo bisogno di tutta la nostra intelligenza". Quella era veramente la rivoluzione. Una popolazione colta che potesse smascherare le bugie del potere. Quello era il nemico delle forze dominanti. I tempi erano cambiati velocissimamente, ma il potere era sempre quello, era lì prima di Gramsci, prima della regina Vittoria. E la lezione il potere l’aveva imparata bene. Non era più necessario mantenere la popolazione analfabeta in senso letterale. Ora il gioco era molto più subdolo: si poteva fingere di dare loro tutta l’informazione necessaria, un delirio quotidiano di “Fatti”, ma in realtà si stavano formando solamente dei neo-analfabeti... L’educazione permanente al non pensiero è lo scopo ultimo dei media tecnologici. La Cultura è pericolosa come lo era un tempo. Ma oggi abbiamo un nuovo sfolgorante sistema per orientare subdolamente il gusto e le scelte, le idee e le opinioni, per far credere vero ciò che è assolutamente falso. Emarginare la Cultura, pericolosa per il Sistema, Vecchio slogan obsoleto ma la cui verità non si è alterata».

     (V. VANDELLI, Il professor Bingo, Modena, Il Fiorino, 2000)

A. CENERINI - R. DRAGO, Professionalità  e codice deontologico degli insegnanti, Trento, Erickson, 2000

 

«L’insegnante - massa»: la fine di un’epoca

 

La valutazione

 

          Si fanno innanzitutto tentativi di istituire un sistema premiante che presenterebbe il doppio vantaggio, da una parte, di motivare o «confortare» gli insegnanti che aderiscono ai modelli professionali, dall’altra, di convincere coloro che adottano comportamenti utilitaristici a modificarli in vista dei vantaggi o degli svantaggi del sistema di premio-sanzione. La soluzione sembra facile: basta sostituire l’anzianità con il merito, magari aumentando gradualmente il peso di quest’ultimo nello sviluppo della carriera. Ma le difficoltà di attuazione di tale schema sono notevoli. E si è visto di recente, non solo in Italia.

          L’insegnante non è un quadro dell’industria il cui merito possa essere giudicato in termini di vendite. Ad esempio, anche se si volessero prendere come riferimento o parametro i risultati degli studenti agli esami, essi potrebbero servire solo per i docenti che li preparano. Inoltre non lo si può considerare un criterio obiettivo, poiché dipende anche dalle caratteristiche degli alunni. Sappiamo che lo stesso insegnante ha difficoltà a riconoscere e misurare il merito che può attribuire a se stesso nel successo o nell’insuccesso dei suoi studenti. Infine, la valutazione di merito dovrebbe tener conto preliminarmente delle condizioni di lavoro degli insegnanti che, come sappiamo, possono essere molto diverse non solo per quanto si riferisce allo stato giuridico o alla materia insegnata, ma anche alla scuola dove lavorano.

          Il problema allora è di sapere chi può procedere a questa valutazione. Un tempo era una delle più delicate funzioni dei capi di istituto, che, come categoria, hanno fallito nel loro compito sia perché non ne hanno tenuto conto, banalizzandola (le vecchie «note di qualifica» dichiaravano quasi tutti gli insegnanti eccellenti), sia perché — ma questo non può essere loro imputato  — non rappresentavano uno strumento della dinamica di carriera, per il semplice fatto che per gli insegnanti la carriera non  esisteva ieri come non esiste oggi.

          Restituire al capo di istituto oppure, come sostiene qualcuno, agli utenti (studenti e genitori) la funzione di valutazione potrebbe significare attribuire un ruolo decisionale a coloro che sono a contatto quotidiano con l’insegnante e che sono direttamente interessati alla sua attività. Ma se non si vuole che questa valutazione diventi una procedura formale priva di ogni importanza, bisognerebbe allora concedere alle scuole una vera autonomia anche nella gestione del personale: dallo sviluppo di carriera all’attribuzione dei premi fino al reclutamento e al licenziamento. Ora, pur ammettendo che una tale evoluzione possa essere realizzata senza una totale privatizzazione del rapporto di lavoro, essa comunque modificherebbe profondamente lo statuto degli insegnanti e i loro stessi comportamenti.

          Quando esiste infatti un reale interesse collegato alla «fortuna» o al successo della singola scuola in termini di carriera e di sviluppo retributivo, o di altri vantaggi materiali, è possibile mobilitare gli insegnanti attorno al progetto pedagogico o educativo della singola scuola. Una così vasta e totale autonomia degli istituti, che dovrebbe ovviamente comprendere una maggiore partecipazione degli utenti, nonché di persone estranee, non è più  — anche in Italia — del tutto impensabile, tenuto conto del processo di decentramento amministrativo e gestionale di cui beneficeranno gli enti locali territoriali anche nel campo dell’istruzione e della formazione.

          Ma ciò rischia di provocare reazioni molto negative da parte degli insegnanti. Ancora una volta, non bisogna interpretare questo attaccamento all’indipendenza e all’autonomia come una manifestazione di resistenza al cambiamento. Per l’insegnante che si conforma a un modello tradizionale, ovvero l’insegnante «intellettuale», l’indipendenza nell’esercizio della professione è la garanzia stessa della qualità della sua prestazione e quindi dell’insegnamento, poiché è tale autonomia che giustifica la sua responsabilità nei confronti degli studenti.

          Questo insegnante potrebbe accettare di essere valutato dal capo di istituto solo nel caso che il preside avesse una preparazione superiore alla sua e si trovasse ai suoi occhi in una posizione vicina a quella dell’antico ispettore. Ma né i titoli per diventare dirigente, né le modalità del concorso, né la formazione possono offrire un minimo di garanzia da questo punto di vista. Anzi, la tendenza, forse inevitabile, a fare del capo di istituto un gestore, conseguenza diretta dei processi in corso di decentramento amministrativo dello Stato e della necessità di garantire la dimensione dell’efficienza soprattutto finanziaria, allontana questa prospettiva.

          Si potrebbe pensare che un insegnante («il pedagogo») più interessato agli aspetti educativi che a quelli culturali e intellettuali della funzione accetterebbe meglio la valutazione del capo di istituto. E invece non è così. Chi sostiene questa possibilità non tiene conto dei valori di riferimento di questo tipo di insegnante e dell’ideologia che li accompagna. L’insegnante «pedagogo», che dà la priorità e la centralità allo studente e ai suoi bisogni, partecipa in effetti di una visione del mondo nella quale il riconoscimento del soggetto entra in palese conflitto con una valutazione che si vuole oggettiva. È poco probabile allora che questo tipo di insegnante accetti che si applichi a lui ciò che egli stesso si rifiuta di applicare ai suoi studenti.

          Ma è molto improbabile che anche gli insegnanti che non hanno alcun modello di riferimento, nemmeno inconsapevole, accettino senza difficoltà o resistenza una così evidente negazione dell’irresponsabilità (autonomia e indipendenza) che fa parte integrante del «contratto implicito» firmato con lo Stato (si veda la fig. 1) e che costituisce uno dei vantaggi del mestiere al pari del tempo ridotto della prestazione.

          In ultima analisi, solo quegli insegnanti che si riferiscono al modello che potremmo chiamare dell’«animatore», coloro cioè che sono disponibili a impegnarsi in altri compiti soprattutto organizzativi e di coordinamento e che in Italia passano sotto lo strano nome di «funzioni obiettivo», potrebbero trovare un vantaggio da un cambiamento come questo. Per costoro infatti esso rappresenta una concreta possibilità di vedere riconosciuta effettivamente la loro attività «aggiuntiva» all’interno della scuola.

          Comunque, la possibile sostituzione del criterio dell’anzianità con quello del merito ci fa comprendere che le reazioni negative degli insegnanti non riguardano tanto l’autonomia dell’istituzione scolastica nella gestione del personale, quanto la valutazione e il controllo del capo di istituto. Le rappresentazioni infatti che i docenti si sono fatte sull’autonomia in materia di gestione sono diverse da quelle che dovrebbe avere il dirigente. Gli insegnanti ragionano in termini di opportunità e di vantaggi. E, nel caso dell’autonomia, possono pensare di avere la possibilità di negoziare il loro «contratto» alle condizioni più convenienti oppure di trovare, se vogliono, una scuola dove la loro concezione della funzione docente possa essere valorizzata e riconosciuta. Ma sanno anche che per ottenere tutto ciò dovrebbero rinunciare almeno a una parte dei vantaggi attuali del «contratto implicito», e per questo non è certo più facile che rinunciare all’indipendenza e all’autonomia professionali. E di questo contratto è soprattutto il tempo «scelto» quello che viene garantito, cioè l’autonomia di disporre del tempo privato senza interferenze. Per questo modello di tempo professionale, che passa attraverso una rigida divisione tra scuola e lavoro (le due cose non sempre coincidono), ogni innovazione o riforma è una minaccia, un’invasione che va contrastata e contrattata.

          Se la valutazione pone questi formidabili problemi, non ci deve stupire se la rivalutazione delle retribuzioni «di merito» non ha condotto che all’invenzione di un complicato sistema di indennità legate a condizioni di lavoro oppure a responsabilità particolari. Come si vede, non si tratta certo di valutazione, che anzi è chiaramente esclusa, ma solamente di una compensazione materiale per le difficoltà delle condizioni di lavoro, detto solitamente «aggravio» (anche l’attributo è qui significativo).

          La rivalutazione economica della retribuzione, peraltro modesta, si è tradotta per ora in una progressiva valorizzazione indifferenziata che, se contribuisce a un certo riconoscimento dell’insegnante-massa, non ne riduce per questo lo stato di anomia, e cioè la relativa perdita di senso del mestiere.

 

 

Nessuna valutazione formale

E, in casi eccezionali, solo dei pari e su richiesta

Tempi ridotti di impegno esplicito

Quasi coincidenti con quelli di lezione frontale

Possibilità di decidere le condizioni in cui si svolge il lavoro

Tempo, sede, mezzi e strumenti vengono decisi dal singolo docente, salvo alcune deliberazioni collettive

Libertà, e garanzia, di svolgere il lavoro con le modalità volute

Metodologie didattiche «ingenue», valutazione perlopiù intuitiva, ampio spazio all’improvvisazione

Indipendenza nello svolgimento del lavoro

Coordinamento solo «amministrativo» e formale negli organi collegiali

Controlli solo amministrativi

Registro, pagelle, programmi ministeriali, ecc.

Riconoscimento della disponibilità e del volon-  tarismo

L’insegnante dà quando e per quanto tempo è disposto a dare volontariamente

Sicurezza

Dimensione prevalentemente automatica della progressione retributiva e separazione della stessa dalla qualità, e, in alcuni casi dalla quantità, della prestazione effettiva

Generoso sistema delle assenze, dei permessi e dei congedi

In modo da garantire una decisione unilaterale delle pause dal lavoro

Coincidenza tra tempo di lavoro e tempo dedicato alle lezioni

Quando non ci sono gli studenti (vacanze) non è tempo di lavoro

Debole controllo sui comportamenti

La gestione del sistema disciplinare è assicurata dai «pari» e dall’inefficienza dell’amministrazione

Nessuno standard di prestazione esplicito e verificabile

Non viene richiesto né percepito come necessario o utile

Garanzia di vicinanza all’abitazione

Garantito da un gravoso e complicato sistema di trasferimenti a domanda

Uniformità della retribuzione

L’eventuale maggiorazione non deve coincidere con una valutazione della qualità della prestazione (merito)

Nessuno sviluppo professionale

La formazione e l’investimento in aggiornamento deve avvenire prima dell’ingresso in ruolo e non durante la prestazione, salvo che non intervengano innovazioni nei programmi

Nessuno sviluppo di carriera

Perché implica selezione e valutazione

Modesta retribuzione

Ma sicura

 

Fig.1  Il «contratto implicito» tra Stato e insegnante-massa.

 

La formazione

 

          Ma questa non è la sola azione possibile. Un altro aspetto del problema è la formazione degli insegnanti. Uno dei mezzi, infatti, per combattere efficacemente l’anomia professionale è quello di mettere fine al disagio dei docenti, alle loro incertezze riguardo al significato del loro lavoro e alle modalità di svolgimento dello stesso. È giunto il tempo di abbandonare la concezione dell’insegnamento come «vocazione» e di farne un vero mestiere, che implica la padronanza e l’attuazione di un insieme sistematico di tecniche specifiche. Un «buon» insegnante non avrebbe quindi più bisogno di riferirsi ad un determinato modello normativo, dal momento che gli sarebbe sufficiente di diventare una specie di tecnico della pedagogia rispettoso dei compiti e delle consegne che gli vengono affidati. Una simile prospettiva renderebbe molto più facile la lotta contro il disinvestimento degli individui, poiché l’indipendenza non avrebbe più ragion d’essere e il problema della mobilitazione e motivazione del personale si porrebbe nei medesimi termini in cui si pone in una qualsiasi impresa o azienda.

          Ma questa azione è possibile? Bisogna ammettere che incontra almeno due ostacoli che non riguardano solamente lo statuto degli insegnanti:

1.   il primo ostacolo riguarda la realizzazione di un tale tipo di formazione. Fino ad oggi le soluzioni adottate sono state a dir poco imperfette. Se le maestre beneficiano da lungo tempo di una limitata ma vera formazione professionale, non è certo lo stesso per i professori della secondaria. Per loro esiste solo la laurea. Le eterogenee modalità di reclutamento adottate in questi ultimi cinquant’anni non hanno mai assicurato loro una preparazione pedagogica. Quanto all’aggiornamento, esso non ha compensato questo deficit se non parzialmente. Solo per le maestre (in occasione dei nuovi programmi) la preparazione pedagogica è stata resa obbligatoria, mentre nel caso dei professori essa ha preso per lo più la forma di corsi di aggiornamento puntuali frequentati da insegnanti volontari. A questo riguardo, la creazione dei corsi di specializzazione di livello universitario potrebbe rappresentare a medio termine una soluzione, se solo il sistema fosse disposto a interrompere veramente l’ingresso dei  «precari» o, almeno, a privilegiare con opportune incentivazioni l’ingresso di questi «nuovi» insegnanti rispetto agli altri. Ma tale soluzione non sembra né certa né praticabile da parte del sistema amministrativo e politico. Infatti, l’istituzione di graduatorie permanenti di idonei di tutti i concorsi fin qui svolti costituisce un vantaggio competitivo sul mercato esterno, che non sarà difficile regolare secondo un criterio sconosciuto al sistema, come quello della preparazione professionale di tipo pedagogico. Le graduatorie  «immortali»  costituiscono una forma di organizzazione dei disoccupati (o in attesa di occupazione) molto forte e di grande capacità di pressione sul decisore politico e burocratico. L’iscrizione in una graduatoria e lo svolgimento di un periodo di attività farà (come ha sempre fatto) premio su ogni altra dimensione.

2.   Ma l’ostacolo maggiore è di altro ordine. Esso riguarda la possibilità stessa di fare dell’insegnamento un vero mestiere. Possiamo sperare che i corsi di specializzazione possano fare quello che non hanno fatto gli istituti magistrali. Ma perché l’insegnamento diventi effettivamente una professione ci vorrebbe un accordo reale sulle tecniche da mettere in atto. E bisogna prendere atto che l’evoluzione della funzione docente, a dispetto dello sviluppo delle scienze dell’educazione, è andata nel senso di una «deprofessionalizzazione». Il vantaggio dei «vecchi» professori, cioè quelli che hanno resistito nelle scuole fino alla fine degli anni Sessanta, risiedeva non solamente in una solida etica professionale e nella padronanza del sapere che insegnavano, ma anche nei metodi utilizzati. Questo non è proprio il nostro caso. Mentre allora, a cominciare dalle scuole magistrali, esisteva un insieme di «ricette»  consolidate e indiscutibili —tanto che parte di quel curricolo assomigliava più a un addestramento che a una valutazione— l’attuale parola d’ordine della pedagogia, al contrario, è «nessuna ricetta», nessuna riproduzione di vecchi metodi, ma ricerca, sviluppo, autonomia, sperimentazione, progettazione, ecc.. In tal modo, mentre ci troviamo di fronte a insegnanti sicuramente più fragili e meno «formati» di quelli dell’anteguerra e mentre le relazioni con gli allievi si fanno più difficili, abbiamo nel contempo accresciuto le pretese riguardo al loro mestiere sottomettendoli a una imposizione paradossale: «il vostro mestiere deve cambiare, ma non vi dico come cambiarlo».

         

          Non è dunque solo l’autonomia (e l’indipendenza) degli insegnanti che si oppone alla nascita di un modello unificato di pratica professionale. È anche, e soprattutto, l’assenza non tanto di tecniche pedagogiche, quanto di un minimo di accordo sulla loro efficacia e validità.

          Quali sono le ragioni di questa situazione? Forse che la pedagogia non è riuscita a costituirsi come una scienza applicata sul modello, per esempio, della medicina, anche se il suo sviluppo è stato favorito dal ministero con la creazione delle facoltà di scienze dell’educazione e il rinnovamento degli istituti di ricerca e sperimentazione regionali.

          In un certo senso, la pedagogia è stata vittima del suo stesso successo. L’aumento del numero delle specializzazioni, in assenza di una vera e propria regolazione operata dalla comunità scientifica, non permette di distinguere chiaramente tra vere conquiste e teorie fantasiose. Essa, al contrario, ha contribuito a costruire una falsa scientificità, uno «pseudosapere» che si serve degli attributi della verità per mascherare le sue insufficienze e sedurre il pubblico. Non vi è dubbio che esiste un progresso notevole delle conoscenze in campo pedagogico, specialmente per quanto riguarda la didattica, ma siamo ancora molto lontani dal disporre di un sapere unificato e facilmente trasmissibile. E la soluzione non è certo quella di trasformare gli insegnanti in ricercatori professionisti o in sperimentatori permanenti che possano superare questa difficoltà. È poco probabile quindi che gli istituti di scienze dell’educazione possano riuscire dove hanno fallito le vecchie scuole magistrali e dare agli insegnanti una formazione professionale a livello delle loro attese.

 

I saperi

 

          Tutto ciò rinvia a un altro problema, e cioè ai contenuti dell’insegnamento.

          Lasciando da parte i metodi della pedagogia, potremmo almeno accordarci su quello che debbono insegnare. Ma anche questo appare difficile da realizzare. Su che cosa fonderemo la legittimità e la continuità delle scelte in materia di saperi? Bisogna attenersi ai «saperi minimi», cioè al livello accettabile di sapere e saper fare (ma c’è anche il saper essere, ecc.), che tutti i cittadini dovrebbero possedere? Come definirlo, al di là delle poche cose che sappiamo sulla padronanza della lingua e di alcune competenze trasversali? Anche in questo campo non è sicuro il superamento delle contraddizioni. Le riforme dei curricoli potrebbero ugualmente sfociare sia in una semplificazione dei programmi che, al contrario — come è avvenuto finora in nome delle stesse parole d’ordine — su una proliferazione incontrollata e anarchica dei saperi di ogni specie.

In sostanza, né la professionalizzazione, né l’autonomia degli istituti nella gestione del personale sono necessariamente le vie di un cambiamento della condizione dell’insegnante-massa, e sono entrambi assai difficili da realizzare.

          Non è impossibile che il cambiamento reale di tale condizione arrivi da dove meno ce l’aspettiamo, e cioè dall’uso intensivo e metodico delle tecniche moderne della diffusione della cultura, specialmente della televisione e della telematica, dell’insegnamento assistito tramite computer di cui si parla almeno dall’inizio degli anni Cinquanta, ma che lo sviluppo dei sistemi esperti può accelerare.

          In una società dove le banche sostituiscono gli impiegati con terminali sofisticati e dove i ragazzi ormai dedicano più ore alla televisione, alla musica e ai videogiochi che alla scuola, dimentichiamo troppo presto che ancora noi ripetiamo la stessa lezione, anche per anni, davanti a gruppi diversi di studenti come si fa nelle scuole a tutti i livelli, compresa l’università. Se dovesse attuarsi questa evoluzione, il problema del reclutamento e della definizione dei compiti e degli standard dell’insegnante si presenterebbe in tutt’altra forma.

          Di sicuro gli insegnanti non saranno gli stessi di oggi e l’insegnante-massa è destinato a scomparire proprio perché pone problemi senza soluzione.