SPERIMENTAZIONE, INCHIESTE ED ALTRO…

 

La riforma avviata in 251 scuole dell’infanzia ed elementari, a seguito dell’applicazione della circolare n° 101 del Settembre 2002, ha compiuto un anno di vita.  Un anno sperimentale, si è detto. Cioè  un periodo nel corso del quale si sarebbe dovuta  confermare o smentire  la bontà di alcune  ipotesi iniziali, per potere, se del caso, procedere a delle variazioni di rotta. Verificando parallelamente – come è o dovrebbe essere ovvio - la reale praticabilità  dei metodi e dei percorsi ipotizzati, cosa che ci rimanda allo specifico professionale, cioè al nostro fare scuola.

Ma quali sarebbero – secondo la lettura dei numerosi documenti diffusi dall’amministrazione - le ipotesi di partenza?  E in quale caso esse dovrebbero essere confermate come buone?  Le ipotesi di partenza sembrano essere riconducibili ad una rosa di termini relativamente contenuta: flessibilità, personalizzazione, continuità, documentazione-certificazione, co-partecipazione, tutoraggio.  Per quel che riguarda la loro bontà, il discorso diviene estremamente complesso, se consideriamo che gli effetti-risultati reali dell’istruzione-educazione sono solo parzialmente leggibili a breve e che, in ogni caso, solo la società può misurarli.

Si rilevano, leggendo la recente relazione di sintesi sugli esiti della sperimentazione condotta dal MIUR, alcuni elementi vistosi. A parte l’impostazione burocratica dell’indagine, totalmente appiattita sul quanto (quante e quanta parte delle indicazioni nazionali sulla riforma hanno trovato applicazione nel corso di quest’anno?), non poco sconcerto deriva da quella che, di primo acchito, sembra una macroscopica eterogenesi dei fini. Gli strumenti, i percorsi, le strategie che abbiamo prima citato come ipotesi di partenza (flessibilità, ecc.), da verificare in corso di sperimentazione,  perdono il loro connotato strumentale, ponendosi  come fini ultimi. Non a caso l’indagine sfocia in un giudizio positivo: “La sperimentazione effettuata nell’anno in corso… coerente con l’impianto strutturale della riforma… ha completato con esiti positivi il suo ciclo annuale”. In altre parole: si considera che il fine sia stato raggiunto in quanto gli strumenti messi in atto per conseguirlo sono stati, sia pure non totalmente, attivati. Miopia dell’amministrazione? Incapacità di porsi delle domande di senso? O lucido disegno?

Proviamo a guardare la cosa in un altro modo. Se componiamo in mosaico i tasselli della flessibilità, della personalizzazione e via dicendo otteniamo una scuola che costruisce dei percorsi flessibili, individualizzati…, mi correggo,  troviamo un insieme di soggetti eterogenei che costruiscono per ognuno dei percorsi flessibili ed individualizzati,  minutamente annotando nel librone di ogni vita fatti e misfatti, prove e controprove in  un tracciato unitario e continuo che non vede stacchi, né oblii… . L’insieme si disintegra in infiniti insiemi i cui elementi variabili sono due: l’allievo e la famiglia. Il gioco diviene così privato ed inevitabilmente emerge la dimensione degli interessi particolari, tanto più piccoli e meschini quanto più forte è il crollo dei valori, sia pur borghesi (responsabilità, merito, …) che, bene o male, la scuola ha trasmesso in passato.

Ma se il gioco ha da essere privato, non esistono fini altri e alti e quella che, nell’indagine, appare come un’eterogenesi dei fini, non è tale in realtà, perché flessibilità, personalizzazione e via dicendo sono valori in sé in quanto soddisfano il particolare.   L’unico valore che la scuola funzionalistica e strumentale di oggi sappia darsi. 

Ci troviamo di fronte ad un dogmatismo piatto, mercantile, utilitaristico. Un dogmatismo sul cui fronte non si rilevano differenze politiche e sulla base del quale la stessa indagine sugli “esiti della sperimentazione” perde ogni connotato di ricerca per divenire altro ed ulteriore luogo di indottrinamento.

Un’occasione perduta, poiché l’analisi rifugge da ogni seria  analisi critica ed  elude ogni interrogativo sugli esiti ultimi e non irrilevanti che si possono produrre soprattutto nel momento in cui il sistema pubblico di istruzione ingloba scuole statali e scuole private, confessionali e non.

La recente inchiesta sulla sperimentazione condotta da Professione docente (Inchiesta sulla sperimentazione della legge 53/28 marzo 2003- vedi Sito Gilda: www.gildains.it), oltre a soffermarsi sulle innovazioni più rilevanti della riforma (la funzione del docente tutor, il portfolio e la sua stesura, l’azione della famiglia dentro la scuola, l’individualizzazione dell’insegnamento) ben ha messo in evidenza il grosso rischio in cui incorre la scuola pubblica statale.

L’indagine, scrive Renza Bertuzzi, ha mostrato una differenza radicale tra scuole paritarie e scuole statali, in un certo senso inaspettata e probabilmente precorritrice di una mutazione genetica della fisionomia della scuola pubblica, mutazione non certamente auspicabile e forse esiziale per la tenuta della scuola pubblica e laica. Le scuole paritarie difendono l’autonomia della scuola dai genitori. Infatti, queste scuole elaborano un progetto educativo che risponde alle tendenze culturali e religiose della scuola. Si tratta di una proposta educativa che viene presentata ai genitori. I quali ne prendono atto e decidono se accettarla o meno, iscrivendo o non iscrivendo i loro figli. Una volta fatta la scelta, il genitore non può intervenire nell’azione educativa e culturale….”  Egli  affida  così il proprio figlio alla scuola. 

Nelle scuole pubbliche paritarie, flessibilità, individualizzazione e quant’altro si collocano dunque all’interno di una cornice ricca di senso (condivisibile o meno che esso sia) e recuperano la loro funzione  strumentale, divengono il mezzo educativo, non il fine.  Basandosi sui risultati dell’inchiesta, il ruolo del genitore non sembra essere  quello di un committente che impartisce al precettore istruzioni per e sull’educazione personalizzata del figlio, controllando periodicamente gli esiti dell’azione svolta,  ma di colui che partecipa  coaudiuvando l’azione educativa svolta dalla scuola.

Quali possono essere – e tra non molto – gli esiti del processo di trasformazione divergente che investe la scuola pubblica statale e la scuola paritaria?

E’ forse apocalittico preconizzare la fine della scuola pubblica statale?

Di certo il pericolo è reale e concreto, ma molto dipende anche dalla percezione che l’insegnante ha di sé, dalla sua auto-rappresentazione. E  dallo spessore  che riesce ad assumere l’intero corpus professionale.

L’insegnante deve trovare spazi, luoghi e modalità per rafforzare il proprio “diritto di voce”. Con la creazione di un CONSIGLIO SUPERIORE DELLA DOCENZA  (obiettivo politico a cui la GILDA sta da tempo lavorando), che rappresenti i docenti ai più alti livelli istituzionali. E con l’immediata  elezione  -  fra le funzioni strumentali che saremo chiamati ad identificare a settembre - di un COORDINATORE DEL COLLEGIO, che curi l’indispensabile fase istruttoria di questo organismo, assumendo la funzione di portavoce dei colleghi.

Sono piccoli, ma importanti passi nella direzione buona.

Che è poi quella di una scuola che non si limiti a rimandare l’eco confusa  delle mille voci del melting pot italiano, ma abbia una voce propria: la voce di un corpus professionale cosciente di sé e della propria funzione sociale.

 

Serafina Gnech

Centro Studi Gilda

 

1. Basti, a questo proposito, leggere la parte relativa al portfolio, in cui, a parte qualche cenno  alle modalità utilizzate nelle scuole oggetto di indagine, si è continuato ad insistere, direi quasi sull’ appeal  di quest’ “opera corale, multiprospettica, intersoggettiva”, che diviene “occasione di formazione per i vari soggetti”,  e che, “venendo a far parte della stessa esperienza educativa”, favorisce“la conoscenza dei processi delle risultanze, della loro incidenza riguardo all’autopercezione sia da parte degli allievi che dell’insegnante, inducendo a porsi interrogativi sia sull’oggetto dell’insegnamento che dell’apprendimento e sui riflessi che esso ha sulla identità del docente e dell’alunno”.