Il presente lavoro ha lo scopo di fornire un quadro informativo
d’insieme, per quanto possibile esauriente, nel momento in cui con
l’emanazione degli ultimi decreti si completa l’iter della Legge delega
n° 53 del 28 marzo 2003 (53/2003 Riforma Moratti), relativamente alla
partecipazione della famiglia alla vita scolastica, in particolare al
ruolo che essa assume nella mappa del potere che viene a ridisegnarsi
nei singoli Istituti scolastici, e alle ricadute che questo comporta
sulla professione docente e sul carattere pubblico dell’Istruzione e
della Formazione.
Una doverosa precisazione per i lettori: non è intenzione di chi
scrive formulare giudizi né politici né professionali sul materiale
informativo preso in esame, agli organi istituzionali dell’Associazione
spetta di diritto tale compito, che spero sia facilitato dalle
informazioni raccolte e presentate in questa comunicazione.
Premessa
In questo ultimo decennio il dibattito sul sistema scolastico è stato al
centro dell’attenzione di buona parte dell’opinione pubblica. Uno dei
temi centrali nel dibattito è, a mio parere, quello della partecipazione
delle famiglie alla vita scolastica, perché interessa la mappa dei
poteri che si esercitano all’interno delle scuole. Questo argomento è
stato però affrontato, dagli addetti ai lavori e dai mezzi di
informazione, con un’impostazione molto spesso ideologica e di parte (di
destra, di sinistra, aziendale, sociologica, ecc.), che ha prodotto
demagogia invece che analisi utili alla comprensione delle
trasformazioni avvenute e alla formulazione delle relative proposte di
intervento. Intendo dire che anche per la partecipazione dei genitori
alla vita scolastica, fin dai Decreti delegati del 1974, il punto di
vista che ha guidato il dibattito, e il legislatore, è stato quello
dell’interesse di parte dell’utente, che poi è diventato
cliente e infine individuo/monade, piuttosto che l’interesse
generale dell’intera società.
Nel mio breve intervento vorrei ricordare le tappe di questa
trasformazione e rilevare, alla luce di un altro punto di vista,
quello cioè dell’interesse pubblico (della società tutta),
le conseguenze di questo mutamento.
Le norme
L’intervento delle famiglie nella scuola è regolato da diverse norme:
dalle leggi istitutive e di riforma (nelle quali vengono indicati i
criteri generali), dai decreti e dalle circolari (ai quali è assegnato
il compito di fornire le indicazioni operative per attuarli).
Le principali norme oggi in vigore che regolano la partecipazione dei
genitori alla vita scolastica sono:
-
il Decreto del Presidente della Repubblica del 31 marzo 1974, n. 416,
integrato dalla
Legge 14
gennaio 1975, n. 1, dalla Legge 11 ottobre 1977, n. 748,
dalla Legge 14 agosto 1982, n. 582 ora in
Decreto
Legislativo 16 aprile 1994, n. 297 “Istituzione e
riordinamento di organi collegiali della scuola materna, elementare,
secondaria ed artistica”;
-
la Legge 15 marzo 1997, n. 59, conosciuta come legge dell’Autonomia,
con il relativo Regolamento (Decreto del Presidente della Repubblica
dell’8 marzo 1999, n. 275);
-
la legge 28 marzo 2003, n. 53, conosciuta come Riforma Moratti.
Il dibattito
Dall’attenzione che i padri fondatori della Repubblica hanno riservato
alla scuola e all’istruzione emerge che nel periodo della Resistenza e
della Costituente viene maturando la consapevolezza che alla scuola e al
“professionista della formazione e istruzione” delle nuove generazioni
(l’insegnante) andasse fornito un “mandato sociale”. La società tutta
affidava, cioè, alla “scuola-istituzione”, che doveva fondarsi sui
comuni valori nati dalla Resistenza e riconosciuti nella Costituzione,
il compito di formare e educare le nuove generazioni, la ricaduta
positiva di ciò sarebbe andata a favore dell’intera società. Era
evidente la consapevolezza dei padri fondatori della Repubblica che
l’interesse dei genitori rappresentava solo una parte dell’interesse
pubblico (di tutta la società) e che lo scolaro/studente, da questo
punto di vista, era una risorsa per l’intera comunità non solo per la
propria famiglia.[2]
Questa visione della scuola è ricordata da Umberto Margiotta quando, nel
riassumere il dibattito sulla scuola seguito alla Liberazione, rileva
che “Si comprese insomma come la scuola fosse diventata ormai il
terreno concreto su cui educare la comunità alla consapevolezza, almeno,
del vero compito cui erano chiamati i cittadini dalla liberazione e
dalla Resistenza: l’adeguamento cioè dello Stato ai principi
costituzionali sortiti dall’antifascismo e dalla Resistenza”[3]
All’interesse della società che chiede alla scuola di formare il
nuovo cittadino si deve aggiungere la consapevolezza che l’Italia
per superare le gravi difficoltà economiche e uscire dal disastro della
Seconda guerra mondiale aveva bisogno di competenze tecniche
specialistiche, che si potevano formare solo con l’istruzione. Anche
per questo secondo aspetto perciò lo scolaro/studente che la scuola
doveva preparare per il mondo del lavoro era una risorsa per l’intera
società, la quale tutta avrebbe beneficiato della sua opera, non solo
per la singola famiglia.
Questa visione della scuola, del suo ruolo come istituzione, e del
rapporto con l’interesse pubblico della società è ancora presente al
legislatore quando, nel 1962, emana la legge n. 1859 “Istituzione e
ordinamento della Scuola Media Statale”, che all’art. 1, quello delle
finalità, recita: “La scuola media concorre a promuovere la formazione
dell’uomo e del cittadino secondo i principi sanciti dalla
Costituzione”.
Nel 1968, il ministro Scaglia, di fronte alle richieste della società
civile, riconosce “il desiderio dei genitori e degli alunni di essere
sentiti”, ma precisa ferme restando “le responsabilità del Capo
d’istituto e degli insegnanti, ciascuno nei limiti suoi propri”.
Sulla spinta della contestazione studentesca e sociale di quegli anni
arriva l’emanazione dei Decreti delegati del 1974, che hanno ridisegnato
la mappa dei poteri tra le componenti scolastiche e che sono in vigore
ancora oggi.[4]
L’introduzione, con i Decreti del 1974, della “cogestione” delle
famiglie nel governo delle scuole e l’assenza, negli anni seguenti, di
una seria analisi sugli effetti prodotti da una normativa nata in
particolari condizioni storiche, ha creato pericolose ambiguità e
conflitti tra le diverse componenti scolastiche, che hanno inciso in
modo negativo sulla professione docente e in generale sulla qualità
della scuola. Prende così avvio quella trasformazione che dalla
“scuola-istituzione”, che persegue l’interesse pubblico della società,
porta all’attuale “scuola-quasi-servizio”, che persegue l’interesse dei
singoli alunni/clienti e delle loro famiglie/committenti.
Chi sperava che la nuova stagione delle riforme contribuisse a chiarire
i rispettivi ruoli per ridisegnare una mappa dei poteri, che tenesse
conto delle diverse e specifiche competenze e professionalità, non è
stato solo deluso, ma peggio ha dovuto constatare che la Riforma
Berlinguer-De Mauro si è mossa all’interno della stessa “filosofia” dei
Decreti del 1974[5]
e che con la Riforma Moratti addirittura si istituzionalizza la
prevalenza delle scelte educative della famiglia su quelle della
comunità. All’art. 1, quello delle finalità, si legge che “la
crescita e la valorizzazione della persona umana” va perseguita dalla
scuola “nel rispetto delle scelte educative della famiglia nel quadro
della cooperazione tra scuola e genitori” e solo dopo, come probabile
concessione alla retorica, si aggiunge “secondo i principi sanciti dalla
Costituzione”. Questo permette di scrivere ad un anonimo funzionario del
ministero nel commento al Decreto attuativo che la famiglia diventa
“soggetto che coopera concretamente e fattivamente alla definizione del
percorso formativo del proprio figlio”; è un chiaro esempio di
“toyotismo” scolastico e culturale.
Le conclusioni
Molte delle conseguenze della trasformazione quantitativa e qualitativa,
avvenuta dal dopoguerra ad oggi, dell’intervento delle famiglie nella
sfera dei poteri scolastici, sono già evidenti. Alcune di queste
conseguenze voglio qui rilevare perché contribuiscono a spiegare il
percorso che ci ha condotti alla “scuola-quasi-servizio”.
a)
Erosione dello spazio professionale dei docenti. Il
coinvolgimento diretto delle famiglie introdotto dalla Riforma Moratti
nella costruzione dei programmi “personalizzati” e nella stesura del
portfolio per la valutazione sono il capitolo finale che sancisce il
superamento dell’interesse pubblico per quello del singolo
scolaro/studente e della propria famiglia. Sono inoltre due esempi
chiarissimi della sovrapposizione di ruoli tra il docente-competente e
il genitore-non-competente.
b)
Cogestione (cooperazione) nella definizione delle scelte
politiche, economiche e gestionali degli Istituti. La presenza delle
componenti genitori e alunni nei Consigli di circolo e istituto e di
classe con poteri decisionali è un’evidente contraddizione di chi chiede
una gestione professionale del sistema scuola.
c)
Privatizzazione della scuola pubblica attraverso l’aumento
delle tasse scolastiche. In prospettiva se la scuola fornisce un
servizio “personalizzato” per la singola famiglia/cliente, che
richiede/ordina un percorso ritagliato su misura per ciò che essa
ritiene possa essere utile nel futuro alla propria prole, è facile
intuire che, molto presto, tutti coloro che non avranno figli a scuola
non intenderanno assumersi l’onere di pagare, attraverso la tassazione
generale, un bene/servizio che viene costruito, ordinato e goduto dalla
singola famiglia. E’ la strada maestra perché si possa giustificare un
aumento delle tasse scolastiche a carico di chi il bene lo gode. La
singola famiglia è stata così attirata, secondo le migliori tecniche del
marketing, prima da un presunto affare, il “percorso personalizzato” per
il proprio figlio, e resa poi protagonista della privatizzazione della
scuola pubblica
In conclusione è evidente che il nuovo ruolo assegnato alla famiglia è
una delle manifestazioni del mutamento più profondo e radicale della
funzione della scuola rispetto a quello individuato dai padri
costituenti: non siamo più in presenza della “scuola-istituzione”, che
persegue l’interesse pubblico della società, formando il cittadino ai
valori della Costituzione e dotandolo delle specifiche competenze
professionali, ma della “scuola-quasi-servizio”, che persegue
l’interesse delle singole famiglie, assegnando a loro compiti decisivi
nella strutturazione dei percorsi formativi perfino nella scelta dei
contenuti, nella didattica e nella valutazione.
Per non essere fraintesi, non intendo mettere in discussione il
principio che le famiglie devono essere coinvolte nella comunità
scolastica, ma intendo segnalare la necessità di analizzare e discutere
il modo in cui le famiglie partecipano alla vita della scuola e il loro
ruolo nella mappa dei poteri scolastici in rapporto alle altre
componenti, in particolare gli insegnanti, e ai valori fondanti della
comunità di riferimento.
[1]
Sulla trasformazione della “Scuola-istituzione” in
“Scuola-quasi-servizio” vanno segnalati i lavori di Serafina Gnech e
Renza Bertuzzi nei siti
www.gildacentrostudi.it e
www.gildaprofessionedocente.it Bisogna inoltre ricordare che in
Italia questo argomento è stato finora trattato quasi solamente
dalla Gilda degli Insegnanti, mentre in altri paesi europei (vedi
Francia) è già al centro del dibattito sulla scuola da alcuni anni.
[2]
Riporto brevemente parte dell’intervento di Antonio Banfi al V
congresso nazionale del PCI (Roma, 29 dicembre 1945 – 6 gennaio
1946) “Tutti gli elementi che costituiscono la vita della scuola
–i professori, gli studenti, le famiglie e, più ancora delle
famiglie, il pubblico tutto che nella scuola deve vivere e
partecipare, perché la scuola non è affare di insegnamento, non è
neanche affare di scolari, ma è una necessità di un popolo- devono
contribuire al reggimento libero e autonomo delle scuole” ora in
Giorgio Canestri, L’ombra della Minerva. Appunti sulla gestione
della scuola negli ultimi quarant’anni, sta in: La scuola italiana
dal 1945 al 1983 a cura di Mario Gattullo e Aldo Visarberghi, pag.
279, La Nuova Italia, 1986.
[3]
Umberto Margiotta, La formazione della coscienza politica degli
italiani durante la Resistenza, sta in: La scuola italiana dal 1945
al 1983 a cura di Mario Gattullo e Aldo Visarberghi, pag. 33, La
Nuova Italia, 1986.
[4]
Quasi superfluo ricordare che i Decreti del 1974, nati in un
particolare contesto storico, hanno rivelato in questi trent’anni
anni tutti i loro limiti. Il dato della partecipazione alle elezioni
degli organismi collegiali della componente genitori, che a livello
nazionale non supera il 20%, ma in molte realtà è addirittura sotto
il 10%, dando vita a rappresentanti che in pratica rappresentano
solo se stessi, sarebbe sufficiente a imporre una loro profonda
revisione.
[5]
Infatti all’art. 1 dispone che il sistema scolastico sia finalizzato
alla “crescita e valorizzazione della persona umana … nel quadro
della cooperazione tra la scuola e i genitori” e solo
successivamente aggiunge “secondo i principi sanciti dalla
Costituzione”.