Cultura e libertą nella formazione del docente. 

Il dialogo tra i componenti della Commissione per il “Riordino dei Cicli scolastici” č stato,  durante tutta l’estate,  ricco e stimolante.

Se č difficile com-prendere  la varietį di prospettive ,  immagino sia improbo il lavoro di chi ha il compito di ridurre ad una o poche unitį i  discordanti interventi. Cosķ  appare  pressoché impossibile scegliere un indirizzo che contraddistingua l’impostazione di ognuna delle tante commissioni.

Per questo le mie riflessioni sulla “professionalitį docente”, pur concordando in diversi punti  con i contributi di alcuni componenti  e divergendo con altri,   partiranno dal documento  “Appunti di lavoro per l’attuazione del riordino dei cicli”.

Anche se quel testo suscita alcuni dubbi e molte perplessitį, tuttavia rappresenta la dichiarazione ufficiale delle motivazioni , dei percorsi, degli obiettivi di questa Riforma.

Dicevamo le perplessitį.

In primo luogo, il discorso sulla “dispersione scolastica”.

Ancora una volta la problematica č assolutizzata, presentata come effetto di una Scuola che seleziona fortemente e, quindi, ingiustamente. Mentre si č  preferito non rendere conto che autorevoli studiosi , come  Giorgio Allulli , hanno piś volte  dimostrato che la nostra certificazione – molto diversa da quella di altri Paesi europei- che abilita al proseguimento degli studi universitari č posseduta da un alto numero di studenti.

Cosķ come non si č ritenuto importante riferire di validi filoni di ricerca che hanno inserito “l’abbandono scolastico” nella scelta razionale dei ragazzi e delle loro famiglie, i quali , ricevendo messaggi rilevanti dai  comportamenti dei datori di lavoro , optano volontariamente  per un futuro immediatamente lavorativo.

Mi riferisco qui alle ricerche di Antonio Schizzerotto e Luciano Abburrį i quali hanno dimostrato che, dati OECD alla mano, l’Italia ha il piś alto tasso di disoccupazione tra i diplomati e i laureati e che i differenziali di reddito tra i lavoratori dipendenti con la sola scolaritį d’obbligo, con diploma di scuola media superiore,  e con laurea sono piuttosto contenuti.

In secondo luogo, il principio della scuola , fondata sul successo formativo come diritto e sulla centralitį dello studente.

Appare una scelta imitativa dell’impianto formativo statunitense  , che non ha ottenuto soddisfacenti risultati. La deresponsabilizzazione dello studente modifica, dalle fondamenta,  il principio della scuola come luogo  delle conoscenze e della formazione dove  avviene il passaggio del sapere e delle tecniche dall’adulto al bambino , passaggio legato, in tutte le societį storiche,  a un esercizio dell’autoritį. 

Invece, in tutto l’impianto non vi č  richiamo al dovere, che del diritto č il contraltare non solo giuridico, ma anche etico.

Eppure, dopo l’esercizio dei tanti diritti, gli studenti, dopo il ciclo di base, avranno imparato non solo a conoscere e a fare, ma anche a essere e a “vivere”.

Come se non fosse vero che “Finché viviamo dobbiamo imparare l’arte di vivere”( Seneca, Lettere a Lucilio, 93,2 ) e che la pratica della vita deve contemplare, per necessitį sociale e per ineluttabilitį esistenziale, il principio del dovere.

Ciononostante,  quel  documento con cui occorre misurarsi  dichiara alcune importanti principi.

Prima di tutto che alla societį contemporanea servono soggetti capaci di svolgere, con piena competenza, un ruolo non passivo  e che quindi sappiano utilizzare tutte le risorse di intelligenza e di cultura.( pag.6 ).

Poi che “ il progetto per una formazione delle nuove generazioni “  deve contemplare una formazione    non solo diffusa, “ma anche caratterizzata da uno spessore degli studi piś forte e radicato, tale cioč da prefigurare un piś saldo profilo culturale della popolazione adulta” ( pag.8 )

Inoltre, che la scuola deve garantire una selezione mirata di conoscenze , facendo acquisire la capacitį di selezionare, decodificare, valutare, rendere sistematico quanto si acquisisce ( pag.10).

Infine,  che , dopo aver ottenuto  l’obiettivo della “scuola per tutti”, la scuola italiana č chiamata a ridefinire il suo ruolo ( pag. 10 ).

Queste affermazioni dichiarano le intenzioni politiche di questo documento : il passaggio dalla scolaritį ( educational attainement, ovvero quante persone portano a termine gli studi ) ai livelli di apprendimento ( educational achievement, ovvero quanto imparano le persone che studiano).

Allora, quale tipo di professionalitį č necessaria ad un tale condivisibilissimo progetto ? Quale insegnante č in grado di formare persone che svolgano ruoli non passivi, competenti e preparate ?

Gli ambiti di risposta risiedono  a mio parere, su  tre piani :

A)la formazione iniziale;

B)la formazione in servizio;

C)la funzione del docente.

Il piano della formazione iniziale č prioritario a tutti. In questi giorni, la Commissione interministeriale , presieduta dal professor Tranfaglia, ha pronunciato un importante “verdetto” : la necessitį , per i docenti, di percorsi di laurea specialistica ( 3+ 2+ 1 anno di tirocinio) e quindi di una salda preparazione disciplinare, contro il parere di chi riteneva sufficiente una laurea triennale  Io credo che quella decisione , che dovrį essere confermata o modificata dai Ministri interessati, sia fondamentale soprattutto per la riuscita del progetto di Riordino dei Cicli .

La discussione in atto sulla stampa e nel mondo accademico č fervida:  puó essere che le diverse proposte siano animate da interessi estrinseci, tuttavia non vi č dubbio che rappresentino soluzioni politico- culturali divergenti : l’una, l’idea che l’insegnante debba avere uno status culturale e professionale di alto profilo ( e quindi sia raffrontabile a figure professionali come   medici e  ingegneri ); l’ altra , la convinzione che il docente svolga una funzione di tipo esecutivo e che quindi debba applicare  soluzioni o decisioni da altri predisposte.

L’alternativa secca tra i due modelli risiede nell’importanza attribuita alla preparazione disciplinare specifica  o alle tecniche: al cosa si insegna, piuttosto che a come si insegna.

Sappiamo tutti che cosa distingue la cultura dall’informazione : la prima procede per  accumulazione e per approfondimenti, ha tempi  lenti di maturazione di concetti e di contenuti. Crea essenzialmente la consapevolezza che non esistono soluzioni o interpretazioni definitive e che  la conoscenza non č mai finita . Per questi motivi  diventa naturalmente critica , poiché sa selezionare, decodificare, valutare, rendere sistematico. 

La seconda, invece,  č rapida e, per questo, epistemologicamente contraria ad ogni approfondimento: quando seleziona, decodifica, valuta, rende sistematico non attua mai processi di autonomia, ma procedure applicative , elaborate in altra sede.

L’insistenza sul metodo di insegnamento , che in certe affermazioni, sembra rendere secondaria la conoscenza  delle disciplina specifica, dimentica un principio fondamentale : che l’efficacia dell’insegnamento ( e di ogni tipo di comunicazione ) non risiede nel metodo , ma nell’ethos.                              

Solo chi sia cosciente della dimensione formativa della disciplina che insegna, saprą  scegliere, in piena e consapevole autonomia,  un  metodo.

Quando la preparazione iniziale dei docenti sia  improntata a queste caratteristiche, la formazione in servizio sarą  necessariamente un momento di scambio di esperienze  culturali e  didattiche , luogo in cui la libertį didattica del singolo si armonizza,  per spontanea decisione,  con quella dei colleghi.

Allora,  la “scuola nuova”dei Cicli dovrą raccogliere grandi sfide : quella di stare al passo con altre Nazioni, europee e non, di invertire la linea di tendenza al graduale peggioramento del  rendimento della Scuola attuale  ( come hanno dimostrato le indagini Iea e quella recentissima dell'Istituto Cattaneo di Bologna), conseguenza sicuramente delle tante riforme amministrative ( abolizione degli esami di riparazione, modifica delle classi di concorso, corsi di riconversione) che hanno nei fatti realizzato una riforma silenziosa a cui č conseguito un abbassamento degli studi.

Ma occorre vincere la sfida e  applicare quel principio di tradizione repubblicana per cui , nell’assicurare un’istruzione sempre pił elevata , la Repubblica preserva se stessa , in quanto si assicura una propria capacitą di revisione razionale continua dei propri istituti , che modifica ininterrottamente attraverso le leggi.

 Per questo, non vi č che una soluzione che discende non solo politicamente dagli intenti di questa riforma, ma direi quasi logicamente.

Cittadini  in grado di svolgere un ruolo non passivo , dotati di risorse di intelligenza e cultura ( pag. 6 del Documento ) dovranno aver avuto relazioni culturali con persone altrettanto dotate.

Solo insegnanti, preparati nelle discipline che insegnano, consapevoli della valenza formativa della propria materia,  e del ruolo fondamentale che stanno svolgendo, liberi di scegliere i metodi di insegnamento, perché in grado di giudicare e valutare le innovazioni, potranno formare cittadini liberi.

Ce lo ricorda non solo la Storia, ma anche  la nostra Costituzione, all’art. 21, relativo alla “libertą di pensiero”, in cui rientra , secondo autorevoli giuristi, la libertį d’insegnamento.

Libertą di pensiero che la Corte costituzionale ha riconosciuto come la "pietra angolare dello sviluppo democratico in quanto condizione del modo di essere e dello sviluppo della vita del Paese in ogni suo aspetto culturale, politico, sociale” ( Sentenze 31 /12/ 1982, n.257 e  23/05/ 1985, n.159).  

Infine siamo convinti che  il risultato di ottenere “uno spessore degli studi piś forte e radicato” non possa procedere solo da  norme , ma debba essere conseguenza di una scelta.

La cultura, come la libertą , o č conquistata o non č .

Renza Bertuzzi