1. Questioni fondamentali
2. Due ipotesi a confronto
Indice ragionato
I Parte Natura e fini della scuola
1. Questioni fondamentali 15
1.1. Di chi è la scuola 15
- La scuola contribuisce ad una rifondazione costante della convivenza sociale attraverso la memoria del passato, la comprensione del presente, la progettazione responsabile della società futura.
- La scuola deve formare l’uomo come persona, come cittadino e come lavoratore, coniugando l’interesse individuale (dello studente) con quello generale (della società).
1.2. Scuola e socializzazione 15
- La funzione socializzante della scuola consegue al suo essere luogo di trasmissione di conoscenze
- Conseguenze negative dell’inversione del rapporto conoscenza/socializzazione: rapporto tra curricolo e attività integrative
1.3. Scuola e mondo del lavoro 16
- Interazioni auspicabili e interazioni da evitare tra scuola e aziende
- Il rapporto scuola lavoro si precisa nell’ambito universitario. Nella scuola di primo e di secondo grado tale rapporto non è né immediato né automatico. Qui si devono garantire le basi culturali, la flessibilità dell’intelligenza, lo spirito critico, il senso di appartenenza e di responsabilità: tutti elementi formativi tanto della persona quanto del futuro lavoratore
- Si rivendicano percorsi distinti tra istruzione teorica e formazione professionale: lo studio teorico è presente in ambedue i settori ma con obiettivi, curvature, modalità e approcci diversi a cui devono corrispondere sistemi distinti ma dotati di pari dignità e di equivalenti possibilità educative e di istruzione.
Nella formulazione dei percorsi di formazione professionale si deve tener conto che la realtà del mondo produttivo italiano è formata anche da una grossa fetta di lavoro autonomo.
1.4. L’abbassamento
del livello delle competenze e il ruolo
internazionale dell’Italia 18
- Nella società della conoscenza è necessario individuare criteri e parametri per una riqualificazione culturale della scuola anche in vista di innalzare il livello di civiltà e di competitività del sistema Paese. L’attuale riforma, al contrario, non solo rischia di privare l’Italia della propria identità culturale ma di renderla poco competitiva sui versanti più avanzati della tecnologia e dell’economia che comportano una vistosa modificazione dei paradigmi organizzativi (decentramento produttivo, organizzazione in filiere, distretti etc.).
2. Due ipotesi a confronto 19
2.1. La funzione della scuola nella riforma Berlinguer – De Mauro 19
- L’idea guida della riforma: stare sempre al passo con il cambiamento
2.2. Scuola e progresso 19
- La riforma stabilisce uno stretto rapporto tra scuola e contemporaneità. La pretesa di introdurre nell’insegnamento le “ultime novità” è insensata perché esse sarebbero pressoché obsolete nel momento in cui trovassero una collocazione nei programmi; ed è inutile perché il “nuovo” richiede la conoscenza di ciò che lo ha preceduto.
2.3. La funzione della scuola nella proposta del gruppo di lavoro promosso dalla Fondazione Nova Spes 20
- Comprendere il mondo contemporaneo non significa imparare le “ultime novità”, perché il nuovo è il risultato di un processo
- La complessità delle società contemporanee richiede sapere più che saper fare
2.4. Innovazione e tradizione 20
- Un’incoerenza della riforma: si propone di valorizzare la specificità della tradizione scolastica italiana e si insegue un modello anglosassone
2.5. Cultura generale e sviluppo 21
- Un’altra incoerenza: si afferma la centralità del “fattore umano” e della conoscenza nell’ambito del mercato del lavoro e si dà luogo ad un sistema (moduli, crediti, competenze) che di fatto abbassa il livello culturale generale
2.6. Il ruolo delle scuole secondarie superiori 22
- Il sistema integrato previsto dalla riforma annulla ogni distinzione tra cultura speculativa e operativa
- Soltanto la scuola secondaria può garantire formazione culturale generale di alto livello prima della specializzazione accademica o dell’ingresso nel mondo del lavoro
2.7. Successo formativo 23
- Il successo non deve essere assicurato indipendentemente dall’impegno e dai risultati conseguiti dallo studente: al diritto allo studio deve corrispondere il dovere di studiare
- La scuola deve educare alla responsabilità e, perciò, deve distinguersi dalla “società consumistica” che blandisce i giovani in quanto possibili “clienti”
2.8. Orientamento e auto orientamento 23
- Per orientarsi e autorientarsi lo studente deve essere reso consapevole delle proprie capacità e inclinazioni e non illuso con la semplificazione estrema dei percorsi di studio
- Il criterio di selezione orientativa: offerta di curricoli calibrati su livelli diversi di complessità
2.9. Esiste un modello europeo di scuola? 24
- L’accorpamento dei diversi tipi di scuola in un unico “liceo” comprensivo corrisponde più ad un modello anglosassone che a sistemi scolastici più vicini alla nostra tradizione come quello francese o tedesco
2.10. L’imperialismo della didattica 25
- Una giusta preoccupazione sulle modalità di trasmissione del sapere non significa far prevalere la didattica sui contenuti
2.10.1. “Sapere e saper fare”: il superamento dei saperi verbali 26
- Differenza di obiettivi tra cultura teorica e operativa
- Il linguaggio delle immagini non può esser privilegiato rispetto a quello articolato: la formazione linguistica come compito essenziale della scuola, senza trascurare i concetti non verbali e il plurilinguismo
2.10.2. Il superamento della logica sequenziale 27
- Una critica inizialmente corretta alla logica sequenziale è stata arbitrariamente usata per giustificare l’abbandono dell’argomentazione razionale a beneficio delle associazioni libere.
2.10.3. L’ossessione quantitativa 27
- La qualità della formazione impartita e delle conoscenze acquisite non sono valutabili con metodi statistici
2.10.4. “Apprendere ad apprendere” 28
- L’opportuno potenziamento della capacità di apprendere non significa che quest’ultima sia di per sé l’obiettivo
2.11. Istruzione scolastica e formazione professionale 28
- Importanza della distinzione tra il canale dell’istruzione scolastica e quello della formazione professionale che deve prendere in considerazione anche la formazione al lavoro autonomo e quindi alla sua dimensione economica in quanto tale
- Nessun tipo di formazione può prescindere dall’apprendimento di tipo “speculativo”
- Effettuare un semplice passaggio tra i due canali significa confondere i luoghi specifici di conoscenza e di acquisizione della cultura
- Importanza dell’istruzione artistica e musicale
2.12. Competenze, moduli e discipline 30
- I moduli destrutturano l’impianto disciplinare
- L’ambiguità del concetto di competenza
- Moduli e competenze presuppongono l’equivalenza formativa delle discipline con attività più o meno ludiche
2.13. Moduli 31
- L’ambiguità del concetto di modulo
2.14. Una concezione alternativa dei moduli e del loro uso 32
- Esempi di utilità della didattica modulare: acquisizione di particolari tecniche professionali, approfondimenti in settori marginali dell’indirizzo
2.15. L’autonomia 33
- Il sistema configurato dalla riforma è dettagliatamente prescrittivo e non lascia spazio all’iniziativa autonoma dei singoli docenti
2.16. La libertà d’insegnamento 33
- Il Decreto sull’insegnamento della storia analizzato come esempio di limitazione della libertà di insegnamento
2.17. Il curricolo locale 34
- L’ipotesi di riservare un’ampia porzione del monte ore ai singoli istituti rischia una frammentazione che contrasta con l’esigenza di fornire a tutti gli alunni un patrimonio culturale comune
1. Questioni
fondamentali
La scuola è lo
strumento fondamentale con cui la collettività assicura la continuità culturale
tra le generazioni ed educa alla libertà nella responsabilità. Così intesa la scuola come istituzione viene
chiamata a dare un contributo essenziale alla costante rifondazione della
convivenza sociale. Questa perenne rifondazione è resa possibile dalla triplice
dimensione in cui si realizza il processo educativo: la memoria storica
dell'esperienza del passato, la comprensione dell'esperienza sociale e
individuale del presente e la progettazione e costruzione responsabile della
società futura. Tutte le esperienze culturali e relazionali vissute nella
scuola debbono concorrere intenzionalmente allo sviluppo di questa triplice
dimensione di memoria, intelligenza e progettualità esistenziale e sociale.
Le finalità della scuola possono così essere sintetizzate: formare l’uomo come persona, come cittadino, come lavoratore. La scuola, in quanto istituzione
sociale, deve coniugare insieme finalità e interessi individuali, con finalità
e interessi generali. Anche se può sembrare un’ovvietà una facoltà di medicina,
ad esempio, non può porsi come solo obiettivo di soddisfare i desideri dei suoi
studenti, ma deve perseguire anche l’interesse dei loro futuri pazienti,
garantendo che i futuri medici abbiano le competenze necessarie per esercitare
la loro professione. Considerazioni analoghe valgono per tutta l’istituzione scolastica ad ogni
livello.
La scuola è il luogo delle conoscenze e della formazione etica e civile. La funzione socializzante della scuola consegue in primo luogo dal suo essere luogo delle conoscenze e secondariamente dall’organizzarsi come comunità educante che ha nell’unità della classe il suo punto di riferimento in quanto gruppo che intesse relazioni, acquista una progressiva consapevolezza dei propri diritti, doveri e responsabilità. Il vivere insieme (docenti e studenti) per gran parte della giornata, il perseguire un obiettivo comune portano (o dovrebbero portare) ad un confronto aperto e leale, allo sviluppo dello spirito critico, del senso di appartenenza e di responsabilità.
Le conoscenze sono, quindi, un veicolo forte di interrelazione tra gli studenti, tra questi ultimi e i docenti, tra docenti e genitori.
Attraverso le conoscenze si cominciano a costruire gli “strumenti” intellettuali per comprendere se stessi, il passato (compreso quello individuale) il mondo nel quale si vive e ad inquadrarne con spirito critico i problemi.
In tal senso le conoscenze svolgono un’azione socializzante e legittimano l’esserci e l’identità della scuola.
Tale tipo di socializzazione, pertanto, differisce profondamente nei metodi, nei mezzi e nei percorsi da quella che può essere raggiunta con un’attività ludica, sportiva o con l’appartenenza ad un circolo ricreativo o di amatori di alcune attività (bridge, scacchi e così via).
L’aver abbandonato l’idea della scuola
come luogo delle conoscenze ha finito per far attribuire ad essa una
serie di funzioni improprie e tende ad ampliarne in modo grottesco la sfera di
influenza.
Va, di conseguenza, respinta l’inversione del rapporto fisiologico tra normalità curriculare e attività integrative che ha portato, in un recente passato, alla moltiplicazione delle varie “educazioni” (alla salute, al pronto soccorso, stradale, alla legalità, sessuale, ecc.) ed oggi, con la legge sulla autonomia, alla proliferazione dei “progetti”, soprattutto quelli “complessi”, che finiscono per dissolvere l’impianto curriculare.
L’opinione che la scuola italiana, ad ogni livello, abbia avuto fino ad ora interazioni insufficienti con il mondo del lavoro è largamente diffusa. In molti casi l’interazione tra istituzioni formative e mondo del lavoro è essenziale e imprescindibile: non avrebbe molto senso, ad esempio, istituire un corso di laurea in chimica industriale in un paese totalmente privo di industrie chimiche ed è evidente che solo grazie ai rapporti con le industrie chimiche i professori di chimica industriale possono conoscere le competenze richieste dal mercato ai nuovi laureati e i problemi concreti sui quali è utile che i dipartimenti universitari facciano ricerca. D’altra parte è altrettanto evidente che non sono solo le università a dovere imparare dalle industrie: anzi le industrie chimiche riescono a produrre solo grazie alle conoscenze formate e trasmesse dai chimici.
Anche nel caso delle scuole secondarie le aziende hanno vari possibili motivi per interessarsi al sistema formativo: le aziende possono essere interessate alla formazione dei futuri dipendenti, a quella dei clienti (non solo futuri ma anche attuali; il volume d’affari movimentato dagli adolescenti è oggi enorme) o, infine, semplicemente e direttamente alla scuola stessa come cliente. E’ auspicabile evitare che gli ultimi due tipi di interessi influenzino in qualsiasi modo i contenuti dell’apprendimento ed è necessario far chiarezza sul primo.
L’enfasi sui rapporti scuola - mondo del lavoro ha ingenerato l’idea che la scuola possa e debba garantire competenze immediatamente e automaticamente spendibili sul mercato del lavoro. Questo non è, né potrebbe essere, il compito dei sistemi di educazione e di istruzione i quali debbono assicurare la cultura generale, la flessibilità dell’intelligenza e l’acume critico, indispensabili perché lo studente di oggi possa, nel futuro, trovare una collocazione nel mondo del lavoro che soddisfi le sue aspirazioni. Anche nel caso di corsi di formazione professionale si tratta di esigenze di cui la scuola deve “tener conto” e non di direttive da eseguire. In particolare in un mondo in cui la tecnologia cambia sempre più rapidamente neppure i corsi di carattere professionale possono impiegare una parte rilevante del loro tempo all’apprendimento del funzionamento delle tecnologie attuali. Occorre invece anche in questo caso dare flessibilità al sistema individuando livelli relativamente “stabili” di conoscenze che siano utili per preparare persone in grado di adattarsi rapidamente alle mutevoli esigenze future.
D’altro canto le aziende devono riflettere sul fatto che la natura del mondo del lavoro dipende in larga misura dalle scuole frequentate da chi vi opera ed è quindi interesse anche di quest’ultimo che le scuole adempiano pienamente ai loro compiti istituzionali di educazione e di istruzione. Questa considerazione potrebbe divenire sempre più importante via via che il peso della produzione materiale diminuisce a favore della produzione di informazione e di attività per il tempo libero: in questa ottica è necessario che la scuola sappia trasmettere il piacere della conoscenza disinteressata, la gioia profonda che una scoperta intellettuale offre nell’avventura dell’apprendere.
L’abbassamento dei livelli qualitativi della formazione scolastica fa temere, inoltre, la trasformazione dell’Italia in una zona geografica priva di identità culturale e incapace di produrre tecnologia concorrenziale. Non a caso il progetto Berlinguer coincide cronologicamente con la rinuncia ad una produzione autonoma in quasi tutti i campi della tecnologia avanzata e con il tentativo di trasformare il nostro paese in un mercato anonimo di prodotti internazionali. Naturalmente in questa prospettiva lo scopo della scuola può limitarsi alla “educazione” di futuri acquirenti “on line”: basta cioè che essa fornisca rudimenti di inglese (“basic English” illetterato) e rudimenti di quella che oggi è detta “informatica”, cioè la capacità di accendere un “computer” e navigare in Internet tra una pubblicità e l’altra.
2. Due ipotesi a
confronto
L’idea guida della riforma è che la scuola in nome della complessità della domanda sociale e della necessità di rispondere ai bisogni reali stia al passo con il continuo cambiamento del mondo contemporaneo. E’ illuminante, a questo proposito, la posizione di B. Vertecchi[1]. Lo studioso focalizza un importante nodo problematico, per il quale, però non dà, a nostro avviso, una soluzione adeguata. Oggi la scuola – afferma il pedagogista – non rappresenta più l’occasione per un salto di status sociale ed economico. Quando ciò avveniva c’era una forte domanda sociale di alfabetizzazione e “l’idea della scuola ha fruito dell’alone positivo dell’idea di progresso”.
Secondo il pedagogista occorre ricostruire questo legame tra scuola e progresso. E qui emerge una delle ambizioni, a nostro giudizio errate, del progetto di riforma. L’idea di progresso (che evidentemente si riferiva ad un beneficio personale) viene identificata con il progresso - più che scientifico - tecnologico e con le trasformazioni dell’economia. E’ impossibile, nonché insensato, voler agganciare la scuola ai rapidi mutamenti che si verificano in questi campi. Per realizzare una scuola in sincronia con i tempi Vertecchi suggerisce che un’istituzione di alto profilo scientifico (l’Accademia dei Lincei) rediga ogni due anni delle Indicazioni per le scuole sullo stato e l’evoluzione della cultura e della scienza per “assicurare la continuità tra elaborazione culturale e scientifica e offerta di contenuti attraverso l’istruzione scolastica (…) (per) interrompere il ritardo cronico che la cultura della scuola (…) ha presentato rispetto al mutare e all’accrescersi dei quadri della conoscenza”[2].
Da qui i tratti che caratterizzano
la riforma: l’enfatizzazione delle
tecnologie infotelematiche e il ruolo preponderante riconosciuto all’economia e
alla produttività alle cui richieste la scuola dovrebbe subordinarsi.
L’idea guida della proposta del gruppo di lavoro promosso da Nova Spes è che la scuola deve mettere il giovane in grado di comprendere il mondo contemporaneo, senza pretendere di stare al passo con i continui processi di cambiamento che si verificano nell’ambito scientifico-tecnologico, economico-produttivo e culturale in genere. La pretesa di introdurre nell’insegnamento scolastico le “ultime novità” si rivela insensata perché queste ultime sarebbero pressoché obsolete nel momento in cui trovassero una loro collocazione nei percorsi di apprendimento ed è sostanzialmente inefficace perché il “nuovo” è il risultato di un lungo processo che si è svolto nel tempo e non lo si può comprendere se non si ripercorrono, intelligentemente, le tappe di tale processo.
E’ indubbio che le società contemporanee[3]: presentano un alto livello di complessità, ma proprio questi tratti portano la maggioranza degli studiosi ad affermare che per comprenderle e gestirne le dinamiche e i processi occorre rafforzare l’asse della cultura generale, umanistica e scientifica. Più del saper fare è il sapere che mette l’individuo in grado di orientarsi nel mondo attuale.
Si condivide quanto affermato a pag. 5 del Programma quinquennale di progressiva attuazione della L.30/2000 di riordino dei cicli di istruzione. “Se comune appare a livello internazionale l’urgenza dell’adeguamento dei sistemi formativi, ciascun paese tuttavia non può non muovere nel proprio sforzo di innovazione dalla peculiarità della propria storia e quindi anche dalla specificità della propria organizzazione scolastica”.
Proprio in quanto lo si condivide appare incoerente e contraddittoria la soluzione data dalla riforma al cambiamento del nostro sistema formativo, perché il progetto Berlinguer prescinde completamente e “dalla peculiarità della nostra storia” e dalla “specificità della nostra organizzazione scolastica”. Esso infatti è molto più vicino ai sistemi anglosassoni – in particolare a quello americano del tutto estraneo alla nostra tradizione – di quanto non lo sia rispetto ad altri modelli europei, a noi certamente più simili e più congeniali come, per esempio, quello della Francia, della Germania e in genere dei paesi di lingua tedesca e, al limite, quello della Spagna.
A pag. 7 del citato Programma si afferma che, in seguito alle trasformazioni dell’organizzazione, della produzione e del lavoro, “il fattore umano” è diventato centrale in tale ambito, perciò si è fatta pressante “l’esigenza di una maggiore formazione complessiva anche a scapito della specifica formazione tecnica e tecnologica che può sempre essere perfezionata in seguito.
Serve più cultura intesa in senso generale, serve una padronanza più alta dell’insieme dei processi”; più oltre (a pag. 18) nel tracciare il profilo del docente si colloca al primo posto l’aggettivo “colto, in grado di padroneggiare la propria disciplina nei suoi continui mutamenti, di valutarne le potenzialità formative, di governare i rapporti con le altre discipline, di collocarne, infine, le finalità e gli obiettivi di apprendimento all’interno delle finalità generali del sistema scuola”, seguono le altre caratteristiche indicate con gli attributi “riflessivo” e “competente” e il profilo finisce con l’elencazione di una serie di capacità relazionali, operative e organizzative.
Non possiamo non convenire con quanto sopra detto. Mentre però l’innalzamento dell’obbligo formativo appare un passo nella direzione appena indicata, la sua attuazione, come finora è stata realizzata attraverso le disposizioni emanate con direttive, circolari, decreti e con la normativa approvata, non sembra affatto rispecchiare la stessa volontà di elevazione del livello culturale delle nuove generazioni.
Più in dettaglio l’esigenza di cultura e il profilo professionale tratteggiato si trovano in conflitto con l’architettura di un sistema flessibile e integrato, con l’organizzazione modulare della didattica e con il sistema delle competenze e dei crediti. Non è il caso di dilungarsi su ognuno di tali elementi, per i quali rimandiamo all’analisi di Angela Martini nell’articolo Crediti, moduli competenze, allegato alla presente proposta.
Ci preme, qui, sottolineare che il sistema integrato, così come si configura, annulla sul piano teorico e su quello più concreto della struttura architettonica e dell’organizzazione dei contenuti, ogni distinzione tra cultura speculativa e cultura operativa, cioè tra studio teorico e formazione professionale.
Al contrario pensiamo che le scuole secondarie superiori, proprio perché situate tra le scuole medie e l’Università, o, in alternativa, l’ingresso nel mondo del lavoro, richiedano una specifica caratterizzazione e alti livelli qualitativi per quanto attiene la formazione culturale generale, la promozione dell’intelligenza, del carattere, dello spirito critico e della personalità. Dopo, infatti, o ci sarà lo studio accademico, specialistico, o l’ingresso nelle professioni; perciò questi anni sono decisivi per l’acquisizione di una solida cultura di base e per l’individuazione e la valorizzazione dei talenti artistici.
Per quanto attiene la formazione professionale (per la quale occorre un profondo ripensamento), la cultura del lavoro dovrà essere intesa non solo come formazione alla professione, né solo come informazione sulle opportunità offerte dal mercato, ma come conoscenza dei meccanismi e delle logiche attraverso le quali si crea lavoro, nonché come riflessione sul significato antropologico ed esistenziale del lavoro. In questo senso, la cultura del lavoro dovrà coniugarsi con una pedagogia del lavoro che riaffermi il valore etico della professione e il suo insostituibile ruolo educativo e formativo per sviluppare il senso di appartenenza della persona al contesto sociale in cui vive ed opera.
Basandoci sui diversi modi di acquisizione della cultura prima delineati, proponiamo che, al suo interno, la scuola secondaria superiore sia diversificata innanzitutto nei tre settori fondamentali umanistico-scientifico, tecnico-tecnologico e artistico-musicale. In tutti e tre i casi, però, occorre perseguire, in accordo con le finalità generali affermate nel citato Piano, l’obiettivo di una solida cultura di base.
Riteniamo che solo mantenendo la specificità e le caratteristiche educative e culturali del ciclo secondario si potrà offrire a tutti la possibilità di accesso al mondo del lavoro e alle attività professionali e dirigenziali più elevate.
Nell’art. 1, comma 2, del D.P.R. 8 marzo 1999, n. 275 si afferma, tra le altre cose, che l’autonomia permette di realizzare interventi, iniziative, “al fine di garantire agli studenti il successo scolastico”.
L’istituzione può e deve creare tutte le condizioni perché il giovane studi con successo ma nel quadro della riforma si ha l’impressione che quest’ultimo debba essere assicurato a priori indipendentemente dai risultati conseguiti e dall’impegno dello studente. Il successo, per essere veramente un successo anche per l’alunno (e non solo per la scuola), richiede necessariamente il coinvolgimento dello studente, il suo impegno, la consapevolezza che complementare al diritto allo studio è il dovere di studiare.
Non si tratta di una sottigliezza: la frequenza scolastica impartisce, oltre all’istruzione, anche l’educazione e, perciò, deve aiutare lo studente ad elaborare la propria identità personale, intellettuale e culturale, a sviluppare il senso di appartenenza ad una comunità (dalla più piccola e intima a quella più ampia e più lontana, sociale, nazionale ed internazionale), la responsabilità verso se stesso e verso la comunità. L’insistere, come si fa nei vari documenti ed anche nelle disposizioni normative, sui bisogni, i desideri, le esigenze dei giovani, attorno alle quali si devono costruire i percorsi di studio e quelli scolastici, è di fatto un rinforzo al narcisismo caratteristico di questa età che rischia, a lungo andare, di sortire l’effetto di una deresponsabilizzazione dei soggetti. In ciò la scuola appare più sensibile alle istanze consumistiche della società (che, appunto, blandisce i giovani) di quanto non lo sia rispetto alle proprie specifiche responsabilità educative che richiederebbero, in questo ambito, di andare contro corrente.
L’orientamento e l’auto orientamento
costituiscono una delle finalità della scuola. Poiché queste azioni hanno anche
un aspetto eminentemente educativo non possono semplicisticamente essere
affidate ad una pluralità di offerte tra le quali il giovane sceglie la più
confacente; scelta che può successivamente abbandonare per dirigersi verso
altri ventagli di possibilità.
I due momenti devono essere assicurati, in primo luogo, attraverso il confronto che l’alunno opera tra le proprie potenzialità e inclinazioni e le difficoltà di apprendimento presentate dalle diverse discipline, in secondo luogo da un’articolazione della struttura che permetta passaggi da un settore ad un altro attraverso la verifica delle conoscenze precedentemente acquisite e di quelle richieste dal nuovo iter scolastico che si vuole affrontare.
Un punto forte della presente proposta è l’introduzione del criterio di selezione orientativa che consiste, appunto, nell’offrire allo studente curricoli calibrati su livelli diversi di complessità e la possibilità di una parziale personalizzazione dei medesimi.
Appare, poi, cinico e deleterio il punto di vista di coloro che pensano si debba facilitare al massimo l’iter degli studi, rinunciando anche ad una forma di selezione orientativa e rimandando l’onere di confrontarsi con gli ostacoli al momento dell’ingresso nel mondo del lavoro che eserciterà una ben più dura selezione, spesso preludio ad una emarginazione dal contesto produttivo.
2.9. Esiste un modello
europeo di scuola?
La prevista riorganizzazione della scuola secondaria - dove tutti gli attuali istituti assumeranno la denominazione di "licei", senza ulteriori aggettivazioni - in 4 aree, ciascuna articolata in indirizzi, modifica radicalmente l'attuale struttura della scuola secondaria italiana, fondata su ordini di scuole (Classico, Scientifico e Magistrale/ Tecnico/ Professionale), configurando una scuola di tipo "comprensivo" assai più vicina ad un modello anglosassone che alla tradizione continentale europea, imperniata sulla compresenza di scuole di tipo ginnasio-liceo, preparatorie agli studi universitari, e scuole di tipo tecnico e professionale più orientate verso la preparazione all'esercizio di un'attività lavorativa. Tale struttura, sebbene in forma in parte modificata e aggiornata (oggi in quasi tutti i paesi europei l'accesso all'Università è possibile anche provenendo dal canale dell'istruzione tecnica), perdura tuttavia nel sistema scolastico di diversi paesi in maniera più o meno marcata: la Germania (e in genere i paesi di lingua tedesca) è quella che più è rimasta legata a questo tipo di organizzazione, poiché, dopo la scuola elementare di quattro anni, gli alunni sono indirizzati o verso il Gymnasium da una parte, o verso la Realschule o la Hauptschule dall'altra parte, attraverso un biennio intermedio di orientamento, che fa parte della scuola secondaria o ha una propria autonoma fisionomia; in ogni caso fino agli 11 anni è assicurata la possibilità di cambiare scuola e solo dopo quest'età la scelta diviene definitiva.
In Francia l'istruzione pre-universitaria è articolata in tre segmenti: la scuola primaria di 5 anni, il collège, o scuola secondaria di primo grado, di 4 anni e il Lycée, articolato in tre tipologie: Lycée general, technique e professionel, di 3 anni.
Da un paese europeo all'altro cambiano tuttavia la durata complessiva del percorso degli studi (il Gymnasium tedesco termina ancora a 19 anni), la durata e il termine dell'obbligo (fino ai 18 anni in Germania, fino ai 16 in Francia e in Inghilterra), l'articolazione interna dell'itinerario pre-universitario, il momento in cui avviene la differenziazione dei percorsi di studio e le modalità attraverso cui gli alunni sono indirizzati ad essi (orientamento da parte della scuola, scelta individuale, voti scolastici precedenti, auto orientamento attraverso opzioni e insegnamenti per livello, ecc.)
A fronte di questa variabilità, che smentisce il luogo comune di un modello scolastico europeo, la prima osservazione è che la scelta effettuata con la cosiddetta riforma dei cicli, da un lato rompe decisamente con la tradizione cui anche il sistema scolastico italiano apparteneva, dall'altro essa rappresenta un'ulteriore frattura rispetto alle specificità della storia della nostra scuola, che aveva sempre avuto nel Liceo, e in quello classico in particolare, la propria scuola di eccellenza.
La preoccupazione di rendere accessibile il sapere alla comprensione degli alunni, anche attraverso tecniche, strategie e particolari metodologie, mentre ha una lunga tradizione nella scuole elementari e medie è stata quasi generalmente accantonata nelle scuole secondarie superiori.
Tale preoccupazione è, però, ben diversa dalla pervasiva imposizione di modelli didattici che si è verificata negli ultimi anni a seguito di decreti e direttive ministeriali che hanno finito per far prevalere la didattica (cioè il tentativo e l’impegno di trovare la modalità più efficace per agevolare l’apprendimento) sui contenuti. Si è così verificata un’inversione del rapporto mezzi-fini che giustifica, in qualche modo, la stigmatizzazione contenuta nel titolo la quale, ovviamente, non si riferisce alla didattica usata in senso proprio, ma alla didattica che diventa un fine in sé.
In molti casi, capovolgendo il fine originario della didattica, sono state usate motivazioni di carattere “didattico” per giustificare l’eliminazione dei contenuti disciplinari dall’apprendimento e il disinteresse per il sapere. Accenniamo ad alcune delle parole d’ordine che più si sono prestate a questo tipo di interpretazione.
2.10.1.
“Sapere e saper fare”: il superamento dei saperi verbali
Occorre una profonda riflessione sulle tipicità di quelle che convenzionalmente chiamiamo “cultura teorica o speculativa” e “cultura operativa”, tipicità che, ordinariamente, vengono riassunte nella dicotomia fra “sapere e saper fare”. Il discorso sarebbe molto lungo e complesso: semplificando si può dire che il primo tipo di “cultura” ha per obiettivo la conoscenza; essa può usare attività pratiche, ma in modo strumentale e il suo metodo tipico è la ricerca. Il secondo tipo, invece, ha per proprio fine la soluzione di problemi concreti e la realizzazione di opere; essa può usare conoscenze teoriche ma solo in modo strumentale. In questo senso il fisico che compie un esperimento o l’archeologo che conduce una campagna di scavi si muovono nell’ambito della cultura speculativa, mentre il fiscalista che studia una nuova normativa per usarla a vantaggio dei propri clienti o il chirurgo che studia la pubblicazione di un collega usano una cultura operativa.
La critica al sapere “verbalistico” era
rivolta tradizionalmente contro le conoscenze libresche, incapaci di tradursi
in azione concreta e di tenere nel dovuto conto fatti reali non ancora
concettualizzati. Recentemente gli slogan contro il verbalismo sono stati usati
non solo per screditare la cultura teorica a vantaggio di quella operativa, ma
anche per privilegiare il linguaggio iconico rispetto al discorso articolato.
La critica al verbalismo ha assunto così la funzione di giustificare
l’abbandono di quella che è sempre stata una delle funzioni essenziali della
scuola: la formazione “linguistica” (cioè lo sviluppo delle capacità di
esprimersi attraverso un linguaggio articolato). Va sottolineato che i nuovi
strumenti informatici possono prescindere da strumenti linguistici solo dal
punto di vista di un utente passivo e sprovveduto.
2.10.2. Il
superamento della “logica sequenziale”
Anche in questo caso una critica inizialmente corretta è stata stravolta: la critica alla logica sequenziale deriva infatti, anche se molti “critici” della sequenzialità non ne sono consapevoli, dalla critica ai progetti di “intelligenza artificiale forte”, che speravano di riprodurre i processi mentali umani con calcolatori che usavano unicamente processi sequenziali. Il ragionamento “sequenziale” puro non è mai stato, infatti, umano, ma solo meccanico (le dimostrazioni di teoremi seguono spesso una logica sequenziale, ma la stessa logica sequenziale non è uno strumento utile né per individuare i teoremi interessanti, né per trovarne le dimostrazioni, né per applicarli al mondo reale; le discipline diverse dalla matematica sono ancora più lontane dal modello sequenziale). La critica alla logica sequenziale viene oggi spesso usata per giustificare l’abbandono dell’argomentazione razionale a beneficio delle associazioni libere, delle quali la navigazione casuale ed immotivata in Internet assume il ruolo di modello e prototipo.
2.10.3. L’ossessione quantitativa
Le valutazioni qualitative nel merito delle questioni non possono essere sostituite da complicati metodi meccanici e quantitativi. In molti casi la diffusione dei calcolatori permette il trattamento quantitativo dei dati anche a chi opera in settori tradizionalmente lontani dalla matematica, generando l’illusione di raggiungere in questo modo la stessa “scientificità” delle scienze esatte. Va ricordato che gli scienziati hanno sempre usato i dati quantitativi come punto di partenza delle proprie indagini e il loro trattamento come uno strumento essenziale, mentre il loro fine è sempre stato la comprensione qualitativa del fenomeno studiato. Chi quindi parte da un fenomeno ricco di aspetti qualitativi interessanti per ottenerne una massa di dati che rischiano di oscurare tali aspetti si comporta in modo anti-scientifico. In molti casi l’uso acritico di statistiche da parte dei media e dei politici rischia di modificare in profondità il fenomeno che si vorrebbe descrivere, in particolare marginalizzandone gli aspetti più difficilmente quantificabili. Nel caso della scuola, ad esempio, analizzare statisticamente la quantità dei diplomi rilasciati è molto più facile che analizzare la qualità della preparazione raggiunta, ma è anche meno utile. Per fare un secondo esempio, non tutte le conoscenze sono egualmente valutabili con dei quiz a risposta multipla, ma l’esigenza di effettuare analisi statistiche rischia di penalizzare quelle non adatte a questo tipo di valutazione.
2.10.4. “Apprendere ad apprendere”
La formula, più volte ripetuta nei documenti e negli scritti di ispirazione ministeriale, “capacità di apprendere” o “apprendere ad apprendere”, non è così ovvia come potrebbe, a prima vista, apparire. Appare ovvia perché, certamente, non è un concetto nuovo: già Humboldt così presentava lo studente che nella scuola si preparava per frequentare l’Università: “Egli si occupa, dunque, di due cose: dell’apprendimento stesso e dell’apprendimento dell’apprendere”[4].
D’altra parte, anche se non esplicitamente teorizzato, il potenziamento della capacità di apprendere è ciò che da sempre ci si è aspettato e ci si aspetta da un qualsiasi intervento di educazione e di istruzione. La non ovvietà dell’uso attuale di tale formula consiste nel fatto che la capacità di apprendere è considerata, in primo luogo, come obiettivo perseguibile per se stesso, senza dover apprendere alcun contenuto ed è, poi, considerata come abilità nel saper usare ciò che si è appreso in una situazione concreta per affrontare con successo una seconda situazione analoga.
“Esiste un luogo – afferma Luhmann - per l’apprendimento in cui si apprende veramente l’apprendimento con l’aiuto di ciò che è stato appreso: la cosiddetta “prassi”. La “prassi” diventa “l’ultima istanza” di cui si dispone per imparare con ciò che è stato appreso, sia in base ad una capacità di apprendere appresa, sia improvvisando ad hoc”[5].
L’apprendista è, quindi, la figura che riassume e incarna questo concetto e l’apprendistato è il metodo di conoscenza attraverso la prassi (i due termini vanno intesi anche nel senso della nostra tradizione: la bottega del maestro accanto al quale il discepolo, osservando e operando, apprende).
Il forte richiamo alla nostra tradizione scolastica ha, tra gli altri, anche questo significato. Non si tratta di riprodurre il sistema educativo di formazione e di istruzione così come è e di ignorare la legittimità delle istanze di riforma: occorre, però, mantenere – o, quantomeno, riflettere – su quei criteri che ancor oggi appaiono pertinenti anche dopo essere stati sottoposti al vaglio di riflessioni e di studi da parte di insigni personalità della cultura e della ricerca. La “capacità di apprendere” o l’ “apprendere ad apprendere” così come sono presentati suonano come slogan di sicuro successo per iniziative pubblicitarie ma non per una riforma radicale di sistema.
La distinzione tra un canale di istruzione scolastica e di formazione professionale non può essere accantonato. Viste le sue implicazioni sul successo o l’insuccesso scolastico merita un dibattito che coinvolga il mondo culturale, imprenditoriale e produttivo. Prosegue ancora Luhmann: “Le numerose relazioni sulle esperienze fatte e le numerose ricerche che vengono raccolte sotto la voce “choc della realtà”, hanno dimostrato che, in ogni orientamento professionale che dà l’istruzione, l’inizio dell’esercizio professionale richiede spesso una disposizione nuova, spesso drastica e deludente, riguardo ciò che si è imparato… Sarebbe del tutto sbagliato cercarne la colpa, come accade nella maggior parte dei casi, in un carattere “troppo teorico” o “accademico” dell’istruzione. Con qualsivoglia critica ai piani di studio e agli obiettivi dell’apprendimento non si potrebbero affatto eliminare l’astrazione e il contenuto teorico, l’erudizione libresca e l’esperienza condensata di ciò che appare estraneo senza far crollare l’istruzione come istruzione”[6].
Naturalmente i due metodi di conoscenza non sono totalmente alternativi. In primo luogo, infatti, nessun tipo di formazione può prescindere dall’apprendimento di tipo “speculativo”, che in ogni caso è centrale nel ciclo primario (l’attività ludica del bambino è del resto caratterizzata proprio dall’assenza di fini pratici). Inoltre la formazione professionale richiede un forte nucleo culturale di tipo teorico, non solo per la formazione culturale generale, ma anche per l’acquisizione di conoscenze preliminari a quelle considerate tecnicamente utili. È però evidente che solo chi intende posporre la propria preparazione professionale agli anni universitari, rinunziando ad una formazione secondaria di tipo professionale, può investire in acquisizioni di tipo “speculativo” tutti gli anni della scuola secondaria.
Mescolare i due tipi e i due metodi di conoscenza e di acquisizione della cultura, confonderne i “luoghi” specifici, come è avvenuto fino ad oggi e come si legge nei provvedimenti di riforma, effettuare un semplice passaggio dall’uno all’altro vuol dire, in conclusione, fare una cattiva scuola e una pessima formazione professionale e di queste avventurose iniziative i giovani sono i primi a fare le spese ed in seconda istanza la società nel suo insieme ne paga le conseguenze.
Va inoltre sottolineato che esiste un terzo tipo di acquisizione di cultura, che pur condividendo aspetti dei due precedenti, ha una sua specificità irrinunciabile e richiede l’individuazione precoce delle attitudini e lo sviluppo non dilazionabile dei talenti: l’istruzione artistica. Un biennio della scuola secondaria non sufficientemente differenziato avrebbe tra le proprie conseguenze l’eliminazione di ogni possibilità di seria formazione artistica.
La letteratura fiorita a seguito del progetto di riforma, oltre che le disposizioni ministeriali, permettono di individuare un trattamento delle discipline che ne destruttura l’interna coerenza, l’impianto storico e cronologico, e ne annulla, a nostro avviso, il valore culturale ed educativo.
La “competenza” - che nella riforma sostituisce la conoscenza come punto di arrivo del processo di insegnamento/apprendimento - è, per così dire, la categoria che sul piano teorico giustifica la pervasiva mobilità del sistema e ne assicura l’attuazione su quello pratico. Non è dato di poter individuare una definizione chiara, univoca e condivisa di tale concetto; grosso modo si può dire che esso si riferisce ad un tipo di conoscenza che racchiude in sé tanto il sapere quanto il saper fare e che, come dice Angela Martini nel suo intervento, “è connotata innanzitutto come conoscenza in situazione, essenzialmente come capacità di far uso di abilità e conoscenze in un contesto concreto per risolvere un problema, assumendo le opportune decisioni; essa si caratterizza, inoltre, per l’applicabilità a contesti diversi, pur entro un campo o dominio specifico, e per il suo esser leva di acquisizione e sviluppo di ulteriori conoscenze e abilità”[7].
Nel citato Dossier a p. 32, Elena Bertonelli definisce le competenze come capacità “di padroneggiare una conoscenza fino a farne anche il punto d’origine e di generazione di una spirale virtuosa di altre conoscenze…” e aggiunge “Ma se questa è una possibile definizione di competenza, ne discende che tale definizione è valida per ogni segmento formativo e per ogni ambito disciplinare: per il greco come per l’economia aziendale, per l’accoglienza alberghiera come per la filosofia…”.
Queste affermazioni tendono a sottolineare l’equivalenza formativa di ogni e qualsiasi attività, perciò il greco o la filosofia, rispetto all’acquisizione della competenza, sono equivalenti alle tecniche dell’accoglienza alberghiera.
La riduzione della conoscenza ad insieme di competenze è quindi basata sulla riduzione della cultura alla sola cultura operativa.
Con il D.P.R. 8/3/1999, n. 275, art. 13 le scuole vengono autorizzate a riorganizzare “i propri percorsi didattici secondo modalità fondate su obiettivi formativi e competenze” e l’indicazione viene ribadita dall’Art. 1 bis lettera a) del D.M. 19/7/1999, n. 179. Che cosa voglia dire questo lo chiarisce Roberto Maragliano nel già citato Dossier avvertendoci prima “che occorrerà prepararci (e preparare la scuola) ad elaborare il “lutto del programma”, vale a dire lo smarrimento provocato dalla scomparsa di un elemento (concettuale ed operativo) fin qui considerato strategico ed ineliminabile” e conseguentemente “a prendere coscienza del fatto che le discipline sono una delle forme della riproduzione sociale del sapere, ma non l’unica”. E’ evidente che l’impostazione teorica e l’architettura prevista per la scuola riformata debbano ricercare un’altra “forma di riproduzione sociale del sapere” che viene, infatti, elaborata attraverso l’introduzione dei moduli e dei crediti.
Anche per quanto concerne i moduli non c’è definizione chiara e condivisa: l’elemento incontrovertibile che li caratterizza è “la certificabilità e cumulabilità delle competenze specifiche” da essi promosse. Il modulo costituisce un’unità a sé stante, autonoma, decontestualizzata tanto da poter essere composto con altri moduli, anche di indirizzi diversi, in modo da costruire percorsi curvati sugli interessi dei soggetti.
Si può ipotizzare, anche se ciò non accadrà immediatamente, che i moduli tenderanno a moltiplicarsi e ad erodere il tempo dedicato alle discipline tradizionali, o che potranno di fatto sostituirle, pur mantenendo un legame formale con la disciplina. Come dice Angela Martini[8], discipline come la matematica o la lingua inglese potranno così essere sostituite da moduli immediatamente utili, come “matematica per il consumatore”, “matematica per la vita moderna”, “ inglese per il computer” e così via.
Una tale organizzazione dei contenuti disciplinari è stata pensata tanto per dotare di flessibilità il sistema, quanto per snellire i programmi di studio.
Conveniamo con ambedue le esigenze, ma non ne condividiamo le soluzioni perché riteniamo essenziale la (relativa) autonomia della conoscenza “teorica” assicurata dalla specificità e identità delle discipline e dal loro contenuto culturale ed educativo.
Il sistema dei moduli è certamente utile (è tautologico riconoscerlo) in tutti i casi in cui l’insegnamento è frammentabile in sezioni indipendenti. Per assicurare il libero assemblamento è infatti ovviamente essenziale che nessuna unità sia utilizzabile nelle unità successive. Questa circostanza, anche se non può essere mai realizzata in modo perfetto, può essere bene approssimata in due casi. Il primo caso è quello in cui l’insegnamento di un’unità non fornisce strumenti concettuali utili in circostanze diverse da quelle previste dal modulo stesso. Tale caratteristica è condivisa da tutti gli insegnamenti dotati di un’utilità immediata, direttamente riconoscibile: caso che si verifica per particolari tecniche professionali (ad esempio l’uso di un certo pacchetto software o di un certo utensile).
Vi è però un secondo caso in cui un elemento del curricolo non è utilizzabile negli studi successivi e può quindi utilmente costituire una unità di insegnamento: quello degli approfondimenti in direzioni che non saranno ulteriormente esplorate. Ciò può accadere per approfondimenti per così dire “laterali” di un insegnamento, per “assaggi” in settori sostanzialmente estranei al proprio indirizzo e per elementi terminali del curricolo.
Crediamo quindi che la struttura modulare possa avere un’utilità decrescente passando dalla formazione professionale al liceo tecnologico e da questo all’indirizzo tipicamente pre-universitario. Anche nel caso della formazione professionale l’organizzazione modulare andrebbe però riservata agli insegnamenti specifici di indirizzo e non andrebbe esteso al nucleo di formazione culturale.
D’altra parte anche nel caso della scuola pre-universitaria moduli opzionali possono essere molto utili, purché non sia la loro addizione casuale a costituire il curricolo, ma si tratti di elementi (laterali o terminali) aggiunti ad una struttura in sé coerente ed organica, formata da insegnamenti istituzionali e obbligatori per l’indirizzo di studi scelto, e costituiscano una frazione contenuta dell’impegno totale. In diversi casi può essere utile anche un gruppo di poche lezioni concentrate in un breve periodo dell’anno.
Il D.P.R. 8 marzo 1999, n. 275 (Regolamento recante norme in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche, ai sensi dell’art. 21. della legge 15 marzo 1997, n. 59), la L. 30/2000 (legge-quadro in materia di riordino dei cicli di istruzione) e altri provvedimenti ad essi collegati (ad esempio la legge 144/1999, in particolare l’art. 68 che recita “le competenze certificate in esito a qualsiasi segmento della formazione scolastica e dell’apprendistato costituiscono credito per il passaggio da un sistema all’altro”), configurano un sistema così dettagliatamente prescrittivo e predeterminato da lasciare ben poco spazio all’iniziativa autonoma dei singoli docenti e delle singole istituzioni (finora esistono circa cinquemila norme attive).
Al momento non sono ufficializzati né gli indirizzi delle singole aree né i contenuti disciplinari; al contrario, e ciò appare paradossale, sono ben note ed operanti una serie di indicazioni didattiche, metodologiche, tecniche che finiscono per inchiodare gli insegnanti ad una mole insopportabile di adempimenti di carattere burocratico (cfr. esempio di programmazione allegata).
Inoltre, alcune iniziative del Ministro Berlinguer sono suonate (e non solo per i docenti ma anche per il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione) come imposizioni lesive della libertà d’insegnamento. Ci riferiamo al Decreto 4/11/96 n. 682, meglio noto come decreto sulla storia del Novecento e al D. M. 7/12/99, recante norme ed avvertenze tecniche per la compilazione dei libri di testo, in merito al quale così si è espresso il consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione (pronuncia del 28/9/99 prot. 58129 “… Per quanto riguarda l’allegato A – di detto decreto – il C. N. P. I. non condivide le norme ed avvertenze tecniche in esso contenute che, in qualche modo, sembrano condizionare la libertà di apprendimento, la libertà di insegnamento e la libertà degli autori di libri di testo”.
A questa analitica e puntigliosa prescrittività fa riscontro nel Programma quinquennale di attuazione della L. 30/2000, l’ipotesi di riservare alle scuole una quota del monte ore variabile dal 20% al 40%.
La quota del 40% sarebbe riservata al triennio della scuola secondaria e solo la metà “potrebbe essere destinata a discipline scelte in un repertorio di opzionalità definito a livello nazionale e finalizzata a garantire specifiche connotazioni nei vari indirizzi” (Cit. p. 11).
Mentre nell’ambito della formazione professionale è condivisibile l’opportunità del sistema formativo di rapportarsi in parte anche alle esigenze del territorio, tale condizionamento appare invece negativo nell’ambito dell’istruzione più propriamente scolastica. Infatti la determinazione dei curricoli, dei piani di studio, o, per fare un esempio limite, del contenuto dei libri di filosofia e di matematica a livello locale contrasta senz’altro con l’esigenza di fornire a tutti gli alunni un patrimonio culturale comune, condivisibile e spendibile a livello nazionale, per non dire europeo. Un conto è decentrare responsabilità nell’amministrazione economica, nella gestione del personale, del patrimonio edilizio e delle strutture scolastiche, un altro conto è l’intromissione sul piano più propriamente educativo e culturale di interessi localistici, visto che la scienza e il sapere diffusi da una scuola pubblica non possono diventare funzione della latitudine, delle etnie, della confessione o, peggio, del colore delle giunte locali.
All’autonomia dei singoli istituti potrà essere affidata la gestione di una quota prestabilita del monte-ore, comunque non superiore al 15% di cui già parla il regolamento sull’autonomia, sempre a condizione che essa non sia destinata all’effettuazione di attività peregrine, ma ad approfondimenti o ad integrazioni coerenti con i curricoli presenti in ciascun istituto.
[1] B. Vertecchi, Per una riorganizzazione dell’offerta formativa, in Dossier degli Annali della Pubblica Istruzione, Firenze n° 5-6/1999.
[2] Vedi nota 1.
[3] Cfr. Dossier, cit. e altri documenti ministeriali.
[4] Citato da N. Luhmann – K. E. Schorr, Il sistema educativo. Problemi di riflessività, Roma, 1988 p. 94.
[5] Op. cit., p. 101.
[6] Op. cit. pp. 101-102.
[7] A. Martini, Crediti, moduli, competenze
[8] Vedi nota 7