QUALE FUTURO PER L’INSEGNANTE ?
CONVERSAZIONE CON IL PROF. MARZUOLI.
La Gilda di Firenze ha organizzato, l’11 dicembre scorso, un incontro con il professor Carlo Marzuoli. Gli obiettivi erano sostanzialmente due: verificare quali possibilità concrete si aprano per il riconoscimento e la valorizzazione della docenza come attività di natura professionale (Ordine? Associazione?...), capire le ricadute delle riforme costituzionali - già fatte ed in cantiere - sullo stato giuridico del docente (docente assunto centralmente, a livello regionale o di singola scuola? e con quali modalità?...).
Questa iniziativa trova la sua collocazione all’interno di un percorso di analisi e studio, che intende porre delle basi culturali più forti alle scelte di politica scolastica che l’Associazione è chiamata a fare (vedi apertura nel Sito della Gilda nazionale di un’area tematica su Scuola e federalismo, incontro del 28 febbraio con il vice-procuratore della Corte dei Conti, Sergio Auriemma, ecc.).
La conversazione con il professor Carlo Marzuoli è risultata particolarmente preziosa per le chiarificazioni che ci ha dato e gli spunti che ha offerto alla riflessione.
Ne pubblichiamo quindi lo script. A beneficio di tutti. E con l’auspicio che la maturazione delle scelte della nostra Associazione possa sempre avvenire con il massimo della condivisione possibile.
L’INSEGNANTE PROFESSIONISTA: LA FUNZIONE DOCENTE
E I SUOI POSSIBILI ORGANISMI RAPPRESENTATIVI
Un incontro con il professor Carlo Marzuoli[1]
a cura di Giorgio Ragazzini
organizzato dalla Gilda di Firenze (11 dicembre 2002)
Principali argomenti trattati: Gli ordini professionali e i progetti di riforma allo studio – La funzione docente nel nostro sistema di istruzione – Un “Consiglio Superiore della Docenza” ? – Chiarimenti sulle competenze regionali in materia di istruzione – Revisione della funzione docente.
Gli ordini professionali
Vi ringrazio dell’invito. Da alcuni anni dedico parte dei miei studi al settore dei pubblici servizi in generale e della scuola in particolare. Queste sono quindi occasioni indispensabili per cercare di capire meglio le cose di cui mi occupo dal punto di vista giuridico.
Le mie saranno delle considerazioni, non un discorso organico vero e proprio. Di questi tempi si sta riparlando della condizione degli insegnanti e, da questo punto di vista, è un momento importante. Ci sono ragioni oggettive che possono facilitare la ripresa in considerazione di questo problema perché, come sapete, c'è una Costituzione della Repubblica da applicare.
In questo quadro mi sembra di capire che la riconsiderazione della condizione dell'insegnante è impostata nei termini di una sorta di polemica con l'immagine corrente - sia nell’opinione pubblica, ma anche nel corpo insegnante - dell'insegnante come impiegato; e di un'attrazione, non so se fatale, nei confronti dell'insegnante professionista. Vi dico subito che mentre ho chiaro cosa può voler dire l'insegnante impiegato, non ho affatto chiaro che cosa si intenda per insegnante professionista.
Possiamo impostare il discorso in due modi: ricordare brevemente che cosa significa l'ordine professionale allo stato della legislazione vigente, magari con qualche cenno alle proposte che ci sono in materia di nuova disciplina delle professioni; e vedere che cosa può succedere combinando l'ordine professionale con la situazione degli insegnanti.
L'ordine professionale è, innanzitutto, un congegno giuridico per sottrarre determinate attività al mercato e alla libera iniziativa di chiunque. È un modo, cioè, con cui ci si difende da una logica puramente di mercato e ci si sottrae alla libera concorrenza. Questo è un profilo.
Poi c'è l'altro profilo: è un modo per dare evidenza, visibilità, identità a un certo tipo di attività (il medico, l'avvocato, l'insegnante), che poggia i suoi elementi di identificazione su dati di carattere oggettivo, su delle tecnicità specifiche.
L'ordine professionale è inoltre, come sapete, un modo per governare l'attività di tutti coloro che esercitano la professione. Utilizzo il termine "governare" in senso totale, pieno. Si tratta di una sorta di dominio su ciò che riguarda quella determinata professione, nel senso che l'ordine è uno strumento molto utile e, in certi casi, tradizionalmente indispensabile, per consolidare l'identità specifica della professione. Innanzitutto attraverso l'accentuazione e l'ulteriore specializzazione delle proprie tecniche: il medico diventerà quindi sempre più medico o diventerà un'altra cosa, ma rimarcherà sempre una sua identità disciplinare. Vi sono connessi aspetti, problemi e compiti di formazione e di tirocinio. Vi è inoltre l'esclusiva o la partecipazione alle forme di reclutamento di coloro che poi potranno esercitare la professione. E infine la produzione di regole in qualche modo rilevanti sul piano giuridico, che sono le regole della deontologia professionale. Tali regole sono un'altra faccia dell'identità specifica di quella certa attività. Sono collegati a questo potere quelli della vigilanza sulla loro applicazione e la sanzione disciplinare nei confronti degli associati. Un’altra competenza degli ordini, che vale ovviamente per l’attività libero-professionale, è la determinazione delle tariffe.
In termini giuridico-formali l'ordine professionale, nel nostro ordinamento, è un ente pubblico, e non un soggetto privato, è organizzato secondo il principio dell'autogoverno ed è di tipo associativo, perché gli organi direttivi sono espressi dalla corporazione. Utilizzo il termine corporazione per indicare un'associazione non basata sullo statuto di cittadinanza generale, comune a ciascun appartenente alla Repubblica. Sono quindi corporazioni i genitori, gli studenti e così via. Come ho detto, non si tratta però di un ente pubblico in senso autentico (espressione diretta o indiretta di tutti) in quanto è costituito da personaggi privati che hanno uno statuto giuridico di privilegio perché sono, in un certo senso, istituzionalizzati e hanno dei poteri di carattere pubblicistico.
Il potere pubblico riconosce queste creazioni, che spesso sono in conflitto nei confronti dell'autorità politica, ma anche di altri corpi sociali, perché seguono le logiche di difesa della corporazione. Sappiamo infatti, dalla Rivoluzione francese in poi, dei problemi che le associazioni, e in particolare quelle che diventano "fette" del potere pubblico, propongono sul piano generale e sul piano costituzionale. Sono questioni da non esagerare (o esasperare), ma anche da non sottovalutare. Gli ordini professionali sono (in parte, entro certi limiti) un'entità appartenente all'esperienza comune e anche la loro partecipazione a fette di potere, ma il fenomeno resta giuridicamente molto delicato. Possono trovarsi infatti in bilico tra la legittimità e l'illegittimità nei confronti della Costituzione.
Occorre spiegare perché, dal punto di vista dell'interesse pubblico generale, noi cittadini della Repubblica attribuiamo quote di potere pubblico agli ordini professionali. Il fenomeno è giustificato da motivazioni serie, almeno nel caso degli ordini professionali. In primo luogo, vi è il sapere tecnico in quanto tale: la società ha bisogno di un certo sapere tecnico che è dominio di alcuni professionisti. Una sentenza recentissima, di particolare rilievo, contribuisce a definire i rapporti tra i profili tecnici e i profili politici. È la sentenza Corte cost. n. 282/2002. Si tratta di una legge della regione Marche, che dispone la sospensione, nel territorio regionale, di determinate pratiche terapeutiche (la terapia elettroconvulsiva e interventi di psicochirurgia), fino a quando il Ministero della Salute non dimostri in modo preciso, circostanziato e comprovato che la terapia è efficace, risolutiva e non comportante danni di altro genere. La Corte costituzionale ha ritenuto illegittima la legge perché essa costituisce una decisione che il potere politico (il Consiglio regionale) risulta aver assunto in mancanza di una qualsiasi previa istruttoria e valutazione di carattere tecnico. Le pratiche terapeutiche (secondo la Corte cost.) sono infatti riservate in linea generale e di principio ai tecnici della professione, ai medici. Questo ragionamento può essere applicato a qualsiasi tecnico, per lo meno sul piano logico e di principio. Dunque, l'ordine professionale è un modo con cui la corporazione dei tecnici si garantisce.
Ma, su altro versante, l'ordine è anche il modo con cui i pubblici poteri (i poteri politici e la società) cercano in qualche modo di evitare che il sapere tecnico si trasformi in un potere incontrollato e straripante.
Infatti, l'altra esigenza è la tutela della fede pubblica, la necessità di un minimo di verifica sulla serietà degli addetti alla corporazione, come mezzo di tutela dell'interesse sia della società sia, peraltro, anche della corporazione in quanto tale. Invero, quando la corporazione finisce per essere costituita da soggetti di basso profilo, è la corporazione che si degrada, come avviene ovunque.
C'è quindi un duplice interesse: da una parte l'interesse "strategico" dei componenti della corporazione alla conservazione della propria identità e, da un'altra, l'interesse dei cittadini a poter fare affidamento su quei determinati tecnici.
Se questo è a grandi linee l'ordine professionale, bisogna ricordare che vi sono elementi e principi che inducono a guardare comunque a questo istituto con cautela.
L'ordine professionale non può essere la regola per la disciplina delle attività di lavoro, è un'eccezione. L'ordine entra automaticamente in contraddizione con il diritto al lavoro, con la libertà dell'attività professionale e così via. Ad esempio, quando si è trattato di capire in che modo attuare correttamente la norma costituzionale che prevede l'esame di Stato per l'esercizio di certe professioni (art. 33, c. 5, v. C. Maviglia, Professioni e preparazione alle professioni, Giuffrè, Milano, 1992, pag. 75 e segg.), si è detto che tale misura può essere adottata solo in particolari circostanze: quando l'esame di Stato e quella determinata abilitazione sono necessari per salvaguardare interessi di particolare rilievo costituzionale. Ci vogliono quindi interessi forti per giustificare un intervento pubblico limitativo della libertà di lavoro.
Ritroviamo tutto questo in alcune prese di posizione di altre istituzioni. Ad esempio, in un'indagine avviata nel 1994 dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato, la quale, in linea generale e di principio, mette in relazione gli ordini professionali e implicazioni restrittive per la concorrenza: basti pensare alle tariffe, ai minimi e massimi tariffari, ecc.
Un indirizzo di questo genere è manifestato in termini più radicali da filoni giurisprudenziali della Corte di Giustizia della Comunità europea.
La Comunità Europea nasce all'insegna delle quattro libertà di circolazione (merci, persone, servizi, capitali), fra cui rientra la libertà professionale, ed è ovvio che tutte le misure che impongono riserve di attività, restrizioni all'accesso, abilitazioni, eccetera, sono guardate in linea di principio come "cose" che l'ordinamento comunitario può accettare solo se hanno consistenti giustificazioni. La regola è la libertà professionale. C'è stata (tra altre) una sentenza della Corte di Giustizia (Sezione V, 7 marzo 2002, causa C-145/99, in Giornale di Diritto Amministrativo, 2002, p. 609 e segg.) che ha deciso per l'illegittimità (perché eccessivamente restrittive) delle condizioni richieste per l'esercizio della professione forense in Italia da parte di colleghi di altri paesi europei.
Questo è l'ordine professionale in termini generali: è un'istituzione, un congegno organizzativo, su base rappresentativa, che può essere utilizzato solo in presenza di determinati elementi.
Progetti di riforma degli ordini
In conseguenza anche dei problemi che sono stati posti dall'ordinamento comunitario, vi sono molti progetti di riforma degli ordini. Mi soffermo su un progetto di legge (XIV Legislatura, Atti Camera n.2708) in cui opera con riferimento alla distinzione tra professioni regolamentate e professioni nuove non regolamentate. Bisogna fare però attenzione: in realtà anche le professioni definite nuove non regolamentate sono regolamentate: sono regolamentate sotto il titolo di "professioni non regolamentate" (tutto qui).
In queste etichette c'è un fenomeno di rilievo. Le professioni regolamentate sono quelle corrispondenti sostanzialmente agli ordini professionali, quindi si riproduce per intero il meccanismo tradizionale: l'abilitazione, l'esame, gli ordini (artt. 3-4). Gli ordini siano organizzati con consigli locali e nazionali, sono enti pubblici. La presenza di questi enti pubblici impone determinate misure organizzative all'organizzazione dell'Amministrazione dello Stato. Si prevede (art. 5): la creazione, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, di un Dipartimento appositamente destinato a curare questi profili; una Consulta di tutte le professioni come strumento per far valere le politiche delle professioni; la possibilità di adottare codici deontologici, nonché poteri tariffari. Grosso modo si rimane nell'ordine di tipo tradizionale.
L'aspetto, a mio parere, invece, interessante è quello delle cosiddette professioni nuove non regolamentate, collegate a ciò che in questo progetto di legge è testualmente definito "associazione professionale". Faccio riferimento a questo progetto (già citato) per la definizione di "associazione professionale", perché è bene mettere qualche paletto di univoco (anche se convenzionale) riferimento, in quanto associazione professionale può voler dire un numero infinito di cose.
Questo fenomeno delle attività “non regolamentate" (ma in realtà, come avvertito, regolamentate) in collegamento con le associazioni professionali è nuovo per noi, in parte almeno, ma l'idea è vecchia. Si tratta, in fondo, di un modo con cui si cerca di certificare la qualità della prestazione di un servizio. È una specie di marchio "doc". Come vi è la certificazione della qualità di un prodotto, queste figure sono degli strumenti (a mio parere intelligenti) per certificare in qualche modo la qualità di una professione nel suo insieme e quella del singolo professionista.
Il meccanismo è il seguente: alcune persone svolgono una certa attività che ha delle caratteristiche tecniche; questi signori costituiscono un'associazione, che è abilitata a rilasciare degli attestati, con cui si certifica che quel determinato signore è competente a fare una certa cosa. Il tutto però si fonda su basi esclusivamente privatistiche, perché l'associazione è privata. Ad esempio, degli allevatori di formiche creano un'associazione che viene resa nota al pubblico e che certifica che determinati signori sono bravi ad allevare le formiche. Naturalmente è una certificazione che non ha uno specifico valore legale, ma questo non vuol dire affatto che non abbia valore: il suo valore dipende dal prestigio e dall'autorevolezza sostanziali dell'associazione. Si pensi alle società di revisione e agli organismi che esprimono giudizi sulla situazione economica di un'impresa, sull'economia di un Paese, ecc.: fanno valutazioni tecniche di tipo privatistico, perché sono enti privati; ma è molto più incisiva, per l'andamento della politica economica di un paese, la valutazione di Moody's, che non diecimila leggi, regolamenti, piani e quant'altro (che pure sono dei comandi). Tutto si giuoca sulla credibilità di fatto, reale.
Le associazioni professionali di cui si parla rilasciano attestati di competenza ai soci. Essendo associazioni su base privatistica, quindi volontarie, non implicano nessun monopolio giuridico per l'esercizio di tale attività: chiunque può allevare formiche, anche se non iscritto alla Gilda delle Formiche, alla Lega delle formiche, e così via. È ovvio che, operando su basi privatistiche, non possiamo, associandoci, vietare ad altri di esercitare la nostra stessa attività. Possiamo infatti associarci solo per dire al pubblico che se tanti sono gli allevatori di formiche, noi siamo particolarmente bravi.
Per consolidare questo fenomeno, si prevede (artt. 23 e seguenti) la costituzione di un ufficio, un Dipartimento delle associazioni professionali, con un registro e certe norme che riguardano i loro statuti. Qualsiasi associazione, che aspiri ad avere rapporti con il potere pubblico, deve assoggettarsi a misure di controllo e deve essere organizzata nel rispetto di principi generici di democraticità.
Poi, è previsto che le associazioni possano adottare dei codici deontologici, come una specie di ordine, ma in forma privatistica, senza privilegio giuridico.
Siamo dinanzi ad una versione privatistica dell'ordine professionale. Si cerca di creare una struttura organizzativa che dia evidenza alla professione e che consenta di valorizzare gli aspetti di autorevolezza sostanziale della professione, e si è capaci di rinunciare al vecchio sistema della rendita di posizione, che deriva da una situazione di privilegio giuridico, qual è quella dell'ordine professionale.
Sono previste inoltre le società di professionisti, anche se è un aspetto un po' diverso, per la cui comprensione sarebbe necessaria la presenza di un commercialista, di un tributarista, di un ragioniere. Queste società già esistono, sono disciplinate, anche se solo per certi aspetti.
Si ribadisce nel contempo, all'articolo 1 comma 3 di questo progetto di legge, che l'attività libero-professionale consiste prevalentemente in un’obbligazione di mezzi e non di risultati; ovvero: mi impegno a curarti, ma non a guarirti ... se poi muori…"
Bisogna riconoscere che si tratta di una caduta di stile, per di più pericolosa. E’ ovvio che l'obbligazione, ad esempio, dell'avvocato non è quella di vincere la causa. Tuttavia l'insistenza sull'obbligazione di mezzi potrebbe far pensare che, se il cliente perde la causa (o se il paziente muore), siamo sempre e comunque tranquilli. In realtà, pur trattandosi di un'obbligazione di mezzi, quanto alla necessità di utilizzare quei mezzi in un certo modo (con diligenza, prudenza, perizia), l'obbligazione non è di mezzi, bensì di risultato. I mezzi devono essere utilizzati con diligenza, con prudenza e con perizia, e questo non è un mezzo, ma un risultato. Se la causa si perde (o se il paziente muore), qualche problema potremmo averlo. Insomma: sarebbe stato meglio non insistere troppo sull'obbligazione di "mezzi": può indurre in equivoci.
C'è inoltre una norma che pone un obbligo di copertura assicurativa (art. 13) e che pone il limite al danno risarcibile in un predeterminato multiplo del compenso ricevuto. Si stabiliranno dei coefficienti. Non è prevista una misura risarcitoria che sia necessariamente corrispondente al danno effettivamente provocato; in effetti, con un piccolo parere si possono provocare gravi danni. Immaginatevi la società di revisione che sbaglia nella valutazione tecnica di un'impresa come la General Motors.
La funzione docente
Rimane da illustrare la seconda parte, su come questa linea di pensiero (l'ordine professionale inteso in senso tradizionale e l'associazione professionale intesa come una versione puramente volontario-privatistica dell'ordine professionale) si può riferire all'attività dell'insegnante.
Se per attività di insegnamento intendiamo, ad esempio, il compito di trasmettere a qualcuno la tecnica per battere un chiodo, per usare un cacciavite, eccetera, in questi termini non può essere che un'attività libera. Non si può impedire allo studente di matematica (o a chiunque) di fare ripetizioni, al bambino genio (o anche non di genio) di insegnare l'italiano o altro. E’ un’attività che si basa sui rapporti sociali e sulla credibilità sociale; finché tutto si svolge senza usufruire di rendite di posizione giuridica e finché il pezzo di carta rilasciato è una privata dichiarazione di stima e di apprezzamento, non si può impedire lo svolgimento dell'insegnamento. In questi termini è un'attività libera, fermi i limiti generali di ordine, ad esempio, penale (debbono essere attività non truffaldine, ecc.).
Una specificità molto marcata dell'attività dell'insegnante è invece in ciò che la possibilità economica di sopravvivenza della professione di insegnante si basa su un sistema di finanziamento pubblico. Le occasioni di esercizio della professione di insegnante sono inserite in gran parte nel contesto di un servizio pubblico, pertanto dipendono dalla finanza pubblica. Questo è già un elemento di grande diversità, perché gli ordini professionali nascono per garantire e tutelare le attività professionali in situazioni di logiche di mercato. Qui invece le possibilità di lavoro derivano in gran parte dal fatto che esiste il servizio pubblico dell'istruzione.
E qui ci sono (semplificando, per brevità) due correnti di pensiero. Secondo la prima, il servizio si giustifica sulla base dell’interesse della Repubblica e deve essere quindi reso in condizione di neutralità culturale e ideologica; è il pluralismo ideologico nelle scuole. La seconda concezione del servizio pubblico è quella che prevede il pluralismo ideologico delle scuole.
Io appartengo a coloro che ritengono, dal punto di vista giuridico, che sia corretta la prima soluzione, perché nella Costituzione si parla di "libertà di insegnamento", e anche perché mi trovo in difficoltà a immaginare che con i miei soldi contribuisco a finanziare degli orientamenti ideologici, del tutto legittimi, ma che non sono i miei.
Sapete tuttavia che ci sono giuristi che ritengono corretta l'altra soluzione.
Vorrei solo aggiungere e segnalare (per doverosa chiarezza) un aspetto che differenzia il mio pensiero da quello di molti altri che con me comunque condividono la prima soluzione.
La indispensabile neutralità del sistema dell'istruzione pubblica (da intendere come pluralismo nella scuola) non significa che le scuole debbono essere necessariamente scuole pubbliche; significa invece che le scuole debbono utilizzare una funzione docente che, sempre e comunque, si muova in condizioni di libertà. Se una certa scuola privata salvaguarda e garantisce in modo totale, alla pari della scuola "statale" (metto le virgolette perché, dopo il Titolo V, la scuola "statale" acquista - o può acquistare - un significato un po' - o molto - diverso rispetto alla tradizione), la libertà della funzione docente, non ho problemi ad ammetterla in pieno nel sistema dell'istruzione pubblica. Quindi, a mio parere, quella scuola può essere finanziata, come si finanzia il concessionario di un pubblico servizio. Il punto decisivo è: per essere finanziato, il concessionario deve essere idoneo a svolgere quel pubblico servizio.
Se è immaginabile che un imprenditore privato organizzi un nucleo preposto a erogare istruzione e che rispetti lo statuto giuridico della professione docente, non vedo preclusioni pregiudiziali. Francamente, il discorso a me pare perfettamente coerente, in quanto il perno di tutto il sistema è la funzione docente, che deve essere identica ovunque si istruisce a titolo di istruzione pubblica (e si usa denaro pubblico). Se invece la scuola privata ha un stato giuridico diverso, non entra nel sistema nazionale dell'istruzione. D'altra parte l'istruzione è l’insegnamento, è questo ciò che va garantito. Ci sono tanti altri problemi da affrontare, ma non vedo altre pregiudiziali per escludere le scuole private.
Vorrei fare una seconda precisazione. Il finanziamento dell'istruzione pubblica può avvenire in tanti modi. Semplificando al massimo, si possono individuarne almeno due. Il primo modo consiste nel finanziare sia le persone che le organizzazioni che erogano il servizio, che è all'incirca il sistema attuale, anche se sta cambiando. È lo Stato che paga l'insegnante. È lo Stato o la Regione o l'ente locale a fornire i mezzi (l’edilizia, gli arredi e via dicendo). Il cittadino usufruisce solo del servizio.
Si può immaginare però un altro modo: si danno al cittadino i soldi per acquisire la prestazione dove preferisce. Invece di finanziare la scuola, finanzio l'utente. È la storia del buono scuola. Finché si ragiona con questi dati, dal punto di vista giuridico, l'uno o l'altro metodo di finanziamento sono ineccepibili. Tuttavia è chiaro che c'è un limite alla seconda strada, quella del buono scuola.
Il sistema del buono scuola infatti non può, né direttamente, né indirettamente, entrare in contrasto con la logica che caratterizza l'autenticità dell'istruzione pubblica. Può quindi anche essere ammissibile il finanziamento dell'utente con il buono scuola, ma è necessario prescrivere la condizione che quell'utente si potrà rivolgere solo a delle strutture dove lo statuto giuridico della funzione docente è identico a quello vigente nella scuola "statale". Si torna quindi al punto di prima.
Ci sono tanti problemi, ma si tratta di organizzarsi e di pensarci, c'è molto lavoro da fare. Potrebbe essere un modo per dare delle flessibilità. Un punto però è chiaro: non è possibile inquinare la caratteristica fondamentale del sistema pubblico dell'istruzione (la neutralità) con il buono scuola.
Concludendo: come ho già detto, la soluzione più corretta è il modello più tradizionale, con la variante però di un possibile ingresso della scuola privata, purché si garantisca la libertà dell'insegnamento.
La libertà di insegnamento non è un fatto privato, ma è una caratteristica della funzione, come l'indipendenza e l'imparzialità non è una prerogativa del signor Rossi, magistrato, ma è una prerogativa della funzione. La specificità dell'insegnante è già in questa dimensione di necessarietà giuridica. L'insegnante deve infatti operare in condizioni di libertà. Io, come cittadino, pretendo che il giudice sia imparziale e indipendente e pretendo anche che l'insegnante operi in condizioni di libertà. La libertà dell'insegnamento è un valore, che (può piacere o non piacere) è stato assunto nel 1948 nella Costituzione e, finché non si cambia la Costituzione, è intangibile.
Un organismo che garantisca la funzione docente
Alla luce delle premesse esposte il filo da tirare per valorizzare l'insegnante, che non ha mercato al di fuori dell'intervento dello Stato nell'istruzione, è quello di una garanzia della funzione come funzione pubblica. Si dovrebbero quindi costruire degli organismi pubblici in cui la funzione docente si identifica e fa le proprie politiche (tecnico-culturali) attraverso i docenti. Non è l'ordine professionale, perché qui siamo in altri ambiti di idee, e possiamo benissimo attribuire a questi organismi dei poteri determinanti, anche se non finali, ad esempio in termini di formulazione di proposte, di pareri obbligatori sugli standard, sui criteri di valutazione, sulla formazione, sulla deontologia, sulla valutazione della congruità dei mezzi che la politica mette a disposizione dell'istruzione. Ad esempio, in occasione della discussione del bilancio, possiamo immaginare che un organismo rappresentativo dei docenti esprima il proprio parere tecnico (e non politico) sui mezzi messi a disposizione dal governo per raggiungere determinati obiettivi e così possa dire se li ritiene adeguati o insufficienti. La decisione, naturalmente, rimarrà al governo che deciderà come crede, attraverso l'esercizio di un legittimo potere politico. Però, con questo metodo, si renderebbero più razionali e trasparenti le scelte politiche, perché si metterebbero in evidenza i dati obiettivi a cui esse devono comunque riferirsi, e le scelte diventerebbe più controllabili e - se del caso - criticabili.
In conclusione: questi organismi consentirebbero una congrua identificazione della professione.
Domanda: Potrebbe chiarire la configurazione di questa sua proposta?
Risposta: Sono cose su cui bisogna riflettere, soprattutto con chi impersona la funzione docente. Anch'io la impersono, ma in un contesto un po' diverso, quello universitario, quindi non mi rendo conto appieno dei problemi degli altri o posso avvertirli in maniera superficiale. Peraltro, con queste doverose avvertenze, direi, ad esempio, che un sistema potrebbe essere la creazione di un collegio, di un consiglio. Nel quadro attuale di ripartizione delle competenze, potrebbero andar bene un consiglio di livello nazionale e dei consigli a livello regionale, con l'elezione da parte di tutti i rappresentanti del corpo docente; con pochi membri però, perché, se facciamo organismi con troppi componenti, li condanniamo al niente. Quindi, un consiglio nazionale incardinato nelle strutture amministrative dello Stato, giustificato sulla base della Costituzione attualmente vigente. Credo che, in virtù delle considerazioni già espresse, il primo contenuto delle norme generali sull'istruzione sia la rideterminazione della funzione docente. La scuola è il docente, è quindi necessario che le norme generali sull'istruzione parlino del docente. Tali norme sono una competenza rimasta allo Stato, quindi ciò legittima che vi siano delle strutture amministrative di livello statale.
Per quanto riguarda l'attuale assetto della Costituzione vigente, ma anche per i possibili cambiamenti previsti dalla modifica proposta da Bossi, trovo che la demonizzazione che corre sui giornali della modifica dell'art. 117, dal punto di vista tecnico-giuridico, non abbia fondamento. L'articolo 117 versione Bossi confonde un po', darà un po' di lavoro ai miei colleghi, ma è già tutto compreso nell'articolo 116 e anche nell'art 117 testo vigente. In tema di istruzione, la proposta "Bossi", dopo il quarto comma testo ora vigente, inserisce una nuova disposizione dove si afferma la competenza legislativa regionale "esclusiva" in punto di "…organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione "(a cui è stato poi aggiunto, per effetto di un emendamento: "salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche"), nonché di "definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della regione". Questi "pezzi" si aggiungono alle norme precedenti e non le sostituiscono. Quindi, dire che con questa norma le Regioni si appropriano delle norme generali dell'istruzione è affermazione non corrispondente al vero. Le norme generali sono di competenza dello Stato e non delle Regioni. Le Regioni potranno solo determinare, nella parte stabilita dalle norme generali sull'istruzione, le quote di programma che saranno loro devolute. Le norme generali di istruzione, intese come il potere volto a determinare le misure generali di uniformità del sistema nazionale dell'istruzione, sono di competenza dello Stato, come indicato nel comma 3 dell'attuale art. 117. La storia dei programmi, fra l'altro, è già implicita nell'attuale testo dell'art. 117 ed è stata esplicitata, con la mia totale condivisione, nel disegno di legge Moratti. L'istruzione è un'attività tecnicamente qualificata, che si deve svolgere in condizioni di libertà; questo però non significa che il potere politico non possa mettere bocca in materia di istruzione. Il potere politico ha l'obbligo di acquisire tutte le valutazioni dei tecnici per gli obiettivi generali del sistema dell'istruzione, ma chi deve decidere se investire miliardi per l'istruzione (o sulle pensioni) è il Parlamento, cioè il potere politico (come si è visto, la citata Corte cost. n. 282/2002 vuole che si tenga conto adeguatamente della dimensione tecnica, ma non dice affatto che la tecnica sostituisce la politica). In un regime democratico non possono essere i tecnici a prendere tali decisioni. È un problema di equilibrio, nel senso che la decisione politica non può penetrare oltre una certa misura e deve essere presa con cognizione di causa, cioè sentendo i vari tecnici, ma, specie se i pareri sono discordi, è il politico che deve decidere. Non saprei immaginare un altro sistema in un ordinamento costituzionale. Una volta stabilito che nella materia dell'istruzione, anche sui programmi, c'è uno spazio legittimo per la politica, mi volete spiegare perché questo spazio deve pregiudizialmente escludere in maniera totale le Regioni? non sono esse un potere politico e legislativo come lo Stato? e l'istruzione, salvo aspetti specifici, ormai è competenza anche regionale.
Domanda: Questo avverrà quando il disegno di legge diventerà effettivo?
Risposta: No, non tutto passerebbe alle Regioni: il disegno di legge "Bossi" indica come competenza esclusiva dei pezzi dell'istruzione, non il tutto; poi, per quanto riguarda la quota regionale rilevante per i programmi (e simili), una tale possibilità si può già dedurre attraverso l'interpretazione dell'articolo 117 vigente. È sicuramente un argomento su cui riflettere. Però, in un assetto di competenze quale quello risultante dal nuovo Titolo V, la Regione è un potere politico pienamente legittimato alla pari dello Stato, quindi perché non può assumere queste competenze? Si replica: per assicurare un'esigenza di uniformità che è salvaguardata dallo Stato. Mi dispiace, ma non riesco a credere che la scuola della Repubblica vada allo sfascio per un limitato ambito decisorio attribuito, in quadro comunque di norme generali uniformi, alla Val d'Aosta o alla Sicilia.
Vorrei che si riflettesse su questo argomento sulla base di dati che sono certo in parte discutibili, ma che non siano palesemente tendenziosi.
In questo contesto l'idea che il personale della scuola rimanga personale statale non è coerente. Lo Stato, se interpretiamo il nuovo sistema, non ha competenze tali da giustificare il suo ruolo di datore di lavoro dell'insegnante. La Costituzione nuova consente l'esistenza di strutture amministrative dove c'è un certo tipo di competenze; se questo tipo competenza non c'è più, non c'è nemmeno la ragione per avere la funzione amministrativa.
Tuttavia, non considererei la novità così devastante come può sembrare a prima vista, perché, almeno a mio parere, lo stato giuridico della funzione docente è definito dalle norme generali di istruzione ed è uguale in tutto il territorio della Repubblica. E, per stato giuridico della funzione docente, intendo non solo aspetti che riguardano l'esercizio in sé della funzione, ma ovviamente aspetti determinanti quali sono il reclutamento, le garanzie di libertà e di stabilità del rapporto di lavoro. Non si può dire che questi profili stanno fuori dalle norme generali di istruzione in quanto costituiscono disciplina del rapporto di lavoro. Si tratta di aspetti determinanti in funzione della garanzia della libertà di insegnamento e devono quindi essere disciplinati dalle norme generali di istruzione, come le modalità di reclutamento e la stabilità del rapporto di lavoro del giudice, che si stabiliscono con legge.
Domanda: E che bisogno c'è di trasferire queste competenze alle regioni?
Risposta: Per ragioni di efficienza amministrativa e per ragioni di un minimo di consonanza e di responsabilità. Non dico che funzionino bene, dico che questo è il sistema e che comunque bisogna rifletterci con impegno e, ripeto, con dati affidabili. A Costituzione vigente, è una possibile prospettiva, non so quanto buona e perciò a maggior ragione meritevole di estrema attenzione. Rimuovere questo problema, perché si pensa che non rientri nel sistema costituzionale, è una posizione fragile dal punto di vista giuridico, in quanto gli elementi per concludere in senso diverso, a mio parere, sono prevalenti.
Domanda: Io ho partecipato alcuni anni fa a un convegno in occasione della riforma De Mauro. Erano stati invitati tutti i docenti. Per il problema della libertà di insegnamento, a noi erano state date delle scatole vuote con le ore decise e il nostro problema era dimostrare che la nostra disciplina era più importante di un'altra, perché non venisse eliminata in seguito al discorso della riduzione delle ore.
Vorrei inoltre dire un'altra cosa sulla libertà di insegnamento. A livello politico si è potuto constatare che certi direttori didattici hanno fortemente indirizzato i docenti. In quale modo riusciamo a mantenere la libertà di insegnamento?
Domanda: A parte le strumentalizzazioni delle forze politiche, io sospetto che il centro-sinistra voglia scaricare su questo disegno di legge Bossi gran parte degli effetti invece provocati dalla sua modifica costituzionale, fatta forse pensando di poter svuotare la protesta leghista e vincere le elezioni. La manovra poi non è andata in porto, quindi forse l'Ulivo vuole dimostrare che quello che un domani non andrà bene è dovuto alla modifica di Bossi. Bossi, d'altra parte, vuole mettere il cappello sul federalismo svuotando tutto quello che ha fatto l'Ulivo e vuole prendersi tutto il merito con il suo disegno di legge. Ma, al di là di questo, è possibile che la proposta Bossi non cambi assolutamente niente nel titolo quinto nella riforma costituzionale? Vorrei conoscere i particolari.
Domanda: Lei è partito parlando di "condizione docente" e poi ha detto diverse volte che è necessario rideterminare la "funzione docente". La condizione, a mio parere è una cosa, e la funzione è un'altra. In un'altra occasione ha detto che "la funzione docente deve essere disciplinata con legge e non oggetto di contrattazione". La domanda che le voglio fare è: perché Lei continua ad affermare che occorre rideterminare la funzione docente? Le leggi attuali, a mio parere, sono quelle che ancora salvaguardano la funzione docente. La collega diceva delle cose giustissime: la funzione docente è legata alla libertà di insegnamento, sono state determinate condizioni a limitare la libertà di insegnamento, non solo ad opera non solo dei direttori didattici, ma anche delle regioni. Si fa presto a limitare la libertà di insegnamento, nel momento in cui si promettono dei finanziamenti se si fanno determinate cose. Secondo le leggi vigenti, il docente è colui che è preposto alla formazione delle nuove generazioni attraverso l'insegnamento culturale e deve avere come obiettivo la formazione umana e critica della personalità dei giovani. Io penso che non esista una cosa più nobile ed elevata. La mia domanda è: perché dobbiamo cambiarla? Molti sostengono che l'insegnante non deve più trasmettere cultura, perché questa trasmissione di cultura è ormai obsoleta, ma che l'insegnante deve fare altro. E la cosa mi preoccupa un po’.
Risposta: Per quanto riguarda i problemi del dirigente scolastico e della libertà di insegnamento, rinvierei la risposta e unificherei le due domande che penso insistano sullo stesso problema.
Per quanto riguarda invece il Titolo V, non ho detto che non cambia nulla; ho detto che, a mio parere, cambia molto meno di quello che viene normalmente detto e, in particolare, che non cambia nulla per quanto riguarda le norme generali sull'istruzione. Sono inoltre dell'opinione che le Regioni siano legittimate a determinare una quota dei curricula, già a Costituzione vigente.
Una conferma di tutto questo è che l'attuale Ministro ha creduto di poter fare una cosa di questo genere con il disegno di legge. Come persona di scuola, non ritengo che la scuola della Repubblica possa andare a picco perché il 5% del curricolo viene determinato dalle Regioni, anche perché la chiave di chiusura delle interpretazioni giuridiche è la ragionevolezza.
Il problema più complesso tecnicamente, quello più difficile, e quello che merita perciò più attenzione, è invece quello della rideterminazione della funzione docente.
Quando parlo di rideterminazione di funzione docente non mi riferisco al profilo di cui Lei ha parlato, cioè alla trasmissione della cultura, bensì agli altri profili, cioè alla necessità di ridisciplinarla in relazione alle funzioni a cui è collegata, ovvero, in particolare, di ridefinire i rapporti con il dirigente scolastico e con la dimensione collettiva della funzione docente, cioè con il collegio docenti. Si tratta inoltre di ridefinire i rapporti con le forme di partecipazione organica nell'istituzione scolastica di genitori, studenti e quant'altro. Ritengo, insieme a pochi altri colleghi, che queste forme di partecipazione organica sono una (mi si consenta un po' di enfasi) sciagura innanzitutto dal punto di vista della libertà dei genitori e degli studenti. Lo dico quindi per tutelare la libertà di genitori e studenti. Si devono spostare le forme di partecipazione dalla cogestione (che è fonte di confusione e di irresponsabilità) a mezzi di partecipazione procedimentale: diritti di accesso, di trasparenza, eccetera. Tutte cose che corrispondono al modello generale della disciplina dell'azione amministrativa, come è previsto dalla legge generale sul procedimento amministrativo 241 del 1990, che si occupa appunto della partecipazione alle procedure, dei diritti di accesso, di conoscenza, ma non di forme di cogestione. Non c'è niente da cogestire.
La funzione pubblica è una cosa seria, l'Amministrazione deve ascoltare, verificare, ragionare, ma, poi, decide l'Amministrazione. Io, cittadino della Repubblica, voglio che decida l'Amministrazione, ovvero colui che ho legittimato o in base al meccanismo elettorale o in base a ragioni tecnico-professionali. La scuola non è affare di mamme, di babbi e di ragazzi, ma è affare che interessa in primo luogo ogni cittadino della Repubblica.
Per "condizione giuridica" intendo quegli aspetti di disciplina dei modi di reclutamento, della stabilità del rapporto di lavoro, ecc., che sono indispensabili per garantire l'esercizio libero della funzione e che, in quanto tali, non possono essere oggetto di contrattazione. Questi aspetti debbano essere rideterminati con legge, essendo tutt’uno con la funzione docente.
Domanda: Quindi siamo già fuori con la storia degli insegnanti di religione.
Risposta: Non c'è dubbio; e siamo fuori anche con la legge sulla parità.
Domanda: Lei vede un possibile reclutamento da parte delle Regioni come un possibile risultato giuridico coerente con quello che sta accadendo. Da parte della Associazione Nazionale dei Presidi in più sedi si insiste invece in un'altra direzione, ovvero un reclutamento da parte dei singoli dirigenti. Io, personalmente, non temo tanto un reclutamento di tipo regionale, a certe condizioni, ma temo tantissimo l'altra possibilità. Le vorrei chiedere se vede giuridicamente degli appigli a questo orientamento dei dirigenti.
Un’altra cosa. Normalmente si dice che la legge Bossi dà legislazione esclusiva sull'istruzione. Io non ho letto questo, ma legislazione esclusiva sull'organizzazione e la gestione delle scuole e dei programmi. Le due cose sono coincidenti o no? Se coincidono, vengono a cadere i principi fondamentali, perché si legge altrove che dove la materia di legislazione è concorrente spetta alla Regione la potestà legislativa, salvo per i principi fondamentali; laddove invece è esclusiva, tutto questo decade.
Vorrei inoltre capire meglio i principi fondamentali.
Risposta: Il reclutamento da parte dei singoli dirigenti, a livello di istituto, è una prospettiva sostenuta da moltissimi. Se con "reclutamento del singolo istituto" si intende un reclutamento che non è fondato su procedure concorsuali seriamente garantiste, è un sistema in palese contraddizione con la libertà di insegnamento ed è inaccettabile. Questo vale per chiunque, per la Regione, per il Comune, eccetera. Le procedure devono essere identiche. E' concepibile che il posto di lavoro pubblico te lo dia il capo? No, l'ordinamento della Repubblica non consente capi, prevede solo responsabilità e servizi, e regole oggettive; non capi, capetti, caponi, caporali: nulla di tutto questo.
Secondo punto, questa formula potrebbe voler dire un reclutamento a livello di organico di istituto. Si è dipendenti della scuola, ogni scuola assume con procedure assolutamente garantite, per cui fa domanda anche il laureato di Palermo. Non cambia nulla da questo punto di vista, però si è dipendenti della singola scuola. Questo potrebbe essere giustificato per ragioni di flessibilità e, dal punto di vista dell'imparzialità, se si rispettano le procedure, se le procedure sono identiche, di per sé non contrasta con i principi. Ma è una soluzione meno congrua, rispetto ad un rapporto con la Regione.
Qui abbiamo due valori costituzionali da salvaguardare; la politica serve per questo, dovrebbe servire a trovare dei bilanciamenti accettabili. C'è il problema della garanzia della libertà di insegnamento e c'è il problema di misure di efficienza, di adeguatezza, che sono tutte due cose importanti. Data la particolarità della funzione, ritengo che, quando il bilanciamento può avere un esito dubbio, la preferenza vada data al criterio della garanzia e non al criterio dell'efficienza. Dal punto di vista della garanzia, è ovvio che un datore di lavoro più capiente, a livello regionale (ma potrebbe essere chiunque), consente la costruzione di organici in cui si possano fare più facilmente compensazioni fra posti che in un certo luogo diventano in sovrappiù e posti in meno altrove, e consente una maggiore elasticità, senza problemi particolarmente gravi dal punto di vista della stabilità del rapporto di lavoro. In questo senso mi sembra più adatto all'esigenza di rispetto della libertà di insegnamento. Però è un argomento che non ha una portata assoluta, che può solo indurre a preferire questa soluzione. Invece, ciò che è assolutamente da respingere è un reclutamento senza garanzia giuridica, chiunque lo faccia.
Per quanto riguarda le competenze di Stato e Regioni, se ci sono aspetti che sono ragionevolmente da ricondurre alle norme generali sull'istruzione, è ovvio che su quegli aspetti dispone lo Stato. E così, se ci sono degli aspetti ragionevolmente riconducibili ai livelli essenziali delle prestazioni, ancora e di nuovo avremo una normazione statale. Quanto ai principi fondamentali, uno può essere, ad esempio, quello dei principi di base sull'autonomia delle istituzioni scolastiche. Quella rimane ferma, perché la cosiddetta devoluzione si aggiunge ai commi precedenti e non li sostituisce; in ogni caso il principio dell'autonomia delle istituzioni scolastiche è stato successivamente inserito (come accennato) nella stessa proposta "Bossi".
Domanda: A suo parere l’autonomia delle scuole è stata costituzionalizzata o è stata inscritta tra i principi generali?
Risposta: Sono di quelli che ritengono che l'autonomia delle scuole non è stata costituzionalizzata perché era già stata costituzionalizzata dall'articolo 33. E’ solo un’esplicitazione. Se si prende sul serio l’articolo 33, senza troppo sforzo si arriva all'autonomia delle scuole. Infatti, l'autonomia dell'istituto scolastico è la dimensione organizzata della libertà di insegnamento. Poiché questa è l'autonomia dell'istituzione scolastica, essa è scritta nell'articolo 33 della Costituzione.
Domanda: Professore, siamo in un Paese in cui, la storia ce lo insegna, il diritto è stato spesso calpestato; e anche regionalizzare l'istruzione – al di là delle percentuali del 5% e del 20% dei curricula – non sappiamo a che cosa questo possa portare a livello pratico. Siccome la storia di questo Paese ci dice molto e ci permette di intravedere qualcosa sul futuro, noi, che in questo caso siamo utenti oltre che cittadini, forse il diritto ad avere le antenne ben dritte ce l'abbiamo, o no?
Risposta: Guardi, sono assolutamente d'accordo con Lei, ma non posso calpestare la Costituzione vigente per il timore che l'applicazione della Costituzione possa avere conseguenze negative.
Ha perfettamente ragione; non sono un entusiasta del nuovo Titolo V, si poteva farne a meno; tuttavia temo che si possa rimanere in una sorta di limbo e di pasticcio istituzionale, il che rappresenta la peggiore delle soluzioni. Sul piano giuridico, non vorrei essere frainteso, mi sono pronunziato in modo netto, perché c'è stata una campagna in parte fuorviante sui giornali. Per il resto, sono preoccupatissimo come Lei; ad esempio, sul fatto che anche la ricerca sia di competenza regionale concorrente.
Domanda: Può darsi però che abbia più soldi..
Risposta: Può anche darsi, però so che se si dice di no a quello che richiedono (legittimamente, dal loro punto di vista) gli indirizzi politici regionali (o di altri enti, il problema esiste con tutti), di soldi si finisce per vederne pochi, come è ovvio.
Domanda: Volevo tornare un attimo al tema centrale della riflessione e cioè alle forme di organizzazione della professione, ordine, associazione, eccetera. Lei ha avanzato un’ipotesi di un consiglio nazionale e regionale. Vorrei fare due domande: la prima è quanto questa ipotesi si concili con l'esistenza anche di un ordine o anche di un'associazione professionale ed eventualmente di sindacati. L’altra domanda riguarda questa alternativa ordine/associazione che lei ha ben configurato e che mi sembrava interessante soprattutto per quanto riguarda la definizione dell'associazione professionale come qualcosa che si garantisce un po' da sola sul piano della qualità del prodotto. E’ calzante l'esempio del consorzio del Gallo Nero, che ha interesse da un lato ad avere molte adesioni, senza però che questo pregiudichi la qualità del vino, perché altrimenti diventa poco credibile. Quello che mi chiedevo in pratica è questo: tale idea, che è ben applicabile a una situazione di mercato, come si può conciliare con la condizione di dipendente dell'insegnante?
Domanda: Io volevo tornare alle norme generali sull'istruzione. Lei comprensibilmente ha insistito molto sulla riserva allo Stato. L'ultimo comma del 116 prevede, se non ho letto male, questa materia come attribuibile alle regioni ordinarie con nuove forme e condizioni particolari di autonomia comparabili a quelle delle regioni a statuto speciale. La prima domanda è come si deve prefigurare questa possibilità? Mi pare di capire che lo Stato perderebbe la competenza esclusiva.
Risposta: In questo caso sì, ma d'accordo con le Regioni.
Domanda: Ma soprattutto se così fosse, quale miscela potrebbe crearsi più o meno esplosiva con altre competenze che, viste da sole, lei aveva giustamente sterilizzato con questo baluardo della riserva statale?....
Domanda: C’è quindi un vuoto riguardo il problema della scuola, che dovrebbe essere coperto da un'associazione, un ordine, una qualche entità che possa fungere da autorevole referente, come diceva lei per i medici, gli avvocati o altri; in questo caso non c’è qualcuno che in qualche modo metta dei paletti, a partire dai quali i politici poi possano legiferare. I connotati per fare una cosa del genere mi sembravano più dell'ordine professionale, da come ha spiegato lei, piuttosto che dell'associazione; e da stasera io penso che il mio impegno per cercare di iscrivere più persone e quindi aspirare a contare di più qualitativamente, ma anche quantitativamente, deve triplicare; e mi dispiace un po', perché speravo in qualche scorciatoia di questo tipo e che prima o poi, grazie anche ai politici che recepiscono certe linee di diritto, venisse istituzionalizzata qualche entità di riferimento a cui conferire finalmente una consistenza giuridica. Poi mi confermi se ho capito bene.
Riguardo alle questioni del regionalismo, Lei ha detto che la legge sulla parità è già una contravvenzione alla funzione docente, che deve essere identica su tutto il territorio della Repubblica. Il successo garantito e assicurato della scuola berlingueriana, che non credo abbia differenziazioni rispetto alle attuali tenenze, secondo me è ancora minare alla base la funzione docente nella sua autonomia, nella sua libertà e così via. Le intromissioni di esperti, a livello comunale, provinciale, regionale, rappresentano anch’esse un ridimensionamento dell’insegnante, che si limita a tenere i ragazzi, tanto poi ci pensano gli esperti, che spesso sono molto meno esperti degli insegnanti. Poi quello che si sta ventilando ora con la riforma Moratti è allucinante: la scuola ha un compito di formazione spirituale e morale, anche (!) in riferimento alla Costituzione. Se penso poi ai vari progetti delle regioni riguardo al titolo quinto già esistente, che configurano scuole abbastanza diverse… mi permetta di dire che questo insieme di cose – se lei come giurista ne tratta in termini abbastanza asettici e al massimo è un po’ preoccupato – a noi ci allarma fortemente.
Mi si dice che la scuola regionale tedesca, per esempio, è buona; io so comunque che, come in tutti i Paesi che applicano il federalismo per unire qualcosa che era disunito, c'è l'esigenza massima di uniformità. Qui noi stiamo facendo proprio l'inverso; cioè da un qualche cosa di unito (che ha tuttavia problemi di disunità culturale e sociale) si cerca di tornare indietro, perché tornano quegli istinti da giungla del "ghe pense mi". A maggior ragione, stando così le cose, vedo allarmante il problema della mancanza di un referente autorevole di coloro che si occupano della trasmissione culturale dalla Sicilia alla Valle d'Aosta. Quindi, viva la scuola della Repubblica, come dice il titolo di un libro di Charles Cutel. Allora io vorrei sapere qualcosa di più, su quello che posso sperare, perché si possa dar vita a questo organismo.
Risposta: L'ipotesi che a me pare preferibile è un'organizzazione pubblica che esprima la specificità della funzione docente; come cittadino ritengo che questa sia la dimensione giuridicamente più corretta per soddisfare quell'esigenza, così come credo che la dimensione giuridicamente più corretta per garantirmi quanto all'indipendenza dei magistrati sia la formula del Consiglio Superiore della Magistratura e non l'ordine professionale dei magistrati. È un'interpretazione, ma la libertà di insegnamento come funzione pubblica non può essere veramente garantita, a mio parere, attraverso il connubio tra profilo pubblicistico e profilo privatistico che è il tratto comune degli ordini professionali. Qui si tratta di garantire la libertà della funzione e ritengo che giuridicamente il modo più coerente con la libertà della funzione sia quello di definire un organismo, nel modo migliore possibile, realmente rappresentativo delle capacità sostanziali dei docenti.
Un organismo pubblico: è la Repubblica che si deve assumere il compito di concretizzare la garanzia, perché è un problema della Repubblica, non è un problema (solo) dei docenti, come è un problema innanzitutto della Repubblica (e non dei magistrati) garantire l'indipendenza dei magistrati. L'ordine professionale non si incastra bene in tutto questo. D'altra parte, nella sostanza, salvo vedere come è praticata un'ipotesi di questo genere, non credo che tutto questo possa costituire un elemento deteriore dal punto di vista dell'autoidentificazione e dell'autogoverno della funzione docente; semmai l'obiezione che si può fare è che si dà troppo, come si dice per i magistrati, in parte non a torto. Voglio dire: se i docenti hanno qualche cosa da dimostrare, non vedo perché sia possibile con l'ordine professionale e non lo sia attraverso l'altro modello.
Peraltro, un organismo del tipo indicato, naturalmente, non può avere compiti sindacali. I profili sindacali sono un'altra cosa; dobbiamo abituarci a scindere; se cominciamo a sindacalizzare la libertà non abbiamo né le retribuzioni né la libertà. Ognuno dal punto di vista sindacale si organizza come vuole. Il punto è uno solo: bisogna rideterminare la funzione docente e ciò significa in parte rivedere le aree della contrattazione, nel senso che ci sono aspetti che forse nella contrattazione non ci stanno. Detto questo, poi, naturalmente, i conflitti ci possono essere: può succedere che l'organismo a tutela della professione docente si metta a fare il sindacato, ma sono altre questioni (importantissime e decisive, ma da non sovrapporre alle altre).
Per quanto riguarda l’associazione cosiddetta non regolamentata, a questo punto, se viene fatto un organismo pubblico, essa può rimanere, come una figura puramente privata. Sarà l'associazione di un gruppo di docenti; l'ipotesi di un organismo pubblico non vieta affatto che i docenti si facciano le loro associazioni, culturali o sindacali, come del resto hanno i magistrati.
In tutto questo discorso è rimasto in ombra un profilo: come accade anche per i magistrati, la libertà della funzione docente è al servizio di un servizio (l'istruzione pubblica) e quindi la si garantisce solo se uniamo libertà e sistemi di valutazione e di controllo, sia pure con tutte le garanzia necessarie per la serenità degli interessati. In mancanza, la libertà della funzione docente deperisce, come sta deperendo, e correndo gravi rischi, anche l'indipendenza della magistratura, che nell'immagine diffusa è un valore in parte spento: se il giudice, alla fin fine, non dà la sentenza, al cittadino comune del giudice indipendente non interessa molto; se l’indipendenza non produce un risultato socialmente utile, l'indipendenza del magistrato interessa a pochi intimi, come a me che sono giurista... Il vero rischio che corre l'indipendenza della magistratura è un eccessiva dilatazione degli spazi di politiche (legittime ma) corporative fatte dalla magistratura. Non è condivisibile un sistema in cui ci si può troppo agevolmente trasferire lasciando le cause di cui ci si occupa, o in cui una causa è decisa dopo quindici anni, perché cambiano tanti giudici. Si potrebbe prescrivere un più rigorose obbligo di residenza, come del resto praticato per i professori universitari. Questo (un'eccessiva attenzione a esigenze legittime ma proprie della sola corporazione) è il vero rischio per l’indipendenza della magistratura, perché questo è nelle cose, e non solo in volontà politiche soggettive di qualcuno.
E' da evitare che una situazione di questo genere si produca anche per l'insegnante; l'insegnante, in qualche modo, deve vivere la sua libertà in una situazione dinamica, di confronto. Io ho la mia libertà e la debbo misurare e difendere di volta in volta, già con il mio collega, perché lui (del tutto legittimamente se e finché rimane un'aspirazione) mi vorrebbe far studiare una cosa, dicendo che se si fa in due è meglio; e io voglio studiarne un'altra.
Con questa consapevolezza occorre affrontare anche la prospettiva della regionalizzazione. E' vero che ci sono gravi rischi e certamente è l'apertura di un nuovo fronte, ma soluzioni schematiche a livello preliminare e pregiudiziale sono posizioni che giuridicamente tengono poco. E siccome sono un giurista, sono portato a pensare che, se le soluzioni tengono poco a livello giuridico, allora tengono poco anche su altri piani; ma questa è una deviazione professionale.….
Domanda: Le chiedo se può essere più chiaro. Siamo costretti a seguire Tele Padania per dovere d'ufficio, per capire le tendenze. L'onorevole Pagliarini, papale papale, diceva che alla fine, col combinato disposto di quanto è vigente e di quanto lo sarà nelle loro aspettative e auspici, ogni regione farà quel che vuole. Ci sarà chi avrà la scuola come noi la conosciamo, parte pubblica, parte privata ( interpretava la competenza organizzativa), altri avranno tutto pubblico – liberissimi – e altri tutto privato. Secondo lei è plausibile?
Risposta: Naturalmente, questa cosa (che dice Pagliarini) è da comizio, però non vuol dire che non possa accadere. Il dato più banale, noto a tutti, è che la Costituzione della Repubblica è entrata in vigore il primo gennaio 1948, mentre la Corte Costituzionale ha cominciato a funzionare solo nel 1956. La Corte di Cassazione, all'indomani dell'entrata in vigore della Costituzione, si inventò la tesi delle norme programmatiche, cioè di norme che erano acqua fresca, anche se riguardavano diritti di libertà individuale molto importanti; fino all'istituzione della Corte costituzionale era la Corte di Cassazione che faceva il controllo di costituzionalità delle leggi, e non poche norme liberticide del Testo Unico di pubblica sicurezza – ad esempio – furono salvate con l'invenzione della norma programmatica: c'era, sì, la norma costituzionale, ma era programmatica, cioè una norma che si rivolge al legislatore, non direttamente vincolante: si vedrà, si farà...
La Costituzione della Repubblica prevedeva le Regioni, ma abbiamo dovuto aspettare quasi trent’anni (se si considera che il processo di regionalizzazione si è in qualche modo concluso con il D.P.R. n. 616/1977). E' stato un ritardo grave; probabilmente, se le Regioni ordinarie fossero state istituite per tempo e un pochino meglio, a nessuno (fra l'altro) sarebbe venuta l’idea di questa rincorsa sul "federalismo". La vita del diritto è dunque piena di storie di norme non applicate, disattese, deliberatamente contrastate.
Ma, sul piano dell'interpretazione dei testi, i discorsi di Pagliarini di cui mi si riferisce sono infondati. Come Lei sa, e come ho or ora ricordato, però, l'interpretazione giuridica non ci mette al riparo dagli eventi. Dico sempre ai miei studenti che l'atto amministrativo, quando è nullo, può non essere osservato, perché non è efficace, e dunque non è vincolante, ecc. Se però l'atto amministrativo prende la forma di un carro armato, dico: “attenzione ... è vero che il l'atto amministrativo-carro armato è nullo, però vi invito alla prudenza"; poi, ognuno decide come vuole naturalmente: il coraggioso dirà “tu sei nullo, dunque giuridicamente non ti puoi muovere e perciò non ti muovi"; l'altro dirà “tu sei nullo, e dunque giuridicamente non ti puoi muovere, ma solo giuridicamente: meglio, intanto, spostarsi...”.
Questo ribadito, non si deve però dimenticare che l'interpretazione dei testi è comunque un fattore che incide sulla realtà. E vale la pena - credo - di spenderlo, anche perché, altrimenti, l'alternativa è solo la violenza.
Domanda: Io volevo esprimere due valutazioni e poi invece rivolgerle una domanda molto diretta. La prima valutazione è sul tema del federalismo e della devoluzione. Io ho l'impressione che noi come cittadini non eravamo pronti per affrontare così ex-abrupto una scelta, che comunque è radicale e che lascerà dei segni. Per noi è molto difficile dimenticare i fantasmi del futuro e superare quelli del passato, quindi io mi auguro solo che sia una cosa piuttosto lenta e che salti in avanti e remore ci facciano trovare la giusta strada. Però, ripeto, mi è sembrato un salto nel buio chiunque l'abbia fatto prima e chiunque lo acceleri adesso.
Una valutazione volevo fare poi sul suo discorso del pluralismo nelle scuole, che io condivido in pieno, ma che ritengo fortemente datato per quanto riguarda la mia storia; cioè il pluralismo nella singola scuola è un valore inestimabile, ma credo che, per i cambiamenti che ci sono nella società, per la legge sulla parità, che non è stata cosa da poco, noi di fatto abbiamo aperto la strada al pluralismo delle scuole. Proprio per questo ritengo che il reclutamento degli insegnanti, istituto per istituto, da parte presidi o dirigenti, non sia una cosa così campata in aria. Non sul piano giuridico, sul piano delle cose effettuali, anche per il semplice motivo che oggi i presidi sono responsabili dei risultati e, se non hanno la libertà di avere gli strumenti per raggiungerli, ritengono di non poterci arrivare.
L'altra cosa invece su cui volevo chiedere un suo parere è questa: ho capito bene oggi la differenza tra ordine e associazione; sulla base di quella proposta, però, capisco anche che, senza ordine, per noi insegnanti grandi vie non ce ne sono, perché l'ordine è una bella lobby, è forte, dà le sue leggi sul reclutamento, sui codici deontologici, eccetera. e garantisce di più. Il fatto che ci sono per gli altri vuol dire che un senso ce l'hanno; l'associazione la ritengo una libera scelta di persone che si ritrovano. Allora ritorno al suo discorso, quello della famosa consulta nazionale, che io chiamo così e che mi sembra ci sia in Scozia. L'ho visto presentare come modello esportabile, ma allora le chiedo, l'istituzione di questa consulta nazionale degli insegnanti deriva dalla forza di una base, che come dice il collega, a furia di iscrivere gente la si impone o è una scelta che nasce dal Parlamento, che, in base alla revisione dello stato giuridico degli insegnati, ritiene che si debba fare? In parole povere noi che strade abbiamo? Grazie.
Domanda: Una domanda rapidissima sui rischi della regionalizzazione. Leggevo proprio stamattina sul Sole 24 Ore Scuola che c'è questo problema per le regioni che avranno materia esclusiva. Non si capisce bene se sarà esclusiva, non esclusiva, eccetera. Comunque la contrattazione e comunque la gestione del personale della scuola saranno regionalizzate, quindi è presumibile che noi avremo 20 contratti nell'ambito del territorio nazionale. Questo creerà sicuramente delle disparità fra regione e regione, quindi non c'è in questo modo una violazione del dettato costituzionale che appunto assicura ai cittadini dignità pari dignità e pari trattamento per ciò che riguarda la retribuzione e le questioni del lavoro? Quindi è una questione molto importante. Anche la mobilità sarà in qualche modo un grosso problema, che si porrà. Quindi come si esce da questi due problemi, mobilità e contrattazione?
Risposta: Il diritto ha questo di particolare: siccome è un dover essere e non un essere, se ne siamo convinti, lo ripetiamo per l'eternità; questo è il mio mestiere.
Lei ha molte ragioni, tant'è vero che vado ripetendo, in ogni sede, che, in realtà, il vero elemento di riforma della scuola, ma in senso devastante per la scuola della Repubblica, è la legge sulla parità (legge n. 62/2000), non il Titolo V. Continuo a dire che quella legge è incostituzionale. Forse arriverà alla Corte, forse no. E non so che cosa farà la Corte, se si orienterà per la costituzionalità o per l'incostituzionalità. Però continuerò a dire come stanno le cose sul piano giuridico (secondo l'interpretazione per me più convincente), poi ognuno valuta, sul piano della convenienza, che cosa può fare.
L’ordine professionale. Che l'ordine sia uno strumento molto utile per fare lobbismo non c'è dubbio alcuno e nulla c'è di male. Dal mio punto di vista, però, nel sistema costituzionale, siccome la funzione docente è quella che ho indicato, l'ordine non si attaglia.
Vi è un altro profilo da considerare. Realizzare l'ordine è più difficile, perché il potere politico avrebbe tutte le ragioni, a mio parere, per scegliere l'altra soluzione. Anche in termini di politiche realistiche, dunque, mi sembra più adatta l'altra ipotesi.
Domanda: Come si può arrivare ad avere questa famosa consulta? Chi lo deve fare?
Risposta: Non avrei dubbi: la sede è quella delle norme generali sull'istruzione, quindi competenza del Parlamento. Ora vi è il disegno di legge delega; non va bene intervenire sulle norme generali dell'istruzione con delega; comunque, se si dovesse andare avanti con la delega, è allora lì che bisognerebbe inserire qualche cosa.. Ma questo spetta comunque al Parlamento. Lo strumento di identificazione della funzione docente e dei docenti va fatto, come associazione o come sindacato; la categoria deve farsi sentire. Anche per evitare che qualcuno ripeta ciò che si afferma a proposito dell'autonomia delle scuole: che non ha decollato perché, in realtà, i docenti non vogliono l'autonomia.
Domanda: La vogliono solo i dirigenti.
Risposta: Ma questo indebolisce fortemente i docenti, perché la rivendicazione della libertà senza un qualche contenuto è operazione difficile anche per la lobby più potente.
Domanda: I dirigenti non la vedono come libertà per i docenti. I collegi sono manovrati e poi ci sono degli atteggiamenti millantatori da parte dei dirigenti.
Risposta: Se sento i dirigenti, dicono: ma come si fa a dirigere, comandano tutti gli altri.
Domanda: Ma se un dirigente dice, all'inizio di un collegio: "Se ci sbrighiamo, tra un'ora vi mando a casa" e tutti si sbrigano...
Risposta: Forse, non è il caso di dire queste cose quando si rivendica la libertà della funzione docente, altrimenti sarà difficile averla (o mantenerla).
Torniamo alla regionalizzazione, ai contratti e alla mobilità. La regionalizzazione comporterà contratti diversi e quindi comporterà probabilmente, anche se ci saranno degli standard nazionali, delle differenziazioni retributive. Ma non è scandaloso, è quello che succede normalmente per qualsiasi dipendente regionale.
Qui c'è un equivoco di fondo. E' vero che hanno fatto il Titolo V in fretta, all'ultimo momento, che l'hanno approvato per ragioni tattiche. Ma (ci può piacere oppure no) l'autonomia è differenziazione, comunque, indipendentemente da come hanno redatto il nuovo Titolo V. Agli inizi di ottobre a Siracusa, al convegno che tutti gli anni facciamo con gli amici spagnoli di Diritto Amministrativo, organizzato dalle rispettive associazioni (private), le associazioni dei professori di diritto amministrativo. Anche lì venne in evidenza questo problema. Giuridicamente autonomia e differenziazione sono la stessa cosa. È normale. L'autonomia regionale significa che i dipendenti della Regione toscana possono guadagnare il doppio o la metà dei dipendenti di un’altra Regione.
Altro punto. Fu un collega spagnolo che ce lo ricordò, che soprattutto lo ricordò a colleghi regionalisti da sempre. L'autonomia nella Costituzione del 1948 c'è già. Articolo 5: “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i princìpi e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento.”
L'autonomia è prevista per aumentare la partecipazione politica e la responsabilità dei cittadini, non è un valore da leggere sempre in negativo. Quindi gli stipendi possono essere diversi. In ogni caso il rimedio si ha con la mobilità. La regionalizzazione non significa che non si debba, attraverso le norme generali (statali) sull' istruzione, prevedere un sistema che garantisce che il nostro collega della Sicilia possa, a un certo momento, ricoprire un posto in Toscana o che dalla Toscana, se lo stipendio è più basso, ci si possa trasferire a Palermo.
Domanda: Ci vogliono giustificazioni, però, per queste disparità.
Risposta: Sì, ci vogliono giustificazioni, ma le giustificazioni possono essere semplicemente nel fatto che una Regione ritiene che sia necessario investire nell'istruzione e che in quel momento investire nell'istruzione significhi, ad esempio, anche aumentare le retribuzioni del personale docente; perché vogliamo impedire tutto questo?
Domanda: Riguardo sempre a quel discorso della retribuzione agganciata alla funzione, una battaglia giuridicamente forse da fare è garantire una retribuzione minima omogenea a tutti sulla base della funzione; cioè, una volta definita la funzione, va definita la retribuzione minima ad di sotto della quale nessuna regione può andare.
Risposta: Non c’è dubbio. Ma quello che avete da temere è solo una corsa …. al rialzo, non al ribasso. Però chiederanno qualcosa in cambio. Per esempio: valutazione e controllo.
Domanda: Lei parlava di nuovo profilo docente. Nella Gilda, nelle associazioni professionali in generale, si discute da molti anni sui nuovi ruoli all'interno della scuola da far svolgere agli insegnanti, come coordinatore di dipartimento, coordinatore della didattica, la ricerca didattica, la documentazione, eccetera. E le soluzioni prospettate vanno dal concorso statale all'idoneità con successiva chiamata delle scuole, come a un certo punto aveva deciso la Gilda. Poi ci sono, attualmente, le funzioni obiettivo. Intanto volevo sapere questo: secondo lei sul piano dello sviluppo della professionalità, se siamo professionisti, sono funzioni in qualche modo definite, ma comunque necessarie, oppure sono giustificati i timori di quanti dicono che in fondo si strutturano delle gerarchie, dei ruoli autoritari (o cose di questo genere), che limitano la libertà di insegnamento?
Risposta: La mia idea, che ho già esposto in un'altra sede – più ci penso più ne sono convinto –, è che l'indistinto non funziona. Vogliamo garantire la libertà della funzione docente? Se sì, ho la sensazione che dobbiamo dargli più forza e mettere in condizione il docente non solo di esser garantito, ma di usare questa libertà (che è l'unico modo con cui acquista peso nei confronti della società e anche della politica). In un raggruppamento che comprende centinaia di migliaia di persone, dare una garanzia di un certo tipo a tutti quanti non è facile. A mio parere, anche nel sistema dell'istruzione, come in parte nell'università, il rischio è che per salvare tutti non si salva la funzione. È possibile dire che anche nel servizio dell'istruzione ci sono più (usiamo questa parola) ruoli di lavoro? Il ruolo di lavoro determinante, caratterizzante l’istruzione è quello che si chiama funzione docente. Però la funzione docente non è, come dire, l'unico mattone che viene utilizzato per rendere il servizio dell'istruzione. Ci saranno altri mattoni, che egualmente svolgeranno attività di tipo didattico, che però non sono la funzione docente. Questi altri mattoni hanno uno stato giuridico differenziato e non possono avere le stesse garanzie giuridiche del mattone che chiamiamo “funzione docente”. Il punto è (come schema, poi ci sono tutte le transizioni del caso) che non c'è eguaglianza di stato giuridico. D'altra parte, dal punto di vista della garanzia della neutralità della funzione, il discorso regge se c'è un nucleo sufficiente, stabile e garantito, che come tale imprime e salvaguarda l'autonomia della funzione. Poi ci possano essere persone che ruotano con contratti a termine, anche se reclutati con imparzialità, ecc. Questa è una differenziazione. A mio parere, in prospettiva, in termini di consequenzialità dei meccanismi giuridici, potrebbe essere un modo per evitare dei sistemi che in realtà riducono la stabilità del rapporto di lavoro di tutto quello che oggi è personale docente. Perché è una misura inevitabile di elasticità. Lo vediamo all'Università: se c'è bisogno di fare 10-15 ore di lezione su un certo argomento, che facciamo? Una cattedra di diritto amministrativo per quelle dieci ore su quel certo argomento? No, diamo l'incarico a qualcuno che sia idoneo. Questo, credo, sia il ragionamento; lo si fa nell'Università e mi sembra che non sia insensato.
Domanda: Io mi riferivo anche a ruoli diversi.
Risposta: Infatti. Questa era la prima cosa. Per quanto riguarda la funzione docente, parlerei di nuovo dell'università. Nell'università siamo ormai un discreto numero. Appartengo alla generazione che ha fatto, ai tempi dei tempi, anche politica sindacale in sedi universitarie, all'insegna di una parola d'ordine che era il "docente unico". Questa cosa, sempre da libero pensatore, la contestavo già quando ero giovane. Non ci credo, nel docente unico: all'interno della funzione docente, fermo restando che la funzione docente ha delle garanzie identiche per tutti, davvero non è possibile qualche differenziazione di ruoli? Certo che è possibile, con la garanzia che da un ruolo a un altro si transita con meccanismi indipendenti, imparziali; questo è intoccabile. Se, poi, mi fate l'obiezione che la garanzia delle procedure non è possibile nella realtà dei fatti…...che Vi devo dire?
In astratto, la configurazione di funzioni differenziate, e quindi anche con diversità retributive, non contrasta con la libertà di insegnamento. Ad esempio, noi abbiamo il direttore di ricerca.
Domanda: Ha una sua utilità oppure no?
Risposta: Sì, altroché se ha una sua utilità. Siamo tutti uguali, ma non è vero; nell'Università ci sono due ruoli docenti: associato e ordinario. Come ordinari siamo tutti uguali, ma abbiamo idea di gerarchie ben precise, che non sono formali, e sono ancora più forti perché non sono formalizzate. Il formalizzarle, invece, probabilmente, le attenuerebbe. Ma gerarchie in senso serio, non la gerarchia della cordellina accademica; la gerarchia nel senso che, se io mi occupo di una certa cosa, sento il bisogno di consultarmi e di scambiare due parole con un certo mio collega, come qualcun altro sente il bisogno di scambiare due parole con me. Per quanto riguarda la mia categoria, per primo sarei dell'idea di fare una terza fascia, una fascia di professori "superordinari" a concorso, anche se vi è il rischio che possa non entrarvi. Mi sembrerebbe che le cose potrebbero andare meglio, se ci fosse un gruppo più ristretto di colleghi, che in qualche modo potrebbero, ad esempio, selezionare i lavori che si pubblicano. Non mi convince che si sia condannati ad essere tutti uguali. C'è una soglia su cui non si transige, e questa è la funzione docente uguale per tutti e la stabilità per tutti. Ma non è il tutto, e per il resto si può differenziare (ma, naturalmente, dipende dalla Vostra esperienza, io, in astratto, sarei favorevole).
Domanda: È troppo sperare, ad esempio, che ci si possa accedere con esami e titoli?
Risposta: Appunto. Con esami e titoli.
Domanda: Non sta avvenendo così.
Risposta: Lo so, ma, d'altra parte, non dobbiamo rassegnarci; rassegnarsi significa subito perdere.
Domanda: Vorrei sapere, intanto, se il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione, così com’è oppure opportunamente modificato, può svolgere delle funzioni analoghe a quelle che per i magistrati sono svolte dal Consiglio Superiore della Magistratura.
Un'altra domanda sul decreto legislativo 165 del 2001, ma a partire da quello del '93, insomma l'articolo sulla dirigenza. Io le parole precise non le ricordo; mi ricordo questo, che negli istituti di cui all'articolo 33, comma 6 della Costituzione, la dirigenza amministrativa non si estende alla gestione della ricerca e dell'insegnamento, se non vado errato. Ora se ci fosse scritto che la dirigenza, essendo di natura puramente amministrativa non si estende alla gestione della ricerca e dell’insegnamento, allora sarebbe chiarissimo. Ma, essendo scritto così, ho avuto proprio un contraddittorio con un collega sindacalista della CGIL Scuola, che sosteneva che sì, la dirigenza amministrativa non si estende a questo, però esiste un'altra natura, non so di quale tipo, della dirigenza scolastica con competenze didattiche, che invece si estende in qualche forma che, ripeto, non riesco a capire, alla gestione della ricerca e dell’insegnamento, tanto è vero che il dirigente scolastico è quello che coordina il Collegio dei docenti. Io vorrei sapere la sua opinione, tenuto conto anche che il collega della CGIL Scuola ha tra i suoi iscritti anche dirigenti scolastici.
Risposta: Il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione è da azzerare, anche perché un'operazione di questo genere deve in qualche modo nascere dal basso; poi deve essere solo di docenti, non c'è dubbio alcuno. Tutt'al più si può consentire qualche esperto, come del resto nel CSM, ma esperti, magari nominati dall'università; nella sostanza, deve essere il docente che trova lì la sua identificazione, la sua produzione di regole tecniche, deontologiche, eccetera.
Per quanto riguarda la dirigenza amministrativa, credo che la funzione del dirigente scolastico non si ricavi dalla norma citata, che parrebbe essere l'art. 15, c. 2, del D.Lgs. n. 165/2001). La sua funzione si ricava dalle altre norme, che indicano (ma non completamente e non chiaramente) i suoi specifici compiti, come l'art. 25 (e l'art. 21 della legge delega n. 59/1997). D’altra parte, sulla gestione amministrativa c'è anche il profilo del responsabile amministrativo, quindi in realtà il Dirigente scolastico è una figura di coordinamento e comunque, in effetti, molto particolare.
Domanda: Ma magari, essendo responsabile dei risultati, potrebbe intervenire.
Risposta: Sì; infatti, questa è la difficoltà del ruolo. Il dirigente scolastico è comunque responsabile dei risultati. Questo aspetto non deve essere però ingigantito. Anche perché, per ora, ho visto pochi dirigenti (scolastici e non scolastici) rispondere dei risultati.
Domanda: Però lo dicono, lo dicono continuamente.
Risposta: Lo so. Comunque i risultati devono essere conseguiti nel più scrupoloso rispetto delle altrui competenze. Si tratta di due cose diverse; a dirigere con il manganello siamo tutti bravi. Un pochino più difficile è dirigere rispettando le competenze altrui ed esercitando le proprie. Il collegio dei docenti non deve essere prevaricato (dal dirigente), ma anche il dirigente non deve essere prevaricato (dal collegio).
Quindi quel discorso mi torna poco. Che cosa vuol dire che è responsabile dei risultati? Il Presidente del Consiglio è responsabile dei risultati, ma un decreto legge con cui minaccia la pena di morte per qualcuno non può farlo, né quello di ora, né quello che c'era prima. E' lo Stato di diritto, nel quale bisogna governare dando per normale che si debbono gestire i conflitti secondo le regole stabilite e che la vita va avanti grazie ai conflitti, sempre che ciascuno non debordi.
Domanda: Sì, i conflitti a partire da quelle che sono le proprie competenze; perché la cosa che succede nelle scuole della Repubblica, usando il termine che usava lei, è che il dirigente è praticamente risucchiato in una logica di tipo burocratico-manageriale (R: Soprattutto burocratica...) e l'insegnante purtroppo è risucchiato invece in una logica impiegatizia. Se ci fosse una coscienza professionale alta, un collegio non si fa prevaricare e rispetta i dirigenti. Se il dirigente a sua volta avesse uno spessore culturale all'altezza dei compiti, saprebbe gestire i conflitti e governarli.
Domanda: Ma secondo lei, l'assunzione, anche ora, da parte di un’ associazione, di principi etici tipo quelli della nostra ipotesi, un po’ come manifesto, ha un senso?
Risposta: Certo che ha un senso. Veramente vorrei non essere equivocato. La molla della libertà è l'iniziativa associata come un fatto puramente privato, espressione della libertà di privati, che insieme vogliono e insieme fanno. La partecipazione nella scuola è morta quando l'hanno istituzionalizzata. Se come associazione lo fate, vi ringrazio come cittadino. Vi identificate: siamo un'associazione di docenti e ci vincoliamo a questi principi. Se come associati vi volete vincolare a un codice etico, è cosa che professionalmente dimostra la vostra consistenza e la vostra serietà.
[1] Docente di Diritto amministrativo presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Firenze.