Soliloquio
di un preside: un
intermezzo “quasi” narrativo .
-
Signor Preside... il Provveditore la cerca: dice che è urgente.
- Avesse almeno detto “dottore”, invece no, la
Mary usava sempre quel termine stantio, che sapeva di muffa, della vecchia
scuola.
Lo colse un leggero senso di fastidio. Poi si guardò
intorno. C’era di che essere soddisfatti, dopo tutto. Il duemila non era
cominciato male. Sulla scrivania, di mogano lucido, degna di un manager,
facevano bella mostra di sé i fascicoli freschi di stampa del nuovo POF
d’Istituto. Erano costati un bel po’ di soldi, perché era stato
necessario l’intervento di un grafico e la carta era di quella costosa. Per
non parlare della copertina plastificata e delle foto colorate delle attrezzature
e dei laboratori che la scuola metteva a disposizione.
Tutto stava assumendo le caratteristiche di
un’organizzazione efficiente, che si muoveva su binari rigidamente
predeterminati, come si conviene ad un’azienda di successo.
Sui pannelli di panno verde, che tappezzavano le pareti, spiccavano i fogli bianchi che indicavano la programmazione quadrimestrale dei docenti di ogni materia. Veramente lui la programmazione avrebbe voluta farla annuale, ma qualcuno gli aveva fatto notare che c’erano ancora un sacco di supplenti. Poco male. Ora ogni studente sapeva con esattezza - perlomeno per quattro mesi - che cosa avrebbe fatto il giorno X, conosceva con largo anticipo le date di tutti i tests formativi e sommativi.
Il
Preside, pardon il Dirigente, si sfregò le mani con soddisfazione.
In fondo, tutto era stato abbastanza semplice. Anticipare, quello era stato il suo segreto. Gran maestro, in questo, Berlinguer. I docenti sono refrattari al cambiamento? Non importa, lasciamoli discutere, organizzare convegni e seminari, sfogare i loro logorroici istinti e intanto noi cominciamo: pezzetto oggi, pezzetto domani – tutto dignitosamente all’insegna della sperimentazione – ed introduciamo la riforma. E loro, troppo occupati a discutere, manco se ne accorgono. E comunque quando se ne accorgeranno sarà troppo tardi.
Il problema era quello che gli insegnanti ti sfuggissero di mano, soprattutto i “maestri” della vecchia scuola, i docenti-intellettuali che si arroccavano alla loro autonomia professionale come ad una bandiera da difendere. Ma bastava isolarli e comunque c’erano i nuovi, con molto meno puzza sotto il naso e ancora vergini, per così dire. Con loro era abbastanza semplice. Quasi tutto passava all’insegna della normalità.
Il dirigente calcolò mentalmente quanti anni mancavano al grande esodo, quello dei docenti della vecchia generazione. Non molti: 6 o 7 al massimo. Dopo, tutto sarebbe scorso liscio come l’olio.
E poi c’era la burocrazia. Aveva odiato per lunghi anni quel mostro priva di identità, quel nemico invisibile, contro il quale non ci si poteva ribellare. Ora ne aveva colto le potenzialità.
Fra presidi discutevano spesso sul come si dovesse agire sui docenti. Farli controllare dai genitori e dalle famiglie. Certo quello era un sistema, ma che funzionava in modo parziale. Sottoporli ad ispezioni, ripristinare le note di qualifica messe nel cassetto da lunghi anni? Tutti ottimi strumenti, ma le cose sarebbero andate per le lunghe, avrebbero provocato reazioni di massa, richiesto un riassestamento del sistema. Bisognava invece agire subito. Ma lui era un uomo attento, con innegabili doti strategiche, e sapeva individuale il grimaldello che avrebbe rimosso l’ostacolo.
E il grimaldello - la cosa gli era apparsa ad un certo punto di una chiarezza lapalissiana - poteva essere proprio la burocrazia. Non si trattava di agire dall’esterno ma, per così dire, dall’interno, ponendo sotto controllo il processo.
Doveva essere sincero con se stesso: l’idea non era
proprio tutta sua. L’illuminazione gli era venuta leggendo un libro. Gli era
piaciuto tanto che aveva mandato a memoria un intero pezzo: “E’
giunto il tempo di abbandonare la concezione dell’insegnamento come
“vocazione” e di farne un vero mestiere, che implica la padronanza e
l’attuazione di un insieme sistemico di regole specifiche. Un buon insegnante
non avrebbe quindi più bisogno di riferirsi a un determinato modello
normativo, dal momento che gli sarebbe sufficiente diventare una specie di tecnico
della pedagogia, rispettoso dei compiti e delle consegne che gli vengono affidati.
Una simile prospettiva renderebbe molto più facile la lotta contro il
disinvestimento degli individui, poiché l’indipendenza non avrebbe più
ragione d’essere e il problema si porrebbe nei medesimi termini in cui si
pone in una qualsiasi impresa o azienda” (Alessandra Cenerini,
Rosario Drago, Professionalità e codice
deontologico degli insegnanti, Erickson, p. 173).
Parole sante, avrebbe detto la buonanima di sua nonna, che comunque definiva tali tutte le asserzioni avanzate con una certa autorità. Ma in quel caso di parole sante si trattava davvero. L’autonomia spettava alla scuola, non certo al singolo docente. Schegge impazzite di un sistema obsoleto: ecco cosa erano diventati gli insegnanti degli ultimi due decenni.
Certo, controllare le fasi del docente-tecnico non era facile come controllare le fasi di lavoro del tecnico di un’industria qualsiasi. Ed era proprio qui che veniva in aiuto la burocrazia.
Se non si poteva controllare, si dava la direzione, si indicavano modalità, strumenti, tecniche e tempi di lavoro.
La cosa non richiedeva nemmeno troppo tempo. Una volta individuata la strategia, bastava pescare nelle fecondissima produzione dei pedagogisti ministeriali ed individuare gli strumenti di volta in volta più idonei.
I docenti dell’Istituzione producevano ora una mole cartacea senza precedenti. Prima di ogni test, di ogni consiglio di classe e di ogni scrutinio, indicavano meticolosamente sui moduli predisposti gli indicatori usati, gli strumenti, i tempi. Tutto era sotto controllo.
Era una mole cartacea pronta per il macero nel momento stesso in cui veniva prodotta - si guardava bene lui, o chiunque altro per lui, dal leggere tutta quella roba - ma il sistema funzionava, eccome. Funzionava come un anestetico, poiché allontanava da tentazioni intellettuali ormai inutili e démodés e teneva la gente occupata nella giusta direzione, quella richiesta dal Sistema, s’intende.
Nessuno avrebbe potuto negare che i suoi dipendenti rigassero ora diritto, e che l’Istituzione funzionasse perfettamente come un orologio svizzero.
A tal punto che non aveva nemmeno avuto bisogno di introdurre il “cartellino” d’ingresso.
Era proprio un buon inizio secolo.
Quanto alla Mary, glielo avrebbe detto – e al più presto – che il vocabolario andava di tanto in tanto aggiornato. Sarebbe stato cauto, dopotutto si rivolgeva ad una dirigente amministrativa, ma insomma le avrebbe fatto notare che di “presidi” non si parlava ormai più.
Perlomeno nessun dizionario dell’autonomia ne registrava l’esistenza.
a cura di Se. G.
Docente
“tecnico”, puro esecutore di direttive elaborate altrove da altri, o
“maestro” provvisto di autonomia professionale?
L’ANP (Associazione nazionale presidi) sembra non avere dubbi.
La
parola spetta ora ai docenti.
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