Dove va la Scuola oggi? Se L' Italia piange, la Spagna non ride
Riportiamo un intervento, a firma di Edoardo Zamarra, apparso sulla lista "lettorit2003"
(http://groups.yahoo.com/group/lettorit2003/), dal titolo Se un professore scrive
Lo scrittore e giornalista Juan José Millás ha scritto un breve ma istruttivo articolo, Profesores, sull’ultima pagina di El País del 18 giugno. Lo traduco qui di seguito integralmente.
Professori
Un professore di scuola ha pubblicato domenica scorsa su questo giornale una lettera al direttore nella quale sollecitava ironicamente il perdono di tutti noi per "aver mal speso la mia vita seguendo un corso di studi, facendo un dottorato e preparando un concorso mentre gli altri si preparavano sodamente un avvenire".
Emilio Garoz, questo è il suo nome, chiedeva scusa per non aver capito che le scuole “non sono luoghi dove si va per apprendere, ma asili infantili, e che la mia funzione non consiste nell’insegnare, ma nel prendersi cura dei figli delle persone che svolgono sì un lavoro produttivo e benefico per la società”. La lista di errori includeva quello di non promuovere gratis et gratia gli studenti, così come quello di “non saper sopportare il disprezzo, l’umiliazione e l’insulto giornaliero”. Concludeva chiedendo scusa “ per non aver saputo accettare umilmente la mia situazione di mancanza di prestigio sociale; per non aver saputo accettare che sono un parassita, un cittadino di seconda categoria, uno scarto sociale...”. La lettera, come si vede, era in realtà uno specchio.
Non conosco Emilio Garoz, ma temo che si trovi al bordo della depressione, la malattia più estesa tra gli insegnanti. Molte volte, cercando di comprendere la situazione dei professori, li immagino abbandonati in un territorio ostile dal quale tutti hanno disertato. Privati d’autorità dalle famiglie, mal pagati dallo Stato, disprezzati o odiati dagli studenti, gli si chiede che non diano fastidio, che fingano che tutto vada bene, per non alterare la routine dei genitori, dei sottosegretari o degli stessi alunni, occupati in cose più serie che quella di rispondere alle richieste di questa banda di idioti. Che cosa mai si può sperare, alla fin fine, da qualcuno che ha deciso di dedicare la sua vita
all’insegnamento?
Se qualche giovane esprimesse a casa il desiderio di diventare maestro, i genitori correrebbero con lui dallo psicologo per vedere che idee malsane gli frullino in testa.
In pratica, abbiamo delegato il compito di costruire il futuro a dei professionisti che meritano solo il nostro disprezzo. Siamo veramente matti da legare. La lettera di Garoz è il grido disperato di chi ha perso già ogni speranza. Il problema è che assieme alle sue speranze va in malora il futuro.
Io non credo che Emilio Garoz sia sul bordo della depressione, nonostante il tono della lettera. Al contrario, si trova su quello della liberazione, che è il prodotto della reazione acida tra la sua intelligenza critica e coraggiosa (perchè ci vuole coraggio a uscir fuori dall’ipocrisia del tutto va bene che non ci fa sentire degli isolati o dei reietti) e la realtà quotidiana che l’attacca e la vorrebbe demolire come una ruspa. Una liberazione camusiana, il no al tran tran di sempre e alle sue catene.
La lettera del professore scopre il punto di sfacimento socio-culturale a cui è oggi pervenuta quella società europea scossa dai giorni di maggio del 1968. La condizione di Emilio non è solo spagnola o solo italiana, è europea. Forse nei paesi latini si nota di più per l’estroversione che li caratterizza, ma il fenomeno è generale e profondo.
In questi ultimi decenni si è prodotto un divorzio epocale tra Sapere e Potere, come non mai. Non che i rapporti siano mai stati facili. La linea socratica della cultura ha dovuto incrociare e misurarsi con quella che Gramsci definì a suo tempo la cultura organica e che ha dato il meglio di sè non nel Novecento (sovietico o meno), ma nel Settecento, con l’Illuminismo riformatore.
Dal maggio di quell’anno in poi siamo però entrati in una fase completamente nuova. Il '68, pur nella eterogeneità dei movimenti e dei fini, contestava nelle università un Sapere divenuto puro Potere replicativo, snaturato nella sua essenza, privo di libertà, oppressivo perchè querulo grillo parlante della conservazione e della divisione del mondo per blocchi contrapposti. Che cos’era, altrimenti, oltre cortina, la Primavera di Praga se non un cambio possibile nello status quo della stagnazione politica e la decompressione di un sapere nuovo quale ideale frutto di un nuovo modello di vita collettiva e d’azione?
Da quel periodo chiave la scuola non è stata più la stessa. Il che non è affatto un giudizio di valore sul prima rispetto al dopo, ma un semplice dato di fatto.
La contestazione, sconfitta in politica nel momento in cui si faceva rivendicazione più strettamente ideologica e ideologico-politica, vinceva la sua battaglia nelle sovrastrutture culturali, scuola e università (libero accesso ai corsi di laurea, decreti delegati, maggiore diffusione dell’istruzione secondaria, ecc.). Le intenzioni erano buone, ottime: il sapere al centro e le connessioni con la politica e il potere rese chiare, manifeste, criticabili, emendabili. Il problema è che proprio in quegli anni, dietro questa spinta in sè positiva, declinava, per contraccolpo, il prestigio o la considerazione sociale degli insegnanti come intermediari del sapere. La Politica prendeva il suo volo partendo dal suo divorzio con il Sapere e i suoi centri nevralgici (scuole, università, istituti di ricerca scientifica, innanzitutto) e riscopriva una propria cultura, conservatrice in essenza, perchè
tesa all’autoriproduzione referenziale, alla giustificazione autofondante trovata nella (nobile?) necessità della tutela e della guida della comunità.
L’intellettuale, parallelamente, non era più l’interprete critico delle situazioni, ma l’anello intercambiabile del sistema, il (banalizzato) pubblicista o pubblicitario di quella cultura politica, sempre la stessa nei meccanismi riproduttivi di fondo, mutatis mutandis.
Ma se qui si dice Politica, in realtà si dice Economia, che è come la Fortuna per Machiavelli: una donna da battere, colpire per farla interessatamente nostra, che ama gli intrepidi, gli spregiudicati, le menti ingegnose e volitive. Fuori di metafora, non è più vero da tempo che chi non termina gli studi, chi non ha una preparazione universitaria non possa avere successo, e anche grande, nella vita. L’odierna “offerta formativa” delle scuole è, anche nel linguaggio di certa pedagogia à la page, un mettersi sul mercato dell’avere, non su quello, inesistente, dell’essere.
Agli occhi di una generazione, la figura del professore è diventata in apparenza superflua e il modo di reclutamento dei docenti, spesso volutamente ope legis, ha non solo squalificato e terremotato ulteriormente la categoria, ma l’ha divisa demagogicamente. È sotto gli occhi di tutti che il professore che si aggiorna o autoaggiorna sia visto con diffidenza, invidia o astio da chi, una volta entrato nella scuola, si rende la vita facile e comoda assecondando studenti e genitori, per i quali la scuola è ora un residuo retorico del passato (e l’esaltazione, meschina nei termini e anche nei fini, della formatività del liceo classico fatta dai poteri politici e mediatici, asseconda bellamente questa visione) che bisogna scuotere e colpire senza scrupoli per conseguire la propria machiavelliana fortuna, il diploma che ci rende uguali nella forma, lasciando che la diversità classista, donna miope, operi in seguito, con il supposto riconoscimento dei suoi.
Il docente che non si arrende, è il caso dei tanti Emilio Garoz dei nostri istituti, di molti di noi, viene condannato all’interdizione sociale....
In vent’anni sono passato da una convinzione ad un’ altra, diametralmente opposta.
Prima pensavo che l’insegnante, figura drammatica in sè per essere formatore e giudice nello stesso tempo, dovesse essere il punto di riferimento degli studenti e che il suo successo si misurasse con il successo degli studenti. Ora penso il contrario, che l’insegnante, già così bistrattato nonostante il suo impegno e i suoi sforzi, non può far la fine di Don Chisciotte e diventare una persona patetica, e infine ridicola, sulle note di un De profundis. I mulini a vento, è chiaro, sono gli studenti, a cui bisognerà togliere le cataratte dagli occhi (le zeppe che rendono impossibili i movimenti delle pale quando c’è vento) come diceva un illuminista (Voltaire, se ricordo bene), ma solo se vorranno farsele togliere. Gli “esperti”, i “pedagogisti” che sostengono il contrario in convegni o riunioni fuori o dentro le scuole sostituiscono una visione chimerico-ideologica, proposta a persone
socialmente disorientate e preoccupate, a una realtà effettuale molto diversa, che non ha bisogno di bei ma inservibili discorsi profetici (savonaroliani, seguendo Machiavelli), ma di reagire con vigore contro la deriva, evitando gli errori di prospettiva, di strumentazione e di visione conseguente che rendono il lavoro dell’insegnante un vuoto prodotto metafisico, valido, scriveva Nietzsche, come può valere, ad un capitano su una nave di lungo corso, l’analisi chimica dell’acqua.
Nei tempi antichi il pedagogo, il maestro era uno schiavo colto o coltissimo (Panezio, Epitteto...), pagato a peso d’oro, ma, ovviamente, senza diritti civili, inferiore socialmente al suo alunno. E il dominus, il pater familias, vegliava che il figlio non ne approfittasse e ricevesse una buona cultura e una buona educazione utile per i suoi successi a venire. Ora non più.
I docenti come Emilio Garoz sono d’impaccio. Il futuro può fare a meno di loro. Anche la società. Eppure il Sapere ha la sua virtus, cioè quella forza, quella capacità, quella temperanza che apprezzava il Segretario fiorentino. E sa aspettare paziente anche nell’ombra, anche al buio.
Il Professore (non il professionista della chiacchiera che è il clone fasullo che molti studenti cercano, per cullarsi ed essere cullati nella loro insipienza demagogica, indotta dagli adulti) non può più pretendere o andare in cerca di un riconoscimento e di uno status che non ha storicamente più. Deve guardare al futuro che lo attende, ad una sorta di nuovo, suo '68, che dovrà completare il primo. Un '68 kantiano, con tanto di rivoluzione copernicana: non più l’oggetto pedagogico, l’alunno, al centro del problema della conoscenza, ma il soggetto pedagogico, il maestro, insomma, con le sue abilità conoscitive da trasmettere.
Non un Re Sole, attenzione, che è persona del vecchio potere e della sua miserevole teoresi. Non si tratta di tornare alle vecchie e sbagliate gerarchie pedagogiche dei secoli trascorsi che ci hanno portato alla situazione attuale.
Il professore è tale, in breve, se trova in sè i motivi generali, non contingenti, di quello che occorre realizzare a scuola perchè questa abbia un senso. Non, quindi, questo o quello perchè serve, non questo o quello perchè agli studenti fa piacere o interessa (il più delle volte superficialmente), ma perchè quella particolare, ipotetica opzione è legittima e legittimata in sè dalle coordinate culturali storiche e astoriche, autonome e non eteronome, del sapere. Bisognerebbe dirlo a Emilio e ai tanti di noi che vivono quello che vive lui. Siete i migliori: voi e la vostra forza siete il premio a voi stessi. Il disprezzo che ricevete è il disprezzo che ricevette Socrate: ricadrà sul mittente, come una immagine riflessa in uno specchio. Non siete la o alla periferia dell’Impero, siete il motore dell’Impero e i motori, in genere, non si vedono, lavorano al buio, coperti, ingabbiati, eppure sono là e se non girano più è finita per il corpo, è finita per lo spirito che ora chiamiamo futuro.
Edoardo Zamarra