La primavera scorsa Ermanno Testa, direttore della rivista “Insegnare”, ha organizzato un incontro GILDA-CIDI per un “confronto” sul tema della professionalità docente. La rivista ha recentemente pubblicato il testo, la cui versione definitiva è stata curata, per la Gilda, da Serafina Gnech e Renza Bertuzzi.
Quale professione docente?
Sui temi della professionalità docente si è svolto presso la redazione di “Insegnare” un confronto a due tra Serafina Gnech, della Direzione nazionale politica e coordinatrice del Centro Studi della Gilda, e Sofia Toselli, vicepresidente nazionale del Cidi. La discussione ha evidenziato problemi, prospettive, proposte - relativi alla figura docente – anche in questi mesi oggetto di riflessione e di dibattito in molte scuole.
Come è cambiata la professionalità dei docenti con l’autonomia delle scuole? Quali tratti caratterizzano oggi il profilo professionale dell’insegnante?
G. E’ un fatto: l’autonomia, introdotta dalla legge Bassanini, si riferisce ad una nuova figura di docente, la cui funzione non si identificherebbe più nella “trasmissione della cultura”, ma nella “comunicazione” di non si sa bene cosa. Forse di generiche educazioni (stradali, sessuali ecc…), per le quali non è certo necessaria la scuola. Questo orientamento, che non discende solo dalla Bassanini, ma da precisi orientamenti ideologico-culturali, che hanno mirato a svalutare ruolo e funzione sociale del docente, non è solo contrario alle ragioni fondative della Gilda, ma anche alle leggi dello Stato, che riconoscono agli insegnanti un preciso mandato sociale: la formazione delle nuove generazioni, attraverso la trasmissione di contenuti culturali.
Oggi, invece, sembra rafforzarsi l’idea di un docente diverso, per così dire “plurimo”, in sostanza un tuttologo. Sia le norme sull’ autonomia (Legge 59 e DPR 275), che le recenti modifiche della Costituzione (Legge 3 Costituzionale), nonché la legge delega attualmente in discussione hanno spostato l’ attenzione dalla scuola al territorio, accentuando l’ idea che si debba rispondere a generiche esigenze di clienti.
Per la Gilda, invece, la Scuola resta una “Istituzione” che forma le nuove generazioni attraverso la trasmissione di contenuti culturali. In questa istituzione ci sono tanti attori: insegnanti, studenti, genitori. Ma la loro compresenza non può tramutarsi in commistione di ruoli e di responsabilità. L’ Istruzione è pubblica perché è pagata con soldi pubblici e perché corrisponde ad un interesse della società, e non ad un bisogno solo individuale.
Da questo fatto discende che: 1) se si stabilisce che l’insegnante è soprattutto colui che trasmette conoscenze, gli eventuali altri elementi costitutivi del profilo professionale nella scuola dell’autonomia, pur necessari, non possono essere che marginali e subordinati; 2) il percorso di formazione iniziale deve essere centrato sullo studio disciplinare. Non è accettabile l’ipotesi Talamanca – 3 anni di studio disciplinare + 2 di pedagogia e didattica - avanzata nel corso del passato governo, né l’ipotesi Bertagna: laurea specialistica di 300 crediti, di cui 170 disciplinari ed i restanti 130 suddivisi fra Scienze dell’Educazione e Tirocini!
E’ il rapporto che non possiamo accettare.
Voglio ricordare che le Schools of Education americane, che pongono l’enfasi sulle teorie educative anziché sulle conoscenze, sono considerate dannose.
T. La scuola dell’autonomia certamente ha posto all’ordine del giorno il tema della professione degli insegnanti e la necessità di rivisitarne ruolo e funzione. Non solo, sta facendo emergere con più forza la dimensione intellettuale del professionista di scuola, legata alla qualità della prestazione didattica - qualità che dipende dalle scelte culturali e didattiche che si compiono e dalla capacità di verificare e regolare l’azione educativa - ma ha dato forza anche alla dimensione collegiale del lavoro che si fa a scuola. Questo vuol dire che il nuovo profilo si caratterizza sia per solide competenze disciplinari - sempre da aggiornare - sia per competenze tipiche del “mediatore culturale” (saper utilizzare la disciplina a seconda dei livelli di età, saperla usare in modo formativo e significativo, e con i metodi giusti), sia per competenze organizzative, sapendo che queste sono sempre finalizzate al miglioramento dell’attività di insegnamento-apprendimento. Certamente la formazione iniziale dovrebbe essere coerente con tale profilo. L’art. 5 del disegno di legge delega parla di una laurea specialistica per gli insegnanti, ma solo con i decreti attuativi sarà possibile capire quale sarà la natura del percorso specialistico, quale sarà cioè l’equilibrio e il rapporto tra le diverse discipline, e quali competenze si vorranno mettere in primo piano.
Rimane anche da capire come una laurea possa abilitare alla professione.
A proposito di autonomia, l’articolo 6 del Regolamento dell’autonomia – autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo – dovrebbe costituire la premessa per fare, dentro la scuola, ricerca e sperimentazione didattica. È importante tale aspetto o ritenete che lo sviluppo della scuola dipenda solo dall’università?
G. Naturalmente, questo articolo apre degli spazi molto interessanti per la professionalità docente.
Non dobbiamo dimenticare che la didattica è l’ ambito in cui deve manifestarsi liberamente la professionalità docente. Ricordo che la libertà d’ insegnamento, sancita dalla Costituzione, si riferisce alla libertà, per l’ insegnante, di scegliersi i metodi.
Per inciso vorrei qui notare come proprio questa libera scelta delle tecniche sia stata, negli ultimi anni, molto limitata da imposizioni – di fatto e di legge - di metodi piuttosto discutibili dal punto di vista culturale.
Per questo, è importante riconoscere ai docenti gli spazi delle loro libertà. Tuttavia, io credo che questa opportunità non debba trasformarsi in una scissione tra ricerca didattica e ricerca culturale. Verrebbero a mancare, sia per l’una che per l’altra, gli spazi vitali. La seconda resterebbe accademia, la prima diventerebbe didatticismo, cioè tecnicismo addestrativo. (Si è parlato assai opportunamente di “ imperialismo della didattica”)
In sostanza, dunque, Università e Scuola devono camminare affiancate.
T. L’incontro fra mondi diversi è sempre utile, così come l’intreccio fra competenze differenti, altrimenti si rischia l’autoreferenzialità, che non giova a nessuno. Ma se è vero che la scuola - almeno sino a quando resteremo in regime di autonomia - richiede agli insegnanti innanzitutto la capacità di governare il curricolo, allora la strada per sviluppare tale competenza va trovata dentro la scuola. Per fare scelte culturali e didattiche in funzione dei ragazzi e delle ragazze, scelte che siano formative e significative per tutti i soggetti che apprendono, per piegare le discipline verso i ritmi e i livelli di apprendimento di bambini e bambine, sono necessarie competenze che la scuola diffusamente già possiede, ma che certamente deve sviluppare di più e meglio. Governare il curricolo presuppone forti competenze disciplinari, ma quando il sapere diventa “sapere insegnato”, e deve diventare apprendimento per tutti - non uno di meno - si trasforma, assume la forma di un “oggetto” diverso da quello che ci consegna l’università: in qualche modo allarga i suoi confini, viene manipolato. Ecco, è su questa “manipolazione” che la scuola può e deve dire molto, deve fare ricerca e sperimentazione. Sarebbe allora utile chiarire meglio i ruoli di scuola e di università, i piani diversi della ricerca disciplinare e della ricerca didattica, definire meglio le responsabilità di ciascun istituto, altrimenti è inutile parlare di sinergie.
G. Questa impostazione risente del filone americano del professionista riflessivo (vedi Schon, ecc.), che sancisce una sorta di primazia della pratica sulla teoria e propone una nuova epistemologia professionale fondata sulla riflessione nel corso dell’azione…
T. Non mi interessano i filoni americani, mi interessano invece le migliori esperienze che la nostra scuola ha fatto in tutti questi anni, che fanno capire che quando gli insegnanti riflettono sul lavoro che svolgono e sugli effetti del loro lavoro, quando trovano il tempo per ragionare e confrontarsi con gli altri colleghi, riescono a trovare la strada giusta per mettere a punto percorsi didattici, metodi e strumenti efficaci di insegnamento. Allora perché non alimentare questa dimensione, individuando, soprattutto attraverso adeguati istituti contrattuali, spazi, tempi, incentivi necessari a questo fine? Perché l’autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo non deve essere per il professionista di scuola - come è per tante altre professioni - una dimensione normale della sua attività di lavoro?
Bisogna convincersi che quello che farà crescere in autorevolezza gli insegnanti, quello che darà prestigio e forza al loro ruolo non è la carriera intesa come uscita verso l’università, ma la loro autonomia, la loro non subalternità nei confronti dell’università (e non solo dell’università).
G. Penso un attimo alla mia esperienza di insegnante, al mio desiderio inappagato di avere un aggiornamento di qualità, magari all’università… e non capisco il concetto di subalternità in questo ambito. Anche perché la cultura, per sua natura, non è mai finita. Se non approfondisce, se non amplia i propri contenuti, si atrofizza. Per questo, una ricerca sulla pratica che proceda in modo autonomo dal continuo rafforzamento ed ampliamento del sapere, enfatizza l’aspetto della didattica addestrativa, pone al centro il docente allenatore, il “mediatore culturale”, appunto.
La cultura non può essere mediata, solo trasmessa; si tratta semmai di pensare a percorsi di trasmissione culturale diversi e di non fare della scuola e dell’Università dei comparti stagni.T. Su questo sono d’accordo, all’università si deve poter ritornare non solo se occorre completare un percorso di laurea, ma anche se occorre aggiornare e approfondire le discipline, ma su tutto il resto - che cosa di quella disciplina diventa insegnamento e come diventa apprendimento per tutti - bisogna lavorare dentro la scuola e con competenze di scuola.
Ma l’università ha interesse a lavorare con la scuola?
T. L’università per sua natura persegue altri fini, ha altri interessi. La stessa ricerca didattica che si svolge all’università – a meno che non si svolga dentro la scuola in un confronto continuo con i bambini e i ragazzi - rimane astratta e poco utile ai nostri scopi. Lavorare sui saperi di scuola, sui curricoli, fare ricerca e sperimentare per insegnare meglio ad apprendere meglio deve essere il fine della scuola e della comunità dei professionisti di scuola: il contesto scientifico di riferimento del “sapere insegnato” è infatti la comunità dei professionisti che quel sapere insegnano. Gli insegnanti allora non solo dovrebbero convincersi di questo ma con forza dovrebbero richiedere le condizioni e gli strumenti per operare in tal senso.
G. È vero, l’università vive ora in un mondo a sé e la prova sta nel fatto che sono pochissimi i docenti universitari che si occupano dei problemi della scuola. Sono convinta che, in un contesto che rimanga invariato, la laurea per gli insegnanti, come viene concepita ora, costituirà un corso di studi di serie B. Come sono oggi le famose Schools of Education americane, a cui facevo cenno prima.
Ma prendere atto di un’università assente non può né deve mutare la direzione del nostro operare, che semmai deve diventare incisivo su questo versante. Affinché l’università muti il proprio approccio e ascolti…
Da anni ci si interroga su come valorizzare la professione, come realizzare uno sviluppo di carriera; credete che nella attuale situazione, contraddistinta da grande incertezza, se ne possa continuare a parlare? L’impressione, infatti, è che in mancanza a tutt’oggi di una legge, e quindi in assenza di un progetto culturale per la nuova scuola, manchi l’indicazione di quale debba essere considerato il profilo professionale del docente coerente con la scuola che si intende realizzare.
G. Ma un profilo professionale che riflettesse un vero e proprio progetto culturale non c’era neanche prima! A meno che non si intenda per nuovo profilo professionale l’idea del “mediatore culturale” di cui parlava la collega prima… Quell’idea ha sempre lasciato molto perplessa la Gilda. Infatti, nella lettura più benevola, questo mediatore sarebbe una specie di “semplificatore” della complessità del mondo, una sorta di “selezione del Readers Digest”. In quella più negativa, esso richiama l’immagine di colui che si occupa di vendere ciò che non possiede… Se poi pensiamo che qualcuno, come Salvatore Veca, in un’ intervista al nostro giornale “Professione docente”, ha dichiarato che gli insegnanti hanno il prezioso e delicato compito di “far fiorire le persone nella catena delle generazioni”, allora appare, in tutta la sua evidenza, l’abisso concettuale e politico che separa le due concezioni, non lasciando scampo nella scelta…
Comunque, dicevo, non vedo, né vedevo prima, alcun autentico profilo professionale…
T. Non sono d’accordo sulla semplificazione fatta del docente come “mediatore culturale”, Né che prima non ci fossero un progetto culturale e un’idea chiara di scuola: c’era l’autonomia e la scuola del curricolo, proprio per dar luogo in modo più coerente alla scuola della Costituzione! Comunque, al di là delle possibili valutazioni è giusto ragionare di sviluppo di carriera, perché è da troppo tempo che si parla di valorizzazione della professione. Allora affrontiamolo questo discorso. Noi pensiamo che per l’insegnante l’unica carriera vera sia quella che lo veda avanzare - diventando sempre più capace e competente - sul piano dell’insegnamento, in una sfida che è solo con se stesso e con i risultati che riesce ad ottenere con i propri alunni, cosa che non si improvvisa ma richiede studio ed impegno costanti; una carriera, dunque, non in opposizione agli altri colleghi, senza, perciò, la creazione di gerarchie; è troppo delicato l’equilibrio su cui si fonda la comunità scolastica: è un equilibrio costruito su rapporti personali e professionali, su un intreccio di competenze, di responsabilità e di disponibilità. È un equilibrio che ha bisogno di cooperazione, di collaborazione, di scoprire appartenenza e identità; non può essere messo in crisi da una competizione fra colleghi, tutta interna alla singola scuola.
Ciò che andrebbe valorizzato della professione docente sono quelle competenze che permettono di governare il curricolo, che servono a insegnare in modo più efficace, e a far apprendere meglio e di più. E’ il saper insegnare/apprendere il terreno su cui misurarsi e non certo l’occasione di una “fuga” da questo compito che è centrale e decisivo nella vita della scuola.
Mi chiedo perché una scuola non debba approfittare dell’esperienza e delle competenze che molti colleghi hanno, e perché i colleghi più competenti non debbano mettere a disposizione di tutta la scuola le loro competenze. Certamente le competenze e il tempo messi a disposizione dovranno essere riconosciuti e retribuiti, poiché non possiamo pensare di cavarcela sempre con il volontariato. Si potrebbe pensare di dare più forza e ruolo ai coordinatori dei dipartimenti disciplinari, dei laboratori territoriali; si potrebbero pensare funzioni o forme di organizzazione del lavoro che rendano possibile dentro la scuola la ricerca didattica e la sperimentazione, tutte attività direttamente connesse al “fare scuola”. Si potrebbe pensare a un modo per far diventare le competenze sviluppate e le attività svolte, titoli spendibili per richiedere un’anticipazione degli scatti stipendiali. E poi per quei colleghi che proprio volessero lasciare la scuola e andare all’università, tali titoli dovrebbero poter contare per una valutazione che li faccia accedere più facilmente all’università. Ma questo non può che riguardare soprattutto l’università e non la scuola.
G La questione della carriera è estremamente complicata. Da anni si parla di carriera, di valorizzazione della professionalità docente, insistendo sul fatto che la scuola funziona male perché la maggior parte degli insegnanti, che non vede di fronte a sé alcuna possibilità di carriera, è demotivata. Bisogna evitare di cadere in quella cecità esistenziale, che – come dice Kundera – ha assunto oggigiorno dimensioni patologiche. Vorrei ricordare alcuni elementi fattuali: l’esperienza dell’Inghilterra – laddove la carriera degli insegnanti non ha affatto migliorato la qualità della scuola pubblica – e gli stessi studi condotti dall’Aran, in tutta l’ Europa della Pubblica Amministrazione (compresa la Scuola) . L’Aran (e non la Gilda !) ha rilevato che non solo non c’è alcun nesso diretto e consequenziale fra carriera e qualità della scuola, ma che il deterioramento dei rapporti interpersonali verificatosi laddove sono stati introdotti meccanismi di carriera non coerenti con la tipologia della professione, ha prodotto effetti negativi sulla qualità. Sappiamo tutti che la scuola funziona nella misura in cui la società crede ed investe in essa. Oggi, un allievo – sia esso bambino, ragazzo o adolescente – recepisce un messaggio di inutilità della scuola che la società – tutta – gli trasmette. Ma qui il discorso diventerebbe molto lungo, perché è la stessa educabilità dell’uomo che la società mette in discussione… A parte questo, noi, pur ritenendo che nella scuola debbano essere espletate ora funzioni diverse, come quella di coordinatore di dipartimento o altro, non riteniamo che su di esse debba essere costruita una carriera che diverrebbe inevitabilmente funzionalistica, cioè porterebbe i docenti a concentrarsi su altro dall’insegnamento. Riteniamo invece – e questa è la nostra proposta contrattuale – che una carriera “vivificante” possa essere costruita sulla base della complessità nell’esercizio professionale. Quando si creino aperture verso l’alto… In questo modo l’insegnante è spinto a lavorare di più, a studiare di più, e questo va a vantaggio non solo di chi effettivamente “fa carriera” ma anche di chi si è impegnato per essa; ciò ha in ogni caso riflessi positivi su tutto il corpo docente e sulla qualità della prestazione professionale globale.
Sbocco verso l’alto, cioè intendete verso l’università?
G. Sì, ma non solo. In realtà mi sono espressa male: avrei dovuto dire verso l’alto e verso altro. Comunque sempre nell’ambito dell’insegnamento. Il passaggio può essere all’Università, nelle Facoltà di Scienze della Formazione primaria, negli IFTS, nelle SSIS, ovvero nelle scuole di specializzazione per i docenti o ancora nei LARSA (Laboratori di sviluppo e recupero degli apprendimenti), se essi verranno avviati.
T. Ti chiedo allora: coloro ai quali - come me - non interessa andare all’università né avere un qualsivoglia sbocco diverso dalla scuola, perché vogliono continuare a insegnare là dove si trovano, con i colleghi che insegnano proprio in quella fascia d’età, costoro non avranno mai modo di vedere valorizzata la loro professione? Studiare, aggiornarsi, ricercare, sperimentare dentro la scuola per migliorare l’apprendimento dei ragazzi deve essere sempre considerato un accessorio, una opzione?
G. Perché mai un’opzione? Io parlerei di diritto, infatti le professioni intellettuali hanno, come parte integrante, come dimensione ineliminabile, l’ approfondimento del proprio ambito specialistico. Altrimenti non si spiegherebbe l’ orario a 18 ore dei docenti, contro l’orario a 35 ore degli impiegati. Evidentemente, il legislatore ha riconosciuto parte integrante dell’ impegno scolastico la ricerca, lo studio, e l’aggiornamento. Se vuoi sostenere che nella Scuola non tutti studiano e si impegnano come dovrebbero, allora ti chiedo: qual è il criterio che decide e discrimina ?. Sono impegnati coloro che applicano certe tecniche didattiche dell’ ultima ora? O lo sono coloro che continuano a praticare l’ arcaica abitudine dello studio a tavolino? Gli uni penseranno che gli altri sono inadeguati.
Forse entrambi sbagliano, ma la verità è che ogni insegnante ritiene che il proprio modello sia quello giusto. Quindi la scelta sarebbe molto difficile… o molto politica .
Inoltre, il fatto è che, mentre sapere di avere degli “sbocchi” professionali migliora non solo i singoli ma tutto il sistema, senza alcun pericolo per la vita democratica della scuola, sull’altra ipotesi andrei molto cauta…
T. Quindi, se si pensa a una carriera come sbocco verso l’università, siete d’accordo nel consegnare all’università non solo gli accessi – che dovranno essere regolamentati in base al progetto del Governo – ma anche la verifica e la valutazione delle competenze professionali degli insegnanti: in qualche modo accettate l’idea che l’università gestisca la carriera degli insegnanti?!
G. Mi sembra che la tua affermazione non colga lo spirito della nostra proposta. “Gestire” mi sembra un concetto non adatto. Troverei strano, al contrario, che gli organismi “accoglienti” non potessero intervenire nel processo di “promozione”. E poi non sto certo entrando nel merito (anche perché non mi spetta!) dei criteri della formazione delle commissioni. Comunque è evidente che vanno fatte delle differenze. E’ chiaro che il passaggio ad uno spazio professionale diverso deve avvenire in modo coerente. Se un docente passa ad un LARSA, deve possedere delle competenze specifiche coerenti con l’impegno che verrà ad assumere (recupero o altro). E potrebbero in questo caso bastare dei titoli, acquisiti comunque sempre con corsi (o concorsi?) che contemplino una selezione finale. Se un docente passa invece ad un corso triennale universitario, mi sembra ovvio che l’Università debba metterci lo zampino.
Comunque è questo un terreno su cui è necessario ragionare ancora molto, anche perché in questi anni abbiamo fatto tutti un gran pasticcio, mettendo spesso nello stesso calderone carriera, valutazione, merito e demerito. Voglio chiarire comunque che per la Gilda – se c’è spazio per una forma di carriera - non c’è spazio per alcuna gerarchia sulla base del merito.
Un’ultima questione: il codice deontologico. Qual è la vostra valutazione in merito?
G. Il problema del codice è tuttora molto dibattuto dentro la Gilda. Ne abbiamo preparato uno, ma poiché la discussione all’interno dell’Associazione è ancora molto vivace e se ne sta parlando proprio ora all’interno della Direzione, mi limiterò ad esprimere qui un giudizio personale. Se io leggo un codice deontologico, vi trovo dei principi, dei criteri e delle norme che mi paiono abbastanza scontati. Come dire che a quel punto il codice mi parrebbe del tutto inutile. La situazione è in realtà paradossale perché – come sostiene Salvatore Veca nell’ intervista di cui parlavo prima – mentre da un lato l’indebolimento dell’etica pubblica rende incerti sui fini collettivi e quindi rende difficile, per un certo verso, l’elaborazione del codice di un’istituzione di base della società - come è la scuola - dall’altro quello stesso indebolimento, quell’assenza richiedono urgentemente l’immagine di un modello. Per conto mio, ritengo che la ricerca di un codice, il fatto di ragionare intorno ad esso, possa essere più utile del codice stesso.
E rimane comunque il fatto che, considerate le caratteristiche della professione docente, la nostra Associazione sostiene da sempre la necessità che ai docenti venga riconosciuta un’ area contrattuale autonoma, primo passo per il riconoscimento di una specificità lavorativa ora misconosciuta. Per poi arrivare a formare un Ordine Professionale. In tale direzione l’adozione di un Codice deontologico costituisce un elemento senz’altro positivo. E direi necessario.
Purché esso non nasca in altre sedi, ma dalla professione stessa a pieno riconoscimento della sua identità, come direbbe ancora Salvatore Veca.
T. Io ritengo che un codice non aggiunga e non tolga nulla alla professione: intendo, cioè, dire che non passa dal codice il riscatto e l’emancipazione dei professionisti della scuola. Nel momento però in cui da tante parti, alcuni sindacati e molte associazioni, sono alla ricerca del “Santo Graal” penso anch’io che se c’è un valore e una utilità in tutto questo più che nel codice è nella ricerca in sé. Ragionare su un elenco di principi e di regole che riguardano la nostra professione serve a ragionare, appunto, della nostra professione.
Nel nostro documento “Il diritto di tutti alla cultura” abbiamo scritto che riteniamo più utile parlare di deontologia professionale piuttosto che di codice, mettendo in evidenza che la deontologia degli insegnanti si fonda non su un elenco di precetti e principi generici, ma su quel delicato equilibrio – sempre da ricostruire – tra libertà, responsabilità e norme, a cominciare dall’art. 3 della Costituzione. Il lavoro degli insegnanti, come tutte le libere professioni, presenta indubbiamente forti tratti di autonomia decisionale e progettuale e un alto grado di responsabilità, ma gli insegnanti esercitano la loro libertà all’interno di un progetto comune, nazionale, condiviso che, appunto, caratterizza la loro funzione pubblica e l’interesse generale che rappresentano. Siamo convinti che la scuola sia e debba restare una istituzione della Repubblica, e che gli insegnanti debbano continuare a eseguire un mandato istituzionale che non consente loro di potersi considerare liberi professionisti. Questo è anche il motivo per cui siamo contrari a ogni idea di ordine professionale.
G. Anche i giudici, a cui è affidato un mandato sociale, hanno il loro ordine…
T. La disciplina dei magistrati è regolata dalla legge e non da un codice deontologico. E comunque con l’Ordine – come si è visto in altre professioni – si rischia di creare centri di potere e corporativismo.
G. Convenzionalmente, il termine “corporativo” è considerato negativo. Eppure, quale categoria che non abbia il senso di identità della funzione del proprio “corpo”, da cui discende la responsabilità sociale, può esercitare una funzione positiva? Giudici, medici hanno chiara la loro funzione istituzionale. Gli insegnanti no, perché la politica e l’opinione pubblica hanno cercato di sminuirne il ruolo. Il risultato è stato che l’ atteggiamento nei confronti della scuola è, in Italia, di scarsa considerazione. Ciò danneggia non solo i docenti, ma tutta l’istituzione. Perché, in questa istituzione, è fondamentale la libertà d’ insegnamento, concepita dal legislatore come tutela più degli studenti che dei docenti. Infatti, solo un docente libero (non obbligato da imposizioni culturali, o da mode effimere) può essere efficace e creare quindi uomini liberi.
T. Sono d’accordo, ma non vedo il perché di un ordine professionale. Gli ordini storicamente sono nati per svolgere una funzione di controllo sull’esercizio della professione proprio perché le libere professioni, ritenute di utilità generale, non incorressero in conflitti di interesse, a tutela degli utenti; perciò si sono dati i loro codici, con il compito di controllare i comportamenti, sanzionare gli abusi, gestire gli Albi. Non credo che tutto ciò c’entri con la scuola e con la funzione docente; né che tutto ciò migliori il prestigio degli insegnanti. Vorrei fra l’altro ricordare che per la scuola esiste un organismo superiore, il Cnpi, eletto democraticamente da tutti i docenti, a cui spetta il compito di esprimere pareri su tutte le questioni scolastiche, organismo che attraverso le sue articolazioni – tra le quali il Consiglio di disciplina – ha il compito di sanzionare gli abusi, decidere in merito a comportamenti poco corretti, anche da punto di vista didattico. Non va bene il Cnpi?
Discutiamone. Rivediamone il funzionamento. Io diffido sempre di una pletora di organismi; facciamo funzionare bene quelli che abbiamo.