home chi siamo redazione newsletter links contattaci  

 
 

Il limite dell’utile

 
 

Interventi del Convegno di Padova del 23-24 febbraio 2001

 
 
 
 

 

 

SUL DISSOLVIMENTO DELLE DISCIPLINE...

 

di Sergio Casprini

 

Il  mio contributo al dibattito sarà breve, data l’ora tarda. Tra l’altro, molto è stato già detto negli interventi che mi hanno preceduto; darò quindi solo qualche elemento di riflessione a partire da casi concreti. 

Insegno Storia dell‘Arte a Firenze in una Scuola di Arti applicate.

Con la Riforma dei cicli la mia materia verrà diluita in un ambito disciplinare allargato:  ”Educazione all’immagine “, che verrà insegnata anche nel ciclo di base a scapito dei suoi fondamenti storici; in alcune sperimentazioni questo stravolgimento dei contenuti disciplinari della Storia dell’Arte già avviene in nome di una cultura pedagogica antistoricistica e antinozionista.

Se voi percorrete il corridoio che porta dall’atrio dell’Istituto Tecnico che ci ospita fino alla presidenza, passate accanto alla porta di un’aula con un cartello in cui si legge: ”Progetto di qualità della scuola”, responsabile prof. Tal dei Tali. Una volta avremmo trovato scritto  aula di scienze, laboratorio di chimica o di informatica, insomma qualcosa di attinente alla didattica di un corso di studi di una scuola tecnica; invece, anche se la riforma verrà attuata l’anno prossimo, la scuola dei progetti, come una metastasi, sta già soppiantando la  scuola in cui noi tutti stiamo vivendo, in una logica perversa per cui non conta più saper insegnare ma saper progettare interventi di  “qualità totale”... come fossimo  in una fabbrica o in un ufficio.

Ieri, in treno, venendo a questo Convegno, ho letto nel Venerdì, supplemento del giornale  La Repubblica, l’articolo di Curzio Maltese, che  - come molti opinionisti - fa il tuttologo e deve dispensare le sue piccole verità anche su argomenti di cui non è competente. Nell’articolo di questa settimana scriveva sulla riforma della scuola, ovviamente difendendola (La Repubblica la sta sponsorizzando in maniera sfacciata, tranne qualche lodevole eccezione) e, tra le varie banalità, affermava che nella nuova scuola bisognava insegnare a pensare.

In quel momento mi è tornato in mente un vecchio articolo di Claudio Magris sul Corriere della Sera [i]:  egli ricordava una sua interrogazione  di storia o di filosofia in un liceo di molti anni fa, in cui  aveva esordito dicendo: “Io penso che….”. e il professore lo aveva subito interrotto aggredendolo con queste parole : “Come osi pensare, disgraziato !!!”

Oggi quell’insegnante sarebbe immediatamente  andato incontro ad una sanzione disciplinare, oggi già in prima elementare lo studente è obbligato a pensare, oggi in nome della centralità dell’allievo e della formazione alla cittadinanza sono venuti meno i fondamenti cognitivi delle discipline ed i giusti ritmi di crescita degli studenti, per cui solo alla fine di un percorso chiaro di studi si può cominciare a pensare, ma soprattutto sta venendo meno quel sano rapporto tra l’insegnante adulto e il giovane allievo, fondato ovviamente sul principio di autorità, come diceva giustamente il collega Lino Giove nella sua relazione introduttiva.

Qualche giorno fa Renza Bertuzzi, responsabile di Professione Docente, il giornale della Gilda, ha partecipato ad un’assemblea sindacale a Firenze in qualità di membro della Commissione ministeriale sul Riordino dei cicli per illustrare i curricoli della scuola di base.

Pensate intanto che nella Commissione, in mezzo a tanti esperti, lei è l’unica docente, a conferma di quello che dicevo prima: sulla scuola intervengono tutti a vario titolo, gli unici che avrebbero le competenze per  proporre -  gli insegnanti - sono assenti.

Nel suo intervento  la collega ha affermato che il processo, che tutti noi paventiamo, di vanificazione dei saperi disciplinari in una ridefinizione trasversale e modulare delle conoscenze va avanti ed anzi i ministeriali sono pronti ad attuarlo già dal prossimo anno scolastico.

Il caso più eclatante è quello dell’insegnamento della Storia, come tutti voi sapete, a seguito delle prese di posizione dei professori universitari di Storia di ogni orientamento politico e culturale, per cui a nove anni si studia la storia antica, a quindici anni il novecento, per poi approfondire in maniera critica lo studio per temi gli ultimi tre anni.

Già immagino le discussioni all’insegna dei luoghi comuni e dei buoni sentimenti sulla pace, sul razzismo, sulla cultura multietnica, con i docenti ridotti ad imbonitori, che somministrano pietanze insipide e tutte uguali.

Non c’è da meravigliarsi se si pensa che questa Riforma è il risultato di una paradossale convergenza tra un pensiero tardo illuminista (molto tardo e con tutti i cascami ideologici che produce la senescenza) di matrice ancora progressista ed una logica efficentistica e produttivistica da società del mercato e dei consumi di massa, per cui lo studente deve essere accudito, non deve trovare ostacoli nella sua formazione., uguale per tutti  e di basso profilo culturale, con la conseguenza che  uscirà dalla scuola riformata, usa e getta, ancor più massificato di quando è entrato. Eterogenesi dei fini da parte dei nostri illuminati riformatori !

Voglio concludere facendo una proposta, anche se il Convegno è stato di per sé utile per una messa a fuoco delle problematiche  inerenti  il Riordino dei cicli e soprattutto per aver evidenziato i rischi che esso comporta per la nostra professionalità.

Su questi argomenti nelle scuole c’è molta disinformazione, è importante allargare il più possibile il dibattito e quindi ben vengano questi convegni, non solo nel Veneto ma in tutte le regioni.

Ma non basta: bisogna essere anche propositivi.

La professoressa  Luciana Lepri della  Fondazione Internazionale “Nova Spes”  ha formulato, nel suo intervento, delle proposte emerse dal lavoro della Commissione “ombra” (quella non ministeriale) di cui fa parte:  la distinzione chiara tra i profili professionali dei docenti delle elementari e delle medie, mantenendo la separazione tra i due ordini di scuola nel ciclo di base, la difesa delle discipline, l’articolazione e la differenziazione dei curricoli della scuola secondaria nella salvaguardia delle specifiche identità culturali .

La Gilda a novembre ha promosso una campagna di firme affinché venga sospesa l’attuazione della Riforma per il prossimo anno scolastico. Occorre saldare l’iniziativa più politica della Gilda con gli obiettivi culturali della Commissione per far capire all’opinione pubblica che i docenti italiani non sono arroccati in una difesa corporativa dello status quo ma vogliono dare il loro contributo, formulare le loro proposte in quanto nessuna Riforma della scuola può essere efficace  per le nuove generazioni e per la società nel suo complesso senza la loro attiva partecipazione.



[i] Dall’articolo di Claudio Magris (n.d.r.): “La scuola è al servizio di scolari e studenti quando li libera da condizionamenti  economici e sociali e offre a ciascuno di loro le stesse possibilità di sviluppare la propria persona, quando li rispetta senza vezzeggiarli né adularli e insegna loro non a dire vanitosamente la propria opinione, bensì ad osservare e conoscere la realtà con quell’attenzione all’oggetto che costituisce l’autentica indipendenza intellettuale, la capacità di vedere e di conoscere, ben diversa dal pretenzioso sdottorare.

I miei compagni e io siamo grati a un professore che, quando qualcuno di noi, con l’inevitabile presunzione dell’adolescenza, iniziava a rispondere a una sua domanda dicendo “io penso che...”, ci interrompeva ingiungendoci di non pensare mai e di imparare fatti, nomi e date. Già allora – per merito suo, non nostro – capivamo che era un modo giusto di insegnarci a pensare.”

 

 

LA SCUOLA DELL’INFANZIA E LA RIFORMA DEI CICLI

 

di Chiara Moimas

 

CRONOLOGIA DELLA DOCUMENTAZIONE

 

*Il documento sui “Contenuti essenziali della formazione di base” redatto da sei professori universitari e presentato a Roma, all’Accademia dei Lincei, dal Ministro Berlinguer il 20 marzo 1998, conteneva indicazioni  che per gli addetti ai lavori delle scuole materne risuonavano familiari: il richiamo all’interazione fra linguaggi della mente e linguaggi del corpo e l’affermazione della loro uguale dignità e la volontà di superare le tradizionali partizioni disciplinari. Queste indicazioni rinviavano direttamente ai contenuti degli Orientamenti del ’91, i nuovi programmi per la scuola materna, che hanno favorito una rivisitazione della stessa evidenziandone le caratteristiche didattico educative ed iniziando la demolizione ideologica della sua struttura prevalentemente assistenziale.

 

*Nel 1999, il Ministro della Pubblica Istruzione allora in carica, on. Berlinguer, nell’introduzione alla “Consultazione sulle linee di sviluppo della scuola materna” indicava la Scuola dell’infanzia come “… primo vero e proprio segmento del sistema scolastico…” e ribadiva che il carattere di scuola a forte partecipazione sociale la rendeva luogo privilegiato per indicare il percorso concreto dell’autonomia all’intero sistema scolastico.

Le “Linee di sviluppo” contengono dati statistici  dai quali si evince che la scuola materna (statale e non) sull’intero territorio nazionale ha raggiunto una scolarizzazione del 94%.

E’ indispensabile considerare che la scuola materna è tuttora retta da una normativa che la relega ad un ruolo prevalentemente assistenziale ed il riconoscimento di “vera scuola” che si è conquistata sul campo, è dovuto, prevalentemente, alla volontà degli insegnanti che in essa operano ed alla loro preparazione.

Il risultato tangibile che la scuola materna ha sinora avuto dalla citata consultazione è il cambio di nome: infatti è diventata Scuola dell’infanzia!

 

*Il dibattito sulla riforma dei cicli, in prima battuta, ha posto il problema dell’obbligatorietà dell’ultimo anno di scuola dell’infanzia, dando adito alla formazione di fazioni di favorevoli e contrari.

La discussione si è, però, immediatamente spostata dal contesto educativo-didattico a quello logistico con la risoluzione che alla generalizzazione dell’offerta formativa di tale grado di scuola si provvedesse mediante il sistema pubblico integrato (L.62/2000).

 

*Il sottogruppo di lavoro N.7° della commissione di esperti, insediata dal Ministro De Mauro, nella sintesi dei lavori sui nuovi curricoli presentata il 12 settembre 2000, ha riconosciuto alla scuola dell’infanzia la caratteristica di scuola “fondativa”.

Gli esperti hanno confermato la validità dell’articolazione degli Orientamenti per campi di esperienza ed hanno ribadito  la necessità di rivedere il quadro normativo esistente, con particolare riferimento all’art. 104 del D.L.vo n. 297/1994 (orario di funzionamento: 8 – 10 ore).

Il sottogruppo n.7 ha  puntualizzato che l’orario di funzionamento della scuola dell’infanzia deve rispondere ad esigenze di ordine educativo-formativo e deve essere definito in relazione al benessere psico-fisico dei bambini ed ha dedicato un paragrafo al calendario scolastico indicandone la doverosa omogeneità con quello degli altri ordini di scuole, questo per evitare “ ripercussioni sulle impressioni dei bambini stessi e sulle famiglie … con conseguenze discriminanti in ordine all’esercizio della professione docente”.

La valutazione di obiettivi specifici è vista all’interno di un sistema che sia dinamico, complesso, aperto e finalizzato ad una lettura qualitativa dei processi formativi, processi strettamente connessi alle condizioni nelle quali si sviluppano.

Emerge quindi, nella relazione degli esperti, l’importanza della definizione di standard di qualità che, nella scuola dell’infanzia, non possono prescindere dalla dimensione organizzativa e prevedere quindi una ottimizzazione del tempo scuola, dell’uso degli spazi, degli arredi ed una revisione della consistenza delle sezioni.

 

*Il 3 novembre 2000 il Ministro De Mauro ha presentato il programma quinquennale di attuazione della L.30/2000 di Riordino dei cicli ed ancora ha parlato di ruolo “fondativo” della scuola dell’infanzia, poiché al suo interno avviene la prima rielaborazione concettuale delle esperienze e dei vissuti.

Ancora una volta è stata evidenziata la diffusione capillare sul territorio nazionale con una frequenza del 94%.

Anche nel programma quinquennale di attuazione si riconosce validità agli Orientamenti del ‘91.

Il monte ore annuale assegnato alla scuola dell’infanzia è di 1.150-1.300 ore distribuito in 35-40 ore settimanali per 5 giorni: questo prospetto dovrebbe risolvere il problema del calendario scolastico sul quale gli esperti si erano espressi in modo severo.

 

*Il 7 febbraio 2001 viene presentata la SINTESI dei gruppi di lavoro sui nuovi curricoli in previsione del riordino dei cicli.

La premessa al curricolo della scuola dell’infanzia continua l’abitudine oramai radicata in ministri, saggi ed esperti, di delineare una scuola dell’infanzia come “fondativa”, primo gradino di un percorso formativo coerente ed unitario nella sua ispirazione pedagogica che accompagnerà i bambini ed i ragazzi dai 3 ai 18

Gli Orientamenti del ‘91 rimangono validi in quanto  frutto di una ricerca pedagogica avanzata.

 

Questa la cronistoria della documentazione ufficiale che, dal 1998 ad oggi, ha preso in esame le problematiche della scuola dell’infanzia e dalla quale si evince che:

-         all’attualità dei contenuti programmatici degli Orientamenti non corrisponde un aggiornamento normativo;

-         le norme obsolete che regolano la scuola dell’infanzia evidenziano ancora un ruolo prevalentemente assistenziale della stessa rendendo problematico, per gli operatori, l’allineamento al modello di scuola proposto dall’autonomia;

-         gli standard di qualità ai quali sarà necessario uniformarsi diventano utopia in assenza di una revisione della densità numerica dei bambini per sezione;

-         la progettazione del piano dell’offerta formativa, le connessioni ed i raccordi con la scuola di base necessitano la riconsiderazione dell’ orario di lavoro dei docenti di scuola dell’infanzia.

 

GLI ORIENTAMENTI

 

L’attualità riconosciuta agli Orientamenti del ‘91 e la loro conseguente conferma, a base dalla definizione del curricolo delle scuole dell’infanzia, non alimenta l’apertura di nuovi dibattiti poiché i contenuti degli Orientamenti sono stati motivo di numerosi confronti all’interno del gruppo docente dal quale sono stati sicuramente interiorizzati; attualmente essi trovano applicazione contestualmente alle diverse realtà scolastiche e nella rielaborazione criticamente dinamica e costruttiva di ogni singolo insegnante.

Gli Orientamenti vengono citati come esempio di ricerca pedagogica avanzata e vengono definiti interessante fonte per l’individuazione di criteri di impianto curricolare per l’intero percorso scolastico: eclatante, per la nuova terminologia con cui indicare l’Educazione fisica, il richiamo al campo d’esperienza “Corpo e movimento”.

L’interazione dei diversi campi di esperienza che li caratterizza diventa un modello per il curricolo di tutto il percorso formativo dei bambini e dei ragazzi e contribuisce alla creazione di una scuola non più fondata su materie di studio tradizionali, ma su ambiti disciplinari finalizzati a sviluppare competenze.

Queste argomentazioni risultano utili per affermare la qualitativa evoluzione che la scuola dell’infanzia ha subito negli ultimi anni e rappresentano, manifestandosi come positivo riscontro di esperienze, uno spiraglio di speranza per gli insegnanti che in questo ciclo scolastico credono e lavorano, in condizioni spesso intollerabili.

Non è questa la sede per giudicare quanto la creazione di ambiti disciplinari e l’acquisizione di competenze come obiettivi finali possa essere considerato positivo in altri cicli scolastici.

 

LA SCUOLA DELL’INFANZIA E I NUOVI CURRICOLI

 

Nella SINTESI dei nuovi curricoli, i gruppi di lavoro delle diverse aggregazioni disciplinari si sono unanimemente richiamati alle esperienze precedenti dei bambini e un evidente richiamo agli orientamenti si ritrova nell’indicazione, per il primo biennio, a procedere per campi d’esperienza.

 

CAMPI DI ESPERIENZA

La riconsiderazione dei campi di esperienza ribadisce la necessaria interazione degli stessi nel percorso di sviluppo del bambino.

Gli esperti ritengono inopportuna la stesura di un elenco di obiettivi e competenze desunti dai diversi campi, elenco definito arido e decontestualizzato; questa considerazione sembra contrastare con quanto sinora elaborato dagli insegnanti a livello di formazione, anche in considerazione di eventuali verifiche finali.

Il testo stesso degli Orientamenti delinea, per ogni campo di esperienza, obiettivi ed abilità da raggiungere; nei lavori di gruppo di Aggregazione disciplinare, ad esempio in quello matematico, è possibile ritrovare l’elenco di ciò che, presumibilmente, i bambini sanno a sei anni e tali conoscenze rinviano palesemente agli obiettivi finali del ciclo della scuola dell’infanzia per il campo di esperienza  LO SPAZIO, L’ORDINE, LA MISURA.

 

CONTINUITA’

In ogni Aggregazione disciplinare, gli esperti  si richiamano alle conoscenze acquisite dai bambini nei tre anni di scuola dell’infanzia e le considerano punto di partenza per il nuovo ciclo scolastico; auspicano, in certi casi, al momento del passaggio alla scuola di base, un momento di transizione che preveda anche una continuità metodologica.

Risulta evidente la necessità di una trasmissione di obiettivi per campi d’esperienza, ma risulta anche evidente che una mera trasmissione di dati non può essere esaustiva, laddove fondamentale è la conoscenza di un ambiente come sede di sviluppo e della metodologia che in esso si attua.

Il passaggio dei dati dalla scuola dell’infanzia al ciclo di base non può concretizzarsi positivamente, se precedentemente non vengono  risolte le problematiche inerenti  l’organizzazione del lavoro all’interno del gruppo docente dell’istituto verticalizzato e la visibilità del lavoro svolto nella scuola dell’infanzia.

Il secondo punto deve ancora confrontarsi con una radicata mentalità che si ostina a vedere questa scuola come servizio o mero intrattenimento, il primo deve considerare l’oneroso impegno che grava sugli insegnanti di scuola dell’infanzia a livello quantitativo e qualitativo (nel senso di esplicazione di molteplici funzioni).

Le medesime argomentazioni sono valide anche in considerazione delle prospettate possibilità di raccordo pedagogico e  curricolare che prevede anni ponte - team integrati - curricoli passerella…

 

 

 

 

VALUTAZIONE

Valutare tenendo conto della contestualizzazione nella quale avviene l’apprendimento è un suggerimento che non  può essere rifiutato a priori.

Nella SINTESI dei nuovi curricoli appare, però, troppo accentuato l’interesse rivolto alla valutazione del contesto rispetto a quello da rivolgere alla valutazione o, se si vuole, alla considerazione dello sviluppo avvenuto nei singoli bambini.

Valutare la scuola come ambiente formativo, in un momento di grande degrado delle strutture, di mancanza di personale ausiliario, di scarsità di risorse degli Istituti per incentivare qualsiasi iniziativa potrebbe trasformarsi, per gli operatori della scuola dell’infanzia, in una impresa che richiederebbe un dispendio di energie non sempre disponibili presentando, comunque, una elevata  possibilità di  insuccesso.

Più corretto potrebbe essere valutare la qualità dell’offerta formativa nonostante……

Nonostante le classi numerose, la mancanza di spazi adeguati allo svolgimento delle diverse attività, gli orari non adeguati alle esigenze psicofisiche dei bambini, la prassi consolidata a non nominare supplenti eliminando di fatto la compresenza……

La  valutazione del contesto può esplicare la sua validità allorché diventa un resoconto obiettivo della situazione e documento ufficiale dal quale l’Istituto e le forze sociali deducono i bisogni e le necessità della scuola.

La valutazione individuale deve certamente privilegiare l’osservazione e l’ascolto, ma può diventare una trasmissione di notizie utili alla conoscenza del bambino ed al suo ottimale inserimento nel ciclo scolastico successivo, allorché gli insegnanti dei due cicli di scuola si servono della medesima chiave di lettura.

 

 ORGANIZZAZIONE

 

La Scuola dell’infanzia viene toccata marginalmente dalla riforma dei cicli; lievi modifiche vengono apportate ai contenuti dei programmi e minime sono anche le proposte che riguardano l’organizzazione della scuola.

Non sono proposte peggiorative, anche perché risulterebbe difficile aggravare le condizioni esistenti nella scuola dell’infanzia.

Il monte ore annuale non è definito e questo, sicuramente, riduce la possibilità di scelte mirate esclusivamente alla realizzazione dell’offerta formativa.

La flessibilità tanto auspicata all’interno dell’organico funzionale è un miraggio che nella realtà dei fatti non consente l’attuazione di grosse modifiche organizzative per tre fondamentali motivi:

1)      l’elevato rapporto numerico insegnante-bambini;

2)      la mancanza di spazi;

3)      l’essenzialità dell’organico funzionale.

 

CONCLUSIONE

 

La Riforma dei cicli può configurarsi come motivo di un timido inizio di miglioramento qualitativo per la scuola nel suo complesso e per le condizioni di lavoro degli insegnanti.

Ma la rivalutazione della Scuola dell’infanzia e la sua riconversione in vera e propria scuola a carattere “fondativo” non può prescindere da una revisione legislativa.

La Riforma dei cicli si presenta come un percorso coerente ed unitario nella sua ispirazione pedagogica e quindi la sua attuazione deve avvenire contemporaneamente nella scuola di base e nella scuola dell’infanzia.

L’emanazione del decreto applicativo dell’art. 8 del Dpr 275/99 è indispensabile per indicare le caratteristiche di funzionamento della scuola in sintonia con la riforma.

Se non si provvede a ciò, la scuola dell’infanzia non potrà cambiare ed i nuovi curricoli rimarranno un’ulteriore documentazione atta ad accreditarle un valore che di fatto non si vuole riconoscere.

 

 

 

 

La riforma berlingueriana e la dissoluzione della scuola italiana tra toyotismo e miti messianici.

di

Dario Generali

 

 La minaccia concretissima di applicazione della riforma dei cicli a partire dal prossimo anno scolastico sembra smentire una diffusa convinzione, secondo la quale non vi sia, nella politica riformatrice scolastica degli ultimi anni, un limite al peggio. Quanto è stato a lungo paventato e duramente contrastato dalla parte migliore, più consapevole e competente degli insegnanti è sul punto di realizzarsi in tutta la sua devastante esizialità per il sistema formativo scolastico nazionale, con la conseguenza che, da qui a pochi mesi, potrebbe cessare di esistere per un lungo periodo qualsiasi possibilità di formazione culturale pubblica dignitosa nel nostro paese. Molto è stato fatto per contrastare ed impedire un risultato di questo genere e molto ancora si sta facendo. Da anni si combatte ad ogni livello per arginare l’arroganza e l’irrazionalità di una politica scolastica insipiente e velleitaria, viziata, nel contempo, da ideologismo livellatore e da volgarità economicista, da superficialità massmediatica e da malafede politica e sindacale. A partire dall’Incontro di studio Tra delusione e utopia. Stato e prospettive di trasformazione della scuola pubblica media superiore italiana, svoltosi il 17 giugno presso l’IPSIA “Cesare Correnti” di Milano,[1] ai libri di Giovanni Pacchiano,[2] Fabio Minazzi,[3] Lucio Russo,[4] Alberto Giovanni Biuso,[5] Fabrizio Polacco,[6] dalle molte altre iniziative, volumi e convegni in cui, dal 1998 ad oggi, si è manifestato un radicale dissenso verso la riforma scolastica in corso,[7] alle riviste «il Voltaire» e «Punti critici», sino alle disamine degli autori più competenti del giornalismo italiano di settore[8] ed all’elaborazione di una vera e propria proposta alternativa condotta da una commissione di docenti intellettuali promossa congiuntamente dalla Fondazione Nova Spes, da PRISMA, dal Centro Studi Gilda e dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici,[9] si sono sottolineati, con un grado di chiarezza tale da poter essere compreso anche dalle menti più semplici e meno strutturate, errori, assurdità, pericoli ed irrazionalità della riforma berlingueriana. Tuttavia alla forza teoretica delle critiche ed all’evidenza delle ragioni di chi, in vari modi, si è opposto e si sta opponendo ad una tale deriva della scuola italiana, ha corrisposto una notevole debolezza ed uno straordinario isolamento, sul piano pratico e politico, di queste voci.

La causa principale di un tale stato di cose può essere ricondotta alla convergenza di vedute raggiunta in proposito dai sindacati confederali (egemonizzati culturalmente ed ideologicamente dalla politica scolastica sostenuta ed elaborata dalla CGIL), da Confindustria e dagli ultimi governi, che ha costituito un fronte particolarmente compatto e soffocante, difficile da sconfiggere per chi può contare sulla sola forza delle proprie idee. Il livellamento impiegatizio del corpo docente è sempre stato un obiettivo del sindacalismo confederale, che non ha mai tollerato, per gli insegnanti come per tutte le categorie caratterizzate da una professionalità di alto profilo intellettuale, la legittima richiesta di aree separate di contrattazione e l’esigenza del riconoscimento di proprie, particolari professionalità, evidentemente differenti da quelle che definiscono attività lavorative meno qualificate. Perché, evidentemente, bidelli, infermieri e personale amministrativo sono lavoratori come insegnanti e medici ed unitamente a questi devono essere collocati nel momento di definire stati giuridici e retribuzioni dei vari comparti. Equità, per il sindacalismo confederale, significa livellamento, inevitabilmente verso il basso, non riconoscimenti ad ognuno secondo i propri meriti. Se mai, quando vengono accettate distinzioni, sono sempre di natura quantitativa, mai qualitativa: chi lavora tre ore deve essere retribuito il triplo di chi ne lavora una, anche se chi ne lavora una vale il triplo di chi ne ha lavorate tre ed in una ha fatto quello per cui il primo ne ha impiegate tre.[10]

Inoltre, sempre per il sindacalismo confederale, l’unica cosa che sembra importare, nell’attività didattica, è il recupero della marginalità e della devianza, mai la valorizzazione dell’eccellenza, perché quello che si deve ottenere è il superamento di qualsiasi differenza, il livellamento di tutti i soggetti affidati alla formazione scolastica. Da qui, per esempio, il disastro del tempo pieno, con bambini dai sei ai dieci anni costretti a stare a scuola, contro ogni ragionevolezza, per otto ore al giorno, al fine di impedire che i soggetti appartenenti alle famiglie culturalmente più strutturate possano avvantaggiarsi degli stimoli familiari. La cosa da fare non è, naturalmente, qualificare la scuola in modo che chi, indipendentemente dalla famiglia di provenienza, abbia capacità e motivazioni possa affrancarsi dalle sue origini, ma impedire al meglio che i più fortunati imparino di più e meglio degli altri. Cosa che poi, nonostante tutto, avviene ugualmente, senza però che gli altri abbiano avuto l’unica garanzia che uno stato di diritto e democratico deve necessariamente dare: una scuola di qualità in grado di fornire strumenti adeguati di formazione anche a chi non può contare su altri.

Il fatto che una parte non irrilevante della struttura gerarchica dell’apparato della scuola, come molti esperti e funzionari del ministero, provengano dai quadri sindacali che, nel corso degli anni, hanno, insieme ai partiti politici, ai quali molto spesso i sindacati sono collegati, condotto una sorta di colonizzazione della pubblica amministrazione, fa intendere perfettamente come queste logiche si siano imposte anche nella struttura gestionale e normativa della scuola, facendo così aderire, quasi senza residui, i punti di vista istituzionali a quelli dei sindacati.

A propria volta, Confindustria si trova a far proprie le visioni del sindacalismo confederale. In primo luogo poiché lo considera il proprio interlocutore privilegiato, l’unico in grado di garantire quella pace sociale che è presupposto necessario degli interessi che rappresenta. In secondo luogo perché la grande industria non è interessata ad una formazione culturale critica, ad una paideia, ad una Bildung, ma ad un addestramento, funzionale alle proprie esigenze produttive. I pochi creativi di cui può aver bisogno possono benissimo essersi formati in scuole private italiane od estere e poco può importare se tutti o solo qualcuno abbia avuto la possibilità di raggiungere determinate capacità e competenze. Del resto, legittimamente Confindustria non ha come suo problema l’esigenza che siano fornite a tutti valide opportunità formative: i figli degli industriali e di chi rappresenta, evidentemente, ce l’hanno indipendentemente dai livelli qualitativi della scuola pubblica. Inoltre, trovando opportuno che la scuola fornisca più un addestramento che una formazione culturale critica ed approfondita, richiedere che gli insegnanti siano degli intellettuali rappresenta, per Confindustria, un inutile sperpero di risorse e di denaro, essendo largamente sufficiente avere degli istruttori efficienti e resi flessibili dalla frequenza di corsi brevi, che li rendano capaci di preparare i propri allievi ad affrontare le diverse esigenze di volta in volta presentate dal mercato. In quest’ottica gli insegnanti, privi di autonomia e di responsabilità decisionale, non possono che essere inquadrati ad un livello impiegatizio medio basso, così come credono anche i sindacati confederali, CGIL in primo luogo.

Non a torto Mario Pirani, nel suo articolo Se studiare è un optional, apparso su «La Repubblica» del 20 febbraio 2001, rompendo il fronte compatto di sostegno prestato dal suo quotidiano fino a quel momento a Berlinguer e a De Mauro, ha attribuito «la politica scolastica delle sinistre», un tempo qualificata «nei suoi orientamenti da intellettuali come Visalberghi e Codignola, Concetto Marchesi e Francesco Flora, Natalino Sapegno e Rosario Villari», ad «una casta potente quanto autoreferenziale di pedagogisti, in buona misura anonimi, abbarbicati attorno al Ministero della Pubblica Istruzione e negli Istituti regionali per la didattica (IRRSAE)», appunto quei sindacalisti che hanno colonizzato la pubblica amministrazione di cui si diceva e «che hanno imposto la loro dittatura sull’ordinamento scolastico, grazie alla acquiescenza dei ministri che si sono succeduti».

Il livello e le caratteristiche dell’impianto culturale su cui si fonda l’azione riformatrice sarebbero tali da non meritare alcun serio sforzo di analisi critica, venendo da un’operazione ideologica che si potrebbe definire eclettica se potesse almeno contare su un minimo padroneggiamento razionale dei propri riferimenti concettuali, accozzati invece in modo spesso arbitrario ed irrazionale e sempre in una prospettiva di grave fraintendimento e confusione teoretica. Per dirla ancora con Pirani, si tratta del «virus mentale» della “Rivoluzione culturale” maoista, «subdolamente annidato in tutto questo tempo e venuto [a] contatto con il sociologismo pedagogico d’oltreatlantico», che ha «diffuso e provocato una di quelle patologie mutanti, quanto devastanti, che le terapie della Ragione faticano a contenere», ma anche di un patchwork malamente rappezzato, che fonde l’utopismo messianico di Don Milani con il «ciarpame psicopedagogico di stampo anglosassone che ha portato l’Inghilterra, stando alle affermazioni di Blair, ad avere uno dei più disastrati insegnamenti pubblici del mondo».

Ciarpame ideologico, patchwork mal combinato e deviazione concettuale che però, grazie alle ragioni indicate e con il sostegno dei mezzi pratici e dell’apparato organizzativo di C.G.I.L. e Confindustria sono giunti a generare una riforma mostruosa ma incombente e realissima, al punto da essere riuscita a terminare gli iter parlamentari ed essere sul punto di venir applicata nella sua devastante completezza.

Se, dunque, tale impianto ideologico meriterebbe pochissima attenzione sul piano teorico, per la sua pochezza culturale, ne richiede invece moltissima nella sua qualità di riferimento di una riforma concretissima e sul punto di essere definitivamente applicata. Impianto ideologico che viene esplicitamente illustrato, come è raramente accaduto in altri scritti, ne Il libro verde della Pubblica istruzione, a cura di Federico Butera, con Prefazione di Luigi Berlinguer ed Introduzione di Vittorio Campione.[11] 

Il volumetto contiene l’illustrazione della “diagnosi organizzativa” e di “quattro progetti di cambiamento”, che costituiscono le premesse operative di PICTO, il Progetto Integrato di Cambiamento Tecnologico-Organizzativo, nato in sordina, come tutta la riforma, nel secondo semestre del 1997, con il compito di “implementare” la riforma berlingueriana, cioè di costringere scuole ed insegnanti ad accettare il modello di autonomia concepito dal ministro e dai suoi epigoni. Tale risultato dovrebbe essere ottenuto attraverso strategie organizzative di tipo aziendale, in grado di espugnare alle radici, ricorrendo alle management sciences, le resistenze di insegnanti e dirigenti scolastici “retrivi” ed “incapaci di comprendere” il valore straordinario della riforma.

Alcune caratteristiche di PICTO meritano di essere sinteticamente illustrate: a) PICTO fa capo ad un Comitato dove sono largamente rappresentati apporti di tecnica dell’organizzazione aziendale, senza la presenza di alcun insegnante in quanto punto di vista della categoria; b) L’unico sindacato rappresentato è la CGIL; c) La qualità scientifica del Comitato può contare sulla presenza degli immancabili Maragliano e Vertecchi; d) Il libro verde è stato redatto da un team di IRSO (Istituto di Ricerca Intervento sui Sistemi Organizzativi presieduto da Federico Butera) e dalla Butera e Partners s.r.l., quindi da una società di consulenza e progettazione organizzativa privata che, senza sentire alcun insegnante, ha stabilito come dovrebbe essere la scuola pubblica dell'autonomia.

A queste significative premesse seguono numerose conclusioni esposte nel Libro verde, che vale la pena indicare, in quanto emblematiche di caratteristiche e prospettive ideologiche della riforma: I) Sull'eccellenza della riforma berlingueriana non c’è da discutere: «tutto ciò è acquisito dal Libro Verde come dato, e mai posto in questione»; II) La risposta data dall’industria all’introduzione dei team ed il conseguente successo del “toyotismo” è esemplare e dovrebbe essere assunta dalla scuola come modello da imitare; III) La customer satisfaction sarà uno degli obiettivi fondamentali degli istituti scolastici dell’autonomia; IV) Sarebbe auspicabile un reclutamento diretto del personale ad opera dei singoli istituti, presieduto ed indirizzato dai nuovi dirigenti scolastici; V) Condizione preliminare per ogni cambiamento sarà l’abolizione della libertà d’insegnamento dei singoli insegnanti, che ora, in una situazione di «profondo radicamento di una cultura democratica», non ha più senso di esistere; VI) Si dovrà superare la centralità del rapporto insegnante-classe a vantaggio di progetti collettivi che coinvolgano tutte le componenti dell’istituto, le forze sociali, gli enti locali, ecc.; VII) Il reclutamento del personale docente non dovrà avvenire solo sulla base delle competenze disciplinari, ma anche e soprattutto sulle sue capacità trasversali di creare motivazioni; VIII) Gli istituti scolastici dovranno avere organizzazione e finalità di marketing simili a quelle di una piccola azienda; IX) La professionalità docente dovrà essere misurata in relazione al suo adattamento alle logiche di trasformazione degli istituti; X) I budget incentivanti degli istituti saranno collegati al raggiungimento dei risultati indicati dal Ministero; XI) La conoscenza impartita non dovrà più essere appannaggio di un’élite di professionisti, ma diffusa nel sociale e condivisa dal complesso del personale scolastico, poiché è necessario che anche il personale amministrativo attinga e collabori al livello cognitivo che anima l’offerta formativa; XII) La concezione della nuova gara per la fornitura del sistema informatico della scuola rappresenterà la nuova concezione della gestione della conoscenza nella scuola; ecc.

Ipotesi del tutto estranee al modello di una scuola di qualità, come la tradizione e l’esperienza della parte migliore dell’attuale categoria docente configura e che, come si è visto, se non fosse per la loro agghiacciante incombenza, non meriterebbero neppure di essere prese in considerazione, in quanto assolutamente improbabili, per non dire altro, ed incongrue con le esigenze di una scuola decente. Scuola decente che, in questo contesto, sembra sempre più difficile da salvare dall’imminente catastrofe, procurata dagli attacchi concentrici di Confindustria, sindacalismo confederale ed insipienza governativa, che sono sul punto di portare all’ultima conclusione la distruzione della professionalità docente e della (da loro odiatissima, in quanto espressione e veicolo di coscienza critica) libertà d’insegnamento. Scuola decente che si dovrà tentare di difendere non nella sola contingenza dei singoli istituti, ma soprattutto sul piano teorico e culturale, dove gli apparati ministeriali e sindacali stanno concentrando i loro maggiori sforzi per ottenere la normalizzazione dell’eterogeneità culturale dei docenti e l’egemonia del pensiero pedagogico unico da loro propugnato.[12]

Ovunque l’apparato organizzi un corso di formazione o di aggiornamento, gli obiettivi che persegue non sono quasi mai quelli di un’effettiva qualificazione culturale e professionale dei docenti coinvolti, come sarebbe lecito aspettarsi e come sarebbe preciso dovere istituzionale dei promotori delle iniziative, ma «l’organizzazione di uno sforzo sistematico di trasmissione gerarchica -dal centro alla periferia, dagli ispettori agli insegnanti- di un pensiero unico, di un verbo pedagogico dato per assoluto, necessario, indiscutibile».[13] Con la volontà esplicita ed il pericolo evidente di isolare col tempo i docenti più strutturati intellettualmente e maggiormente in grado di resistere a tanto battage ideologico, sia facendo entrare nel senso comune dell’insegnante medio (con gli stessi metodi utilizzati nelle campagne pubblicitarie massmediatiche nei confronti dei consumatori) i dogmi su cui si fonda la riforma berlingueriana, sia, soprattutto, nella logica dell’onnipotenza pedagogica tanto cara ai riformatori ministeriali, tentando di imporre ai nuovi insegnanti, sin dal periodo degli studi universitari e di specializzazione, forma mentis e principi della pedagogia di stato. Non resistere con la massima energia su questo terreno significherebbe condannarsi ad una lenta ma inesorabile scomparsa, determinata dall’immissione, nel meccanismo del nostro naturale avvicendamento generazionale e professionale, di giovani insegnanti formati secondo i rovinosi modelli sposati dall’apparato e dalla sua ideologia e selezionati non sulla base delle loro competenze scientifiche e professionali, ma in relazione alla loro adesione a tale dottrina.        

Uno dei luoghi dove sarebbe necessario operare il massimo sforzo per tentare di spezzare il monopolio ideologico della pedagogia di stato e l’occupazione pressoché completa del territorio istituzionale da parte del sindacalismo confederale e della “casta di pedagogisti” più o meno allineati alle tesi di Maragliano e Vertecchi e dei loro epigoni, sono sicuramente le scuole di specializzazione post-universitarie. Con rare eccezioni si è fatto del tutto per evitare che in esse entrassero come docenti soggetti culturalmente ed ideologicamente eterogenei rispetto a tale ambiente ideologico di riferimento. Mentre è stato facilissimo assistere al reclutamento di insegnanti sindacalizzati con bibliografie nulle o ridicole, nello stesso modo si è spesso registrata l’esclusione di soggetti che potevano vantare curricula e bibliografie compatibili con un possibile giudizio d’idoneità al ruolo della docenza universitaria nelle specifiche discipline di appartenenza. Alla “Bicocca” di Milano, per esempio, senza aggiungere altro, il bando di concorso è uscito, come spesso accade in casi di questo genere, nell’agosto 1999, con la conseguenza che a presentare domanda sono stati fondamentalmente quelli a cui la notizia è stata trasmessa personalmente dalle strutture accademiche a dagli apparati sindacali coinvolti, con buona pace dei meriti e delle competenze degli esclusi.

In tali sedi, come, anche, più in generale, nei molti corsi universitari di Pedagogia maggiormente dominati dall’esigenza del sostegno acritico del dogma pedagogico più che dalla volontà di elaborazione di un’originale ricerca critica le forzature si allargano spesso allo stesso terreno fondazionale della storia. Come è sempre accaduto anche in passato quando ha prevalso la passione dell’ideologia sulla sobrietà della riflessione e della ragione, la ricostruzione storiografica viene piegata senza problemi alle esigenze delle tesi che si vogliono dimostrare, con distorsioni e mistificazioni di grossolana evidenza, che si commentano da sole e che qualificano con chiarezza caratteristiche e livello culturale di tali operazioni. Anche in questo caso, però, tesi che, sul piano teorico, non meriterebbero particolare attenzione per la loro evidente infondatezza, ne meritano invece moltissima in quanto esposte e sostenute in corsi universitari rivolti a giovani, in molti casi ancora incapaci di porsi in modo selettivo e critico nei confronti degli insegnamenti loro impartiti da docenti dai quali legittimamente dovrebbero aspettarsi equilibrio, competenza e rigore scientifico. A giovani, in particolare, che avranno come fondamentale prospettiva professionale quella dell’insegnamento e che dovranno nel tempo, per quel naturale ricambio indicato, sostituirci, garantendo la qualità dell’insegnamento scolastico futuro nella nostra nazione. A giovani cui si dovrebbe garantire una lunga ed approfondita formazione, in grado di condurli alla superiorità intellettuale e critica di uno studioso che è maestro nella propria disciplina e che ha solidi riferimenti culturali generali. A futuri docenti ai quali non si dovrebbero propinare semplificazioni da scuole serali e formule ideologiche, ma permettere, attraverso una solida formazione culturale, la lenta comprensione del complesso rapporto di libertà intellettuale che non può che caratterizzare qualsiasi insegnamento ed apprendimento, la pacata educazione al pensiero critico ed ai valori della ragione, la volontà di un’intelligenza delle cose per quello che sono e la capacità di giudicarle sempre sulla sola base del proprio libero giudizio critico e degli strumenti intellettuali e culturali maturati.

Un esempio assai significativo di come siano impartiti gli insegnamenti di Pedagogia non solo nelle scuole di specializzazione, ma nelle stesse facoltà di Scienze della formazione, può venire dal valutare come Raffaele Mantegazza illustri, nell’ambito delle modalità della trasmissione del sapere e della filosofia dell’educazione, le caratteristiche salienti del passaggio epocale tra medioevo ed età moderna, nella sua Filosofia dell’educazione,[14] testo obbligatorio della parte istituzionale del programma d’esame del corso di Pedagogia generale della Facoltà di Scienze della formazione dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca per l’anno accademico 1999-2000. In tale volume Mantegazza,[15] seguendo le tesi di Walter J. Ong,[16] individua come caratteristica principale, sul piano in questione e in tale trasformazione epocale, il passaggio da una società caratterizzata da rapporti aurali-orali ad una fondata sulla scrittura, su una cultura cristallizzata nel testo scritto ed espressione di una chiusura comunicativa e dell’egoismo sociale del borghese moderno, quando, al contrario, sempre secondo Mantegazza, in quella medioevale la trasmissione della cultura era un fatto sociale e condiviso, poiché avveniva oralmente, in uno spazio circolare aperto a tutti.

Visto il carattere del tutto improbabile di tesi storiografiche di questo genere e la possibile difficoltà, per un lettore avvertito ed equilibrato, di credere alla loro formulazione, in siffatti termini, da parte di soggetti accreditati ed in manuali universitari, può forse non essere superfluo assoggettarsi ad una lunga citazione, in modo che le pagine in questione possano presentarsi nella loro formulazione originale e senza interpolazioni interpretative:

 

Dobbiamo all’analisi di alcuni testi dello studioso statunitense Walter J. Ong una serie di interessanti suggestioni sul rapporto oralità/scrittura, e sull’importanza assunta dallo studio di questo rapporto nell’analisi dello sviluppo della società borghese. Ong analizza infatti il passaggio da una società -quella medievale- essenzialmente basata sull’oralità a una basata sulla scrittura -la società moderna- cogliendo proprio nel gesto luterano di traduzione della Bibbia il paradigma di questa transizione [...] Nel passaggio dall’età medievale all’era moderna, si attenua allora la dimensione orale-aurale, per giungere al predominio della vista [...] Ma che conseguenze ha questo passaggio dalla dimensione orale-aurale a quella visiva sul piano della trasmissione della cultura e dunque anche dell’educazione? In una cultura aurale-orale la trasmissione di dati, informazioni, notizie, il tramandare leggende e miti e dunque anche la formazione delle nuove generazioni è atto collettivo e sociale, perché avviene in gruppo; qui, la voce della persona che parla proviene da un interno ed è accolta e custodita da un interno (o da molti): l’”interno” dell’ascoltatore. La parola è viva in quanto risuona tra gli uomini e le donne, è immediatamente parola sociale, condivisa e legittimata dal gruppo: lo spazio è aperto e circolare, perché deve permettere la circolazione della parola e della voce. Nella cultura visiva, invece, ossia nella cultura che si afferma nell’età moderna, la parola è spazializzata, cristallizzata sul foglio, e l’orizzonte della sua diffusione è quello privato, individuale, singolare, egoistico del singolo individuo che legge, magari chiuso nella propria stanza. Il gesto non è più quello del condividere; è quello dell’isolarsi, del privatizzare, del nascondersi. La parola scritta ha già il carattere della segretezza. Lo spazio è quello chiuso, delimitato; è lo spazio del parallelepipedo all’interno del quale si svolge la vita quotidiana del borghese (bottega, aula scolastica o cella). Il silenzio che contorna la lettura è la chiusura di ogni possibile comunicazione. Allora, lo spazio del borghese è, proprio nel gesto che lo fonda, spazio del privato e dell’isolamento, spazio che deriva dalla rottura dei vincoli solidaristici che permeavano il Medioevo. E’ uno spazio spersonalizzato, perché non più abitato dalle presenze che permettevano lo scambio della parola; tale scambio, l’incontro tra uomo e parola, non è più risonanza tra due interni, ma è incontro-scontro tra due esteriorità: quella della parola cristallizzata in carattere di stampa e quella del soggetto monadico e isolato. L’individuo che si afferma nella modernità è emerso dalla collettività e l’ha dovuta negare per affermare la propria unicità ed irripetibilità. Ma tale negazione ha avuto come conseguenza la costituzione dell’uomo isolato, la nascita della forma peculiare di solitudine disperata che è un tratto caratteristico della modernità. Il senso di ordine e di controllo che l’alfabeto, la cristallizzazione della parola sul foglio conferiscono al lettore è senso di potere, ma di potere solitario e da non condividere con altri. Si tratta del potere dell’uomo solo, dell’individuo a se stante, del pensatore singolo, figura del tutto sconosciuta alle culture orali; è nato l’uomo con il libro alla mano, e contemporaneamente è nata la proprietà privata e personale, di contro alla proprietà collettiva. Il possesso del borghese trova nel copyright uno dei suoi archetipi.[17]

 

L’insipienza e l’infondatezza storiografica non solo delle tesi sostenute, ma della stessa illustrazione dei contesti di riferimento, rende superfluo ogni commento, come un’analisi critica dettagliata delle medesime. Sarebbe infatti fin troppo semplice ironizzare su Anselmo, Gaunilone ed Abelardo che discutono con i contadini, attorno a un fuoco, in una comunità di villaggio o sul blocco della trasmissione del sapere prodotto dall’invenzione della stampa, sull’egoismo della scrittura e sulla generosità della parola o sul copyright nato nel passaggio tra medioevo ed età moderna ed archetipo della proprietà borghese. Più significativo può invece essere rilevare, in questo come in molti altri casi analoghi, l’arrogante forzatura della storia a sostegno di tesi preconcette, la negazione disinvolta degli eventi finalizzata all’accreditamento di concezioni acritiche, di un credo, in questi casi pedagogico, che si vuole ad ogni costo unico ed indiscutibile. Poco importano le ragioni di tali operazioni, che si potrebbero sospettare a sostegno di una battaglia condotta contro il predominio della trasmissione del sapere fondata sullo studio di testi scritti o a sostegno dell’immagine di una scuola “aperta al sociale” e non più concentrata su un insegnamento di carattere specialistico. Importa però -e dà perfettamente conto del livello a cui si è giunti- che si stiano compiendo sistematicamente e che sia possibile trovarle in testi universitari, in manuali imposti per la preparazione della parte istituzionale, dove sarebbe lecito aspettarsi opere sobrie ed equilibrate, in grado di fornire un’immagine della disciplina condivisa dalla comunità scientifica di riferimento. Mistificare l’immagine storica del passato costituisce una grave responsabilità intellettuale, perché attenta alla nostra memoria ed alla nostra identità culturale. E’ una forma di attacco alla libertà intellettuale ed al pensiero critico meno eclatante del bruciare i libri, ma a questo molto simile nelle motivazioni, perché ha lo stesso scopo di eliminare ciò che è difforme dalle proprie convinzioni, quanto appare irriducibile ai propri dogmi.

In un clima culturale di tal genere risulta sicuramente prioritario, per dei docenti impegnati nella salvaguardia della loro dignità professionale, ma anche e soprattutto nella difesa dei valori intellettuali e civili insiti in un insegnamento e in una scuola in linea con i loro compiti istituzionali, concentrare le maggiori e migliori energie sul piano della battaglia culturale, al fine di tentare di spezzare l’attuale monopolio delle dottrine sostenute ed imposte dalla “casta di pedagogisti” di matrice sindacal-ministeriale. Una battaglia che deve essere evidentemente condotta nelle singole scuole e nella prassi didattica quotidiana, ma non deve trascurare per nessuna ragione i luoghi di formazione e di aggiornamento, soprattutto là dove si preparano i nuovi insegnanti, per contrastare l’ennesimo tentativo di giungere, anche per questa via, all’eliminazione radicale dell’eterogeneità culturale e del pensiero critico dei docenti, in una parola alla loro libertà d’insegnamento, e, con essa, alla possibilità di una scuola libera, dignitosa e culturalmente qualificata.   

      

 

 

 

 



[1] I cui Atti vennero pubblicati in AA.VV., La scuola italiana tra delusione e utopia, a cura di Dario Generali e Fabio Minazzi, Padova, Edizioni Sapere, 1996.

[2] G. Pacchiano, Di scuola si muore, Milano, Anabasi, 1993 e Milano, Feltrinelli, 1998.

[3] F. Minazzi, Socrate bevve la maieutica e morì, Milano, Colonna Edizioni, 1997.

[4] L. Russo, Segmenti e bastoncini. Dove sta andando la scuola?, Milano, Feltrinelli, 1998 e 2000.

[5] A. G. Biuso, Contro il Sessantotto, Napoli, Guida, 1998.

[6] F. Polacco, La cultura a picco, Venezia, Marsilio, 1998.

[7] Su questo si veda L. Russo, op. cit., II ed., pp. 134-38.

[8] Fra i quali mette sicuramente conto ricordare Anna Balducci e la sua opera di valutazione critica delle infinite irrazionalità del processo riformatore illustrate sull’inserto Azienda scuola di «Italia Oggi».

[9] L’intero documento può essere scaricato direttamente dal sito www.novaspes.org mentre una sua sintesi, a cura di Alberto Giovanni Biuso, è in corso di pubblicazione su «il Voltaire», 2000, 6.

[10] Su questo si veda F. Minazzi, Il Fondo d’istituto: una normativa “esecranda e sputacchievole”, «il Voltaire», 1999, 1, pp. 132-33.

[11] Milano, Franco Angeli, 1999.

[12] Per l’illustrazione del tentativo compiuto dall’apparato in tal senso durante i corsi di formazione delle funzioni obiettivo a Milano si veda  A. G. Biuso - D. Generali, Il corso di formazione delle “Funzioni Obiettivo” della Provincia di Milano, «il Voltaire», 2000, 5, pp. 13-22. 

[13] Ivi, pag. 22.

[14] R. Mantegazza, Filosofia dell’educazione, introduzione di Riccardo Massa, Milano, Bruno Mondadori, 1998.

[15] Ivi, pp. 19-21.

[16] W. J. Ong, Oralità e scrittura, Bologna, Il Mulino, 1986.

[17] Ivi, pp. 19-21.

 

 

ALLA RICERCA DI UN’ETICA PER LA SCUOLA

di Stefano Corsi

 

Al di là dei contenuti e dell’organizzazione di una Riforma dei cicli per molti versi blindata fin dall’inizio del suo iter parlamentare, il tema della disciplina, da elemento apparentemente collaterale ha assunto un ruolo di centralità ideologica. Ne è espressione lo Statuto dello studente che nasce come una dichiarazione dei diritti, sensata nelle sue intenzioni e nelle sue premesse ma decisamente discutibile  nell'articolazione complessiva. Infatti non può passare inosservata la notevole estensione dell’articolo 2 sui diritti e l’evidente esiguità dell’articolo 3 sui doveri. Il lettore, fiducioso, è portato a pensare che l’articolo successivo, il 4, che si occupa esplicitamente della disciplina, recupererà l’omesso. Leggendone il suo ampio contenuto ci si accorge invece che l’estensione è dovuta alla premura del legislatore di rassicurare lo studente sui meccanismi garantisti che dovranno scongiurare  le possibili sanzioni. E’ nota la discussione che recentemente è stata aperta da qualche giornalista non distratto, sullo stato delle regole nella scuola. E' difficile non notare il cambiamento di clima che nella scuola si respira da qualche anno. Si possono avere varie opinioni al riguardo ma è indubbio che il rapporto che un insegnante è chiamato ad  instaurare con gli studenti si dovrebbe sviluppare su un terreno delimitato da regole che riconducano costantemente l’uno e l’altro alla coscienza di appartenere alla società. Il diritto del cittadino studente invece sembra non coniugarsi con il dovere che egli ha di prepararsi  per un ruolo futuro di pubblica utilità. Tutto questo per la demagogia che ha fatto della scuola una zona franca, avulsa dalla società civile, quella scuola che assomiglia più ad un supermercato e che è stata ben riassunta dalla definizione "scuola dello studente cliente". Ho sempre pensato che il cittadino studente e il cittadino docente, per il solo fatto di essere in quel terreno comune, la scuola, in cui di volta in volta ci si riappropria del senso delle regole civili, le si rimettono in discussione, se ne ripercorrono le implicazioni profonde, finiscano per instaurare, consapevoli o no, una sorta di complicità: la complicità di chi, anno per anno, di volta in volta, trasforma le regole in valori personali. Ma perché il superamento avvenga, la scuola deve avere, essa stessa, delle regole e, soprattutto, chiare. Non mi pare sia il caso di quelle di cui si parla nello statuto dello studente. Appare chiaro che, mentre il mondo del lavoro ha regole e selezioni sempre più ferree, la scuola è sempre meno adatta al suo compito.

Fu a partire dagli anni ‘80 che cominciarono ad essere frequenti i casi di ricorso al TAR di studenti e famiglie che contestavano l’esito di uno scrutinio. Quei ricorsi avevano quasi sempre un esito sfavorevole per chi li aveva promossi ma tale pratica fu sufficiente per scoraggiare gli insegnanti a palesare l’effettivo profitto dello studente. Le promozioni sempre più facili in questi ultimi anni sono le conseguenze di una volontà politica che, attraverso il ministero, nel tempo, ha fatto pressione sui presidi. Poiché le promozioni dovrebbero essere il frutto di una scuola che dà a tutti i cittadini il massimo delle opportunità culturali, se i meccanismi che le producono non sono credibili, non possono che esprimere l’incapacità della scuola di essere all’altezza dei suoi obiettivi. Pare evidente che ci si occupi più della facciata dei dati e delle percentuali, adatte formalmente al palcoscenico europeo, che della effettiva sostanza. E’ la demagogia di chi, attraverso gli organi collegiali ha assegnato e va assegnando a genitori e studenti poteri impropri che confondono i ruoli e che sono destinati ad abbassare non solo il livello professionale della scuola ma anche il suo senso etico. Quante volte si è sentito accusare di scarsa sensibilità civica i genitori per la mancanza di partecipazione alle elezioni degli organi collegiali! Non ci si domanda perché l'adesione a questi organi sia del tutto marginale. Si individuino e si rimuovano le ragioni che rendono virtuale la democrazia in quelle occasioni in cui serve davvero ma si faccia anche una netta distinzione di funzioni nel rispetto delle competenze di ciascuno. Non si può ripartire lancia in resta, modificando percentuali di appartenenza delle varie componenti della scuola a questo o a quell’organo, o, addirittura moltiplicarne il numero.

Infine un'ultima considerazione sul problema dell'assenteismo degli studenti a scuola. Tra breve esso andrà assumendo sempre di più il carattere di un'emergenza: è nota ormai la sempre più diffusa pratica delle assenze collettive nella scuola superiore. Già ora, a livello di commissioni sui cicli, si comincia a pensare ad una soluzione. La filosofia che la ispira è la stessa che guida lo spirito della riforma. Si arriverà ad assegnare dei punteggi, paralleli a quelli del profitto, in base alla frequenza, che potranno essere esibiti nel libretto personale alla fine della scuola. Il fenomeno delle assenze dipende dal successo scolastico garantito e non saranno certo dei punteggi fine a se stessi a risolverlo. Quanto a capacità di deterrenza siamo vicini allo zero mentre la formazione del cittadino appare sempre più improbabile.