Abbiamo avuto modo di conoscerla, Paola
Mastrocola, in un recente convegno a Pordenonelegge*.“Nostalgica”? “Vecchia”
(come tipologia di insegnante, s’intende)? “Tradizionale”? “Resistente”al
nuovo credo? Certamente, e buon per lei. E per noi. Che l’ascoltiamo, sentendo
allentare il nodo che abbiamo in gola da anni. Anche se non possiamo non
chiederci che cosa abbia maggiore probabilità di successo: che le galline
volino o che l’Apparato metta in discussione il suo Credo**.
L’Apparato sta là, anche in quella sala che
trasuda storia da tutti gli angoli, proiettato verso un futuro di Progetti,
Recuperi, Debiti, Griglie, Verifiche, Percorsi. Con il suo Credo. E le facce
allibite di allievi che volgono lo sguardo dall’uno all’altro chiedendosi
forse se diventare adulti significa tutto questo. Ma Paola Mastrocola ci
parla, ci guarda con un sorriso che è un po’ come quello di Tanni, capace di
bucare il mondo… E allora uno pensa: magari le galline possono proprio volare,
è solo questione di tempo e di pazienza…
“La scuola di oggi è una scuola che si adegua”, scrive Paola Mastrocola (1)
nel saggio-pamphlet, La scuola raccontata al mio cane, che sta per
uscire presso Guanda e
di cui “La Stampa” (2) ci dà un’anticipazione.
M. Zenga
(Centro Studi) - P. Mastrocola
“La scuola di oggi è una
scuola che si adegua.
Si adegua pari pari al mondo, non gli va
incontro neanche un po’, combacia perfettamente: lo riflette, lo copia, lo
reduplica. Non oppone nulla di alternativo.
E’ una scuola che ‘connive’ con la società.
Lo so che il verbo
‘connivere’ non esiste, ma vorrei usarlo lo stesso; in latino voleva dire:
chiudere gli occhi, quindi far finta di niente, essere complici.
La scuola, sia chiaro, potrebbe benissimo non
chiudere gli occhi, non adeguarsi. Non è un suo obbligo, è una sua scelta. Non
adeguandosi, la scuola potrebbe fare la scuola e basta, e non voler
assomigliare ad altro. Adesso mi sembra invece voglia assomigliare a cose che
per natura sono molto diverse da lei: ad esempio a un Parco Giochi. O a un
Centro Sociale. Se la scuola volesse fare la scuola e basta, potrebbe puntare
tutto sul suo specifico, che poi sarebbe il suo valore culturale:il fatto che
la scuola ti formi culturalmente e basta non sarebbe già molto? Vorrebbe dire
che ti fa leggere dei bellissimi libri, tanto per dirne una.
Invece la scuola di oggi ha scelto di essere una
scuola che si conforma. Non oppone nulla al mondo così com’è, anzi cerca di
uniformarsi il più possibile a tutti i modelli esistenti: è il luogo dove
trionfa il conformismo.
La scuola non ci pensa neanche di proporre un
modello diverso, un’alternativa al mondo, magari prendendola, come dicevamo,
proprio dalla sua stessa sostanza, e cioè da una sostanza culturale. Sembra
che la scuola non abbia nulla di suo dentro di sé: in questa sua totale
acquiescenza, si è fatta obiettivo (questa volta fotografico) e ci rimanda
all’infinito la stessa immagine della società, così com’è, fotocopiata. Un
perfetto autoritratto. O meglio ancora: la desolazione di quando ti fai
l’autoscatto. Perché di là dall’obiettivo non c’è più nessuno che ti fa la
foto: sono tutti andati via. S.Gnech
(Centro Studi)
- D.Starnone
La scuola che si adegua è la scuola che non fa
lezione, ma brain-storming e uscite didattiche, non boccia, ma
recupera; non chiede, ma offre; non segue programmi, ma percorsi; non fa
letteratura, ma comunicazione; non chiede il tema, ma l’articolo di giornale;
non fornisce contenuti, ma metodi; non fa vita e opere, ma analisi del testo;
non impone libri da leggere, ma lascia scegliere. Evita all’allievo: la
frustrazione del foglio bianco; l’umiliazione di avere un professore sapiente;
la fatica di imparare delle nozioni; l’imbarazzo di prendere 4 in pagella;
l’impegno di fare cose difficili; la noia di leggere un libro troppo lungo.
Abbiamo perso definitivamente l’idea di studio…”
Dovremmo guardare, scrive ancora Paola
Mastrocola, “le conseguenze dello smantellamento, avere il coraggio di tenere
gli occhi sbarrati e guardare le rovine, perché di rovine si tratta. Se
dovessimo riassumere le rovine, ne illustrerei due: il permissivismo ha
permesso l’ineducazione scolastica (nessuno di noi oggi è più in grado di
tenere sotto controllo la normale disciplina di una classe, cioè semplicemente
il fatto che quando l’insegnante parla non parlano insieme anche i ragazzi). E
l’azzeramento (o riduzione) dei contenuti ha prodotto l’ignoranza.
Capisco che sia doloroso e
imbarazzante girarsi a guardare le proprie rovine, ma credo si debba fare…
a cura di Se.G
*Il Convegno, che recava il titolo “La scuola
che cambia” ha avuto luogo il 24 settembre presso il Convento di San
Francesco. Organizzato con la collaborazione del Liceo Leopardi Maiorana, ha
ospitato Paola Matrocola e Domenico Starnone, che sta per pubblicare, presso
Feltrinelli, il saggio: “Solo se interrogato”.
** Il Credo ministeriale attribuisce ora alla
scuola le seguenti funzioni: “Iniziazione ai saperi e ai suoi metodi;
esercizio delle funzioni personali ‘liberando da’ in modo che l’allievo
diventi ‘libero di’ e soprattutto ‘libero per’ i valori trascendenti e
trascendentali; presa di coscienza dei propri problemi; iniziazione all’uso
degli strumenti di lavoro (con-creatore); analisi e scelta (quindi offerta di
criteri d’ordine) degli stimoli culturali non-scolastici;
orientamento”(dall’intervento tenuto dal Prof. Franco Larocca - Ordinario di
Pedagogia Speciale presso l’Università di Verona- nel corso del Convegno
“Insegnanti di qualità per una scuola di qualità” organizzato a Roma il 5
ottobre dal SAM-Gilda e dalla Gilda degli Insegnanti del Lazio).
-
Insegnante di Lettere in un Liceo Scientifico di Torino,
Paola Mastrocola è diventata famosa con La gallina volante, romanzo
che ha come fondale la scuola. Ed è sempre la scuola che ispira Una
barca nel bosco – premio SuperCampiello 2004 - ed il saggio di
cui “La Stampa” offre un estratto: La scuola
raccontata al mio cane.
“La Stampa”- ttL –
tuttoLibri del 9 ottobre 2004.
Una scuola senza lettere.
di Paola Mastrocola
IN ANTEPRIMA, UN SAGGIO DI
PAOLA MASTROCOLA, SUPERCAMPIELLO 2004, UNA CRITICA SFERZANTE DELLE RIFORME, LA
DIFESA DI UN «MESTIERE» AMATO MA ORMAI IMPOSSIBILE: PERCHÉ TUTTO OGGI SI
CHIEDE AI PROF. SALVO «FARE LEZIONE».
Anticipiamo alcuni brani da
«La scuola raccontata al mio cane» di Paola Mastrocola, in uscita nella nuova
collana di Guanda «Le fenici rosse» (pp. 194, €12). Insegnante di lettere nel
biennio di un liceo scientifico, dopo il felice esordio con «La gallina
volante», la Mastrocola ha vinto quest’anno il SuperCampiello con «Una barca
nel bosco». La scuola, amaro fondale dei suoi romanzi, è ora il
bersaglio di questo saggio-pamphlet: una critica impietosa delle riforme,
l’orgogliosa rivendicazione di una professionalità misconosciuta, negletta.
SIAMO noi insegnanti di
lettere i più schiacciati dalla Riforma, le vere vittime; gli insegnanti di
lettere, più che ogni altro tipo di insegnante. E’ il mio specifico mestiere,
scusate il privilegio, che è scomparso dal pianeta. Disperso. Finito. E’ lui,
più che ogni altro, il «mestiere che non c’è più».
Certo, non lo troverete né scritto né detto da alcuna parte. Anzi,
l’insegnante di lettere, in teoria, rimane uno degli insegnanti portanti nella
scuola. Certo. Peccato che non faccia più il suo mestiere. E a volte si è
talmente adeguato, che non se ne accorge nemmeno.
E sì, perché si assiste oggi nelle scuole a un singolare paradosso: siccome la
letteratura è considerata desueta, elitaria, inutile, non-oggettiva, difficile
e noiosa (in una parola, vecchia), l’insegnante che si ostina a fare
letteratura è giudicato un povero mentecatto (vecchio, molto snob, magari
anche un po’ di destra), mentre l’insegnante che non fa letteratura è
l’insegnante-modello, progressista, innovativo, al passo con i tempi, l’unico
veramente «nuovo», che non si è «arroccato» su stantie e ormai insulse
posizioni, ma ha saputo mirabilmente... adeguarsi!
Mi è capitato, nella mia lunga vita scolastica, di avere dei fantastici
colleghi di lettere (anche di lingue, materie umanistiche, insomma).
Persone un po’ speciali, a dire il vero. Gente che amava perdersi nelle opere
di Tacito e Cicerone, Petrarca e Boccaccio, Coleridge e Sartre. Gente che
aveva anche una seconda vita, meravigliosa e segreta: ad esempio passava i
pomeriggi nelle biblioteche o teneva seminari all’università, scriveva piccoli
saggi di critica letteraria, poesie, sceneggiature, oppure faceva traduzioni.
Non erano modi per rimpolpare lo stipendio, erano altre vite, altri mondi.
Questi miei colleghi non li ho mai sentiti parlare di Progetti, Recuperi,
Debiti, Griglie, Verifiche, Percorsi...
***
La scuola di oggi è una scuola che si adegua. Si adegua pari pari al mondo,
non gli va contro neanche un po’, combacia perfettamente: lo riflette, lo
copia, lo reduplica. Non oppone nulla di alternativo. E’ una scuola che «connive»
con la società. Lo so che il verbo connivere non esiste, ma vorrei usarlo lo
stesso; in latino voleva dire: «chiudere gli occhi», quindi far finta di
niente, essere complici.
La scuola, sia chiaro, potrebbe benissimo non chiudere gli occhi, non
adeguarsi. Non è un suo obbligo, è una sua scelta. Non adeguandosi, la scuola
potrebbe fare la scuola e basta, e non voler assomigliare ad altro. Adesso mi
sembra invece voglia assomigliare a cose che per natura sono molto diverse da
lei: ad esempio a un Parco Giochi. O a un Centro Sociale. Se la scuola volesse
fare la scuola e basta, potrebbe puntare tutto sul suo specifico, che poi
sarebbe il suo valore culturale: il fatto che la scuola ti formi culturalmente
e basta non sarebbe già molto? Vorrebbe dire che ti fa leggere dei bellissimi
libri, tanto per dirne una.
Invece la scuola di oggi ha scelto di essere una scuola che si conforma. Non
oppone nulla al mondo così com’è, anzi, cerca di uniformarsi il più possibile
a tutti i modelli esistenti: è il luogo dove trionfa il conformismo.
La scuola non ci pensa neanche di proporre un modello diverso, un’alternativa
al mondo, magari prendendola, come dicevamo, proprio dalla sua stessa
sostanza, e cioè da una sostanza culturale. Sembra che la scuola non abbia
nulla di suo dentro di sé: in questa sua totale acquiescenza si è fatta
obiettivo (questa volta fotografico) e ci rimanda all’infinito la stessa
immagine della società, così com’è, fotocopiata.
Un perfetto autoritratto. O meglio ancora: la desolazione di quando ti fai
l’autoscatto. Perché di là dall’obiettivo non c’è più nessuno che ti fa la
foto: sono tutti andati via.
La scuola che si adegua è la scuola che non fa lezione, ma brainstorming e
uscite didattiche; non boccia, ma recupera; non chiede, ma offre; non segue
programmi,ma percorsi; non fa letteratura, ma comunicazione; non chiede il
tema, ma l’articolo di giornale; non fornisce contenuti, ma metodi; non fa
vita e opere, ma analisi del testo; non impone libri da leggere, ma lascia
scegliere. Evita all’allievo: la frustrazione del foglio bianco; l’umiliazione
di avere un professore sapiente; la fatica di imparare delle nozioni;
l’imbarazzo di prendere 4 in pagella; l’impegno di fare cose difficili; la
noia di leggere un libro troppo lungo.
***
Abbiamo perso definitivamente l’idea di studio. Studio voleva dire fare in
modo che le cose contenute in un libro poi fossero contenute nella nostra
testa, così che non avessimo più bisogno del libro. Tac, avveniva un vero e
proprio passaggio di luogo, che, cosa importantissima, ci affrancava
totalmente dall’oggetto, cioè dal libro: in una parola, dal possesso
materiale. Arrivavamo a un possesso
immateriale, dello spirito, appunto. I libri riuscivano a colare dentro di
noi, a trasferirsi in noi.
Noi, certo, dovevamo leggerli! E anche studiarli. Niente ci poteva esimere
dallo studio, dalla fatica e anche dalla noia di trasferire i libri in noi.
Un giorno affidai a un ragazzo una ricerca sui poeti simbolisti francesi. Era
un ragazzo che non amava studiare, e in più era piombato a
capofitto nella fase amici-motorinodiscoteca-eventualmente ragazza.
Non mi aspettavo granché da lui, lo confesso. Arrivò qualche giorno dopo
raggiante, con un bel plico tra le mani: una decina di pagine scaricate da
Internet, con tanto di vita, opere e foto di Verlaine, Rimbaud, Baudelaire,
Mallarmé... Ero estasiata e gli chiesi di esporre tale meraviglia alla classe;
mi guardò sinceramente basito e balbettò con grande scoramento: «Ma...
professoressa, io... ho fatto la stampata!».
Cosa mi stava dicendo? Ci misi un po’, ma poi capii; mi stava dicendo che la
ricerca l’aveva scaricata e stampata, cos’altro volevo, che anche la
studiasse?
***
Mi dicono che sono
un’insegnante nostalgica. Mi dicono tante cose che non mi piacciono: che sono
un’insegnante vecchia, un’insegnante snob, un’insegnante tradizionale,
un’insegnante «resistente» (al nuovo, credo). [...] Nessuno di noi insegnanti
nostalgici pensa, credo, minimamente di voler tornare alla scuola di una
volta. Nessuno si sogna di desiderare una simile idiozia.
La scuola di una volta non era affatto buona, aveva molti difetti che andavano
eliminati. Ad esempio, credo che fosse davvero autoritaria e nozionistica e
troppo elitaria, come dicevano coloro che nel Sessantotto si mossero
giustamente per contrastare tutto ciò. E allora? E allora la nostra è una ben
strana nostalgia, un dolore acuto per tornare... non si sa proprio dove! [...]
Abbiamo curato e guarito la scuola, rendendola permissiva, non punitiva,
facile, aperta (al sociale, all’attualità, al territorio...). Abbiamo
smantellato le regole e i contenuti, l’autorità e i valori più strettamente
culturali. Va bene (non so se va proprio bene, ma diciamo che allora, trent’anni
fa, aveva un senso e andava fatto: quindi va bene). Ma adesso... come possiamo
continuare a smantellare quelle stesse cose, se non altro per il fatto che le
abbiamo già smantellate e quindi non ci sono più?
Dovremmo piuttosto guardare le conseguenze dello smantellamento, avere il
coraggio di tenere gli occhi sbarrati e guardare le rovine, perché di rovine
si tratta. Se dovessi riassumere le rovine, ne illustrerei due: il
permissivismo ha prodotto l’ineducazione scolastica (nessuno di noi oggi è più
in grado di tenere sotto controllo la normale disciplina di una classe, cioè
semplicemente il fatto che quando l’insegnante parla, non parlino insieme
anche i ragazzi).
E l’azzeramento (o riduzione) dei contenuti ha prodotto l’ignoranza. Capisco
che sia doloroso e imbarazzante girarsi a guardare le proprie
rovine, ma credo si debba fare. Non si tratta di rinnegare le idee in cui
eventualmente abbiamo creduto. Si tratta solo di correggere, dopo tanti anni,
la rotta.