La “Conferenza dei Ministri dell’Istruzione” tenutasi a Lisbona
il 23-24 marzo 2000, ha avviato la politica europea per l’educazione, che non
poteva aver origine se non da una delega da parte dei quindici, in quanto la
Commissione Europea non può operare senza l’unanime consenso di tutti gli stati
membri. In questo caso c’è stato quell’accordo unanime che spesso manca tra i
governi dell’Unione. L’interessamento della commissione europea è giunto a
seguito del Trattato di Maastricht del 1992, che con l’art. 126 accorda per la
prima volta alla Commissione europea competenze in materia d’insegnamento. Viene
creata successivamente la Direzione generale dell’Educazione della Formazione e
della Gioventù (DGXXII), diretta dalla socialista francese Edith Cresson, una
sorta di «ministero» europeo dell’Educazione, e immediatamente attivato un
«gruppo di riflessione sull’Educazione e la formazione» sotto l’egida del prof.
Jean-Louis Reiffers, che partecipa all’elaborazione del Libro Bianco “Insegnare
e imparare : verso la società cognitiva”. Con l’arrivo alla Commissione di
Viviane Reding si passa concretamente alla fase di realizzazione. I progetti
elaborati in forma teorica fino a questo punto trovano l’avallo dei Ministri
nazionali dell’educazione per «mobilitare le comunità educative e culturali così
come i soggetti economici e sociali europei al fine di accelerare l’evoluzione
dei sistemi educativi e di formazione come anche la transizione dell’Europa
verso la società della conoscenza». Le decisioni di Lisbona rappresenteranno, e
rappresentano ancora, una pesante ipoteca sulle prospettive di riforma e
sull’autonomia dei singoli stati in materia di istruzione, non solo per la
modalità poco democratica con cui la Commissione abitualmente opera, bensì
soprattutto per i contenuti specifici delle sue proposte. In applicazione alle
decisioni del summit di Lisbona la Commissione pubblica nell’ottobre un
“Memorandum sull’educazione e la formazione permanente”, e a fine gennaio 2001
il testo strategico: “I futuri obiettivi concreti dei sistemi di Educazione”
raccogliendo i contributi dei singoli stati e i risultati delle prime
discussioni. “L’idea madre, l’ideologia fondatrice di questa politica educativa
comune, è riassunta come segue nella maggior parte di questi documenti:
«l’Unione europea si trova di fronte ad una svolta formidabile indotta dalla
mondializzazione e dalle sfide relative a una nuova economia fondata sulla
conoscenza». Da questo momento l’insegnamento europeo deve piegarsi ad un
«obiettivo strategico» principale: aiutare l’Europa a «diventare l’economia
della conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, capace di una crescita
economica duratura».
Orientamenti e direttive della
strategia di Lisbona
Il primo orientamento specifico che emerge dai documenti europei
riguarda la centralità delle competenze. Per quanto riguarda i contenuti
disciplinari o i programmi d’insegnamento è giunto il momento di uscire di
scena: trasmettere saperi non è più prioritario nella scuola che diventa risorsa
strategica per l’economia della conoscenza. Se finora avevamo concepito
l’apprendimento significativo di sapere come l’esperienza cognitiva fondamentale
per lo studente, il cui obiettivo era l’acquisizione e lo sviluppo di capacità
critiche quali la comprensione della realtà, la capacità di comprenderne i
significati nelle più varie forme, di valutare il peso e l’importanza di fatti,
eventi, fenomeni culturali, di orientarsi autonomamente, ecc. ora l’obiettivo
diventa la soluzione di problemi: “in quanto capacità di risolvere dei problemi,
la competenza non può che acquisirsi mettendo il «discente» - soggetto del
proprio apprendimento in opposizione all’allievo, presunto passivo – « nella
condizione» di far fronte a problemi di un dato tipo, affinché esso si eserciti
a «mobilizzare» il proprio sapere e saper-fare in determinate categorie di
situazioni concrete”.
Per la discussione sui fondamenti pedagogici dell’approccio per competenze e
sulla sua efficacia in relazione agli obiettivi rimando al testo di Hirtt che è
reperibile sul sito belga “Pour une école démocratique”.
Le conclusioni del Consiglio europeo di Lisbona indicano nelle
competenze pluridisciplinari o trasversali, nelle nuove competenze di base
(relative alle tecnologie dell’informazione, alle lingue straniere), i futuri
obiettivi di insegnamento, precisando che «non si tratta di una lista di
soggetti o discipline come le abbiamo conosciute a scuola o successivamente»;
sottolinea inoltre la centralità delle competenze sociali: «fiducia in se
stessi, indipendenza, attitudine ad assumersi rischi»; competenze relative allo
spirito d’impresa: «capacità dell’individuo a superarsi nel campo
professionale», «attitudine a diversificare le attività d’impresa». Segue
immediatamente la formazione permanente: «una educazione di base di qualità per
tutti, fin dalla più tenera età, costituisce un preambolo essenziale.
L'educazione di base, seguita da un’educazione e da una formazione professionale
iniziali, dovrà permettere all’insieme dei giovani di acquisire tutte le nuove
competenze fondamentali richieste da una società fondata sulla conoscenza. Essa
dovrà anche "insegnargli ad imparare" e dargli un’immagine positiva
dell’apprendimento»; l’adattamento dei sistemi educativi «a un mondo in cui
l’educazione e la formazione si perseguono durante tutta la vita» è individuato
come «la più importante delle sfide con cui tutti gli Stati membri si
confrontano».
La seconda direttiva invoca una profonda deregolamentazione,
ritenuta essenziale per attuare la flessibilità dell’educazione e della
formazione; spazio quindi all’autonomia e alla concorrenza tra diversi livelli
di gestione che dovranno sostituire le istituzioni pubbliche gestite
centralmente e attuare forme di partenariato con le imprese, il territorio e
altre agenzie formative. Seguono la diversificazione dell’offerta formativa,
sistemi elastici di validità dei titoli, programmi di convergenza dell’offerta
di insegnamento superiore in Europa, da cui è scaturita una dichiarazione
congiunta su "lo Spazio europeo d’insegnamento superiore", firmata dai Ministri
dell’Educazione di 29 Stati europei, tra cui gli Stati membri dell’Unione
Europea e dello Spazio Economico Europeo. A questo punto possiamo già trovare
negli orientamenti europei la paternità di gran parte delle novità italiane:
l’autonomia, le TIC (con relativi corsi di aggiornamento), le reti di scuole, le
reti informatiche interne, i partenariati con le industrie (attivate con i corsi
IFTS), ecc.
Economia e conoscenza saranno alla base della futura politica
europea per l’educazione, che dovrà stabilire gli obiettivi e le modalità di
riforma che saranno necessarie per fare della scuola una delle risorse
utilizzabili nella sfida per il primato economico nel nuovo scenario globale. La
scuola pubblica, in quanto pagata dalla società tutta, ha sempre dovuto
rispondere a esigenze e interessi dei corpi sociali, dell’economia, della
politica, ecc. La prevalenza odierna dell’economia su ogni altra istanza
rappresenta la forma attuale di questa dipendenza, che, sfruttando le leve
tecnico-burocratiche fornite dai processi di integrazione europea, sta
progressivamente attuando una ridefinizione delle finalità dell’istruzione
pubblica, favorita anche dalle incertezze delle politiche dei governi in materia
scolastica negli ultimi trent’anni, dalle mode pedagogiche “progressiste” che
hanno giustificato e reso condivisibile il giudizio sulla scuola arretrata e
sugli insegnanti autoritari incapaci di dialogare con i giovani, e dalle
trasformazioni indotte dai nuovi media, dall’informatica per comunicare, dalla
multimedialità, sempre più frequentemente proposti come un’alternativa formativa
flessibile e interattiva, democratica e ubiquitaria che si fa spazio a spese
della rigidità, monomediale e direttiva della scuola istituzione, ancora fondata
sulla presunzione di essere l’unica agenzia responsabile della trasmissione del
sapere.
Analisi sulla logica della strategia di Lisbona
Ragioniamo ora sulla logica di quanto è stato elaborato in
Europa. La formazione scolastica negli stati europei era caratterizzata
prevalentemente da sistemi educatici organizzati e finanziati prevalentemente
dallo stato, che dovevano garantire, attraverso percorsi rigidi, l’acquisizione
di qualifiche precise, spesso fortemente specializzate. Ciò rispondeva ad una
situazione economica, quella dei gloriosi trent’anni di crescita economica,
della occupazione crescente, che avevano richiesto un aumento costante della
qualificazione e la conseguente massificazione della scuola. L’imprevedibilità
dei cambiamenti industriali e tecnologici, accellerati dall’accumulo delle
conoscenze, la concorrenza basata sulla capacità di innovazione e la fuga in
avanti della mondializzazione hanno creato uno scenario completamente nuovo.
L’occupazione precaria si estende in proporzione all’estendersi dell’instabilità
economica, e alla richiesta crescente di esperti nei settori informatici,
ingegneristici e della gestione delle risorse, fa riscontro un’altrettanto forte
crescita di un’occupazione a basso livello di qualificazione: “il mercato del
lavoro ormai non richiede più un elevamento generale dei livelli di
qualificazione, come è stato nel corso di tutto il XX secolo, ma un
appiattimento, una costante dualizzazione di questa formazione”.
Se si aggiunge la crisi finanziaria degli stati che impone politiche di tagli
alle spese sociali per garantire la “defiscalizzazione competitiva”, abbiamo il
quadro completo dello scenario dal quale sorge il progetto europeo di una
politica scolastica comune. Siccome la scuola deve rispondere alla società che
le assegna il mandato educativo e le garantisce finanziariamente di operare, non
c’è da stupirsi se periodicamente questo mandato viene ridefinito in relazione
agli scopi che le forze sociali ritengono prioritari. “Se si ammette il
postulato secondo cui la competizione economica è il solo o, in ogni caso, il
miglior modo di regolamentare le attività umane, quali che siano – e tale sembra
essere attualmente l’ideologia dominante all’interno dei cenacoli europei – non
ci si stupirà del fatto che l’insegnamento venga a sua volta pensato come un
mezzo per sostenere la competitività delle imprese. In materia di politiche
educative, questo significa attualmente tre cose: (1) assicurare la qualità del
capitale umano attraverso un adeguamento ottimale scuola-economia, (2)
utilizzare la scuola come leva a sostegno dei mercati emergenti e (3)
posizionarsi nella conquista del mercato dell’insegnamento”.
In uno scenario economico che evolve velocemente e in modo imprevedibile
l’Europa “ha bisogno di lavoratori più adattabili, sempre più in grado di
svolgere mansioni diversificate”.
La scuola stessa deve essere in grado di ridefinire velocemente i propri
obiettivi, adattandosi alle esigenze che provengono dall’esterno (società,
famiglie, imprese), deve imparare a lavorare su “progetti”, applicare forme di
controllo relative all’efficienza e all’efficacia, operare in autonomia,
alleggerendosi anche di quelle strutture burocratiche e centralistiche che
impediscono il cambiamento e hanno notevoli costi di gestione. Dall’obiettivo di
un’estensione dell’accesso alla conoscenza che aveva guidato la scuola dagli
anni sessanta in poi, si ritorna all’ammissibilità di una diversificazione dei
percorsi: la vecchia scuola che pretendeva di insegnare tutto a tutti, costosa,
burocratica e autoreferenziale, deve lasciare il posto ad un sistema flessibile
che insegni ai più le competenze utili ad imparare ad apprendere (cosa che
dovranno fare per tutta la vita visto che dovranno cambiare frequentemente
lavoro), mentre ai pochi superspecializzati provvederanno gli istituti di alta
formazione. La scuola dovrà inoltre dare un rilevante contributo alla crescita
delle competenze informatiche, al fine di recuperare il gap che separa l’Europa
dalla più dinamica economia del pianeta. L’utilizzo dell’informatica
nell’insegnamento e l’apprendimento a distanza (e-learning, che era appunto il
tema del summit di Lisbona) devono caratterizzare i programmi di insegnamento
europei nei prossimi anni. Già il rapporto Reiffers, nel 1996 affermava: “si può
dubitare che il nostro continente possa avere il ruolo industriale che gli
compete su questo nuovo mercato, se i nostri sistemi scolastici e di formazione
non rispondono rapidamente. Lo sviluppo di queste tecnologie, in un contesto di
forte concorrenza internazionale, ha bisogno di giocare pienamente sugli effetti
di scala. Se il mondo dell’educazione e della formazione non li utilizzano, il
mercato europeo diventerà troppo tardi un mercato di massa e l’auspicata
evoluzione dell’educazione e della formazione sarà realizzata da altri”.
Anche in questo caso è evidente la ricaduta sull’attività scolastica quotidiana:
basta considerare quante parole si sono spese, anche solo in Italia, per
celebrare le potenzialità didattiche dell’informatica, della multimedialità,
della rete internet, addirittura dei videogiochi; in questi settori sono stati
spesi soldi pubblici e soldi privati, si sono creati spazi di arricchimento per
società che hanno fornito e continuano a fornire hardware e software, si sono
spese le capacità di invenzione di docenti e tecnici; si è investito nelle
attività di formazione, spesso in modo episodico, e, almeno a parole,
l’alfabettizzazione informatica è stata sbandierata da tutti i governi come lo
strumento principale dell’innovazione. Nel bene e nel male intanto la scuola è
diventata un mercato appetibile per venditori e fornitori, consulenti,
sistemisti, manutentori, ecc., grazie ad essa anche docenti e studenti
accedevano al consumo informatico e contribuivano ad integrarsi nel nuovo
universo dei consumatori digitali. Se non è serivto alla scuola forse, almeno, è
servito all’economia. Il ruolo cruciale giocato dai settori più influenti
dell’economia europea nell’indirizzare la politica europea per l’educazione è
confermato dalla consonanza tra gli obiettivi europei e le indicazioni dell’ERT
espresse nel documento del 1989 intitolato “Educazione e competenza in Europa” e
in successivi del 1995 e del 1997,
nei quali gli industriali lamentando una scarsa interazione tra scuole e
imprese, una comprensione insufficiente dell’ambiente economico da parte degli
insegnanti, indicavano «l’importanza strategica vitale della formazione e
dell’educazione per la competitività europea » e peroravano un rinnovamento
accelerato dei sistemi d’insegnamento e dei programmi.
Continuando a ragionare sulle motivazioni profonde degli impulsi
che la politica europea dell’educazione sta inviando scopriamo che la scuola può
diventare un affare anche per l’economia privata. L’OCSE stimava nel 1997
l’investimento per la scuola nel mondo in 2000 miliardi di dollari, ed in 1000
miliardi quello negli Stati membri (circa: 4 milioni di insegnanti, 80 milioni
di studenti, 315 mila istituti e 5 mila università),
e nel 1996 aveva già constatato che “l'apprendimento
a vita non può fondarsi sulla presenza permanente di insegnanti ma deve essere
assicurato da 'prestatori di servizi educativi' (...). La tecnologia crea un
mercato mondiale nel settore della formazione”;
in un altro dello stesso anno rilevava: “negli
Stati uniti, il progetto Annenberg/Cpb collabora con i produttori in Europa, in
Giappone e in Australia per la creazione di vari tipi di nuovi corsi, che
dovranno essere utilizzati nel teleinsegnamento (...) Gli studenti diverranno
clienti, e gli istituti di studi saranno concorrenti in lotta tra loro per
ottenere quote di mercato (...). Gli istituti sono incitati a comportarsi come
imprese”;
oppure, con le parole di M. Murphy:
“la decisione politica di incoraggiare l'apprendistato a vita è destinata a
fornire alle grandi imprese europee l'infrastruttura educativa essenziale al
mantenimento dei loro tassi di profitto”.
Si viene a realizzare passo a passo uno degli scenari che la stessa Commissione Europea aveva
delineato all’inizio degli anni novanta impostando la propria riflessione sul
ruolo strategico dell’insegnamento a distanza e sul mercato di strumenti
didattici, di software e hardware, di strumenti per la connessione, la
comunicazione e l’intrattenimento, che coinvolge editoria, telefonia e Tv, che
la formazione permanente potrà creare. Perchè: “un'università aperta è
un'impresa industriale e l'insegnamento superiore a distanza è una nuova
industria. Quest'impresa deve vendere i suoi prodotti sul mercato
dell'insegnamento permanente”.
Il consulente americano Eduventures, specializzato
in Education-Business, afferma che “gli anni 90 resteranno negli annali per
l’aver permesso la maturazione dell’insegnamento di mercato ("for-profit
education"). Le fondamenta della vibrante industria educativa del XXI secolo –
iniziative imprenditoriali, innovazioni tecnologiche e opportunità di mercato –
hanno iniziato a muoversi per raggiungere la propria massa critica”.
Non ci sono quindi profonde riflessioni pedagogiche alla base del progressivo
scivolare della scuola dei saperi verso la scuola delle competenze, del portfolio, delle certificazioni spendibili, dell’imparare ad apprendere. I
pedagogisti hanno eseguito un’operazione di giustificazione: hanno cercato da
una parte di descrivere come innovazione un cambiamento spinto dalla necessità
di adeguare le competenze dei futuri lavoratori ad sistema produttivo sempre più
caotico e dualizzato, mentre dall’altra si realizzava un allineamento delle
forme di apprendimento alle nuove opportunità di consumo offerte dal mercato
della formazione personalizzata, flessibile, continua e – ovviamente- a
pagamento. Ma siccome avremo a che fare con percorsi di apprendimento che
dovranno condurre ad esiti certificabili, spendibili in tutta l’area
dell’Unione, integrabili con altri percorsi, con precedenti fasi di formazione,
acquisibili in enti pubblici o in strutture private, individualmente o in
gruppo, allora solo usando descrittori che permettano di definire con precisione
il “saper fare” potremo evitare il caos degli infiniti titoli o certificati
professionali rigidi cui si potrebbe andare incontro. Ecco l’importanza delle
parole magiche che già da almeno dieci anni inflazionano la nostra odissea
didattica: conoscenze, competenze e capacità. Aggiungo solo alcune
considerazioni su una di queste utilizzando le riflessioni di Hirtt: “La
dottrina detta de «l’approccio per competenze» è volta essenzialmente a mettere
le competenze al centro delle preoccupazioni dell’insegnante. E questo, ci viene
detto, in opposizione a «l’ampliamento delle conoscenze». Tale approccio non è
dunque riducibile ad una pedagogia: esso integra chiaramente una determinata
visione degli obiettivi dell’insegnamento. ... Tuttavia, l’approccio per
competenze implica anche un certo tipo di approccio pedagogico, dato che
esso raccomanda di mettere in linea le pratiche di insegnamento con il nuovo
obiettivo: in quanto capacità di risolvere dei problemi, la competenza non può
che acquisirsi mettendo il «discente» - soggetto del proprio apprendimento in
opposizione all’allievo, presunto passivo – «nella condizione » di far fronte a
problemi di un dato tipo, affinché esso si eserciti a « mobilizzare» il proprio
saperi e saper-fare in determinate categorie di situazioni concrete. Questa
pratica non è scevra dal presentare qualche similitudine con quelle proposte
dalle scuole pedagogiche del movimento costruttivista. Anche qui si insiste
spesso sul ruolo attivo dell’allievo e sulla necessità di metterlo «nella
condizione di ricerca» grazie alla messa in atto di “cantieri di problemi”.
Vedremo comunque più avanti che la somiglianza si ferma qua.”.
In effetti il problema centrale è che da una parte, per il 20% della popolazione
studentesca che occuperà posti a livello molto alto di qualificazione i saperi
forniti dai programmi di insegnamneto sono obsoleti o insufficienti, mentre per
la massa che potrà accedere solo ad occupazioni che richiedono qualificazione
bassa essi sono superflui. Una educazione disinteressata, liberale, non è più
concepibile se la conoscenza deve diventare una risorsa strategica per
l’economia; ecco quindi “la volontà di concentrare la formazione su quelle
competenze di base comuni a tutti : lettura, scrittura, calcolo, alfabetizzazione informatica, adattabilità, capacità di risolvere problemi,
competenze sociali, etc…”.
La pedagogia incontra l’economia, la quale va a braccetto della politica. Il
cerchio si chiude dove si era aperto.
N. Hirtt, A proposito dell’approccio attraverso le competenze.
Abbiamo bisogno di lavoratori competenti o di cittadini critici?,
Appel pour une école démocratique, trad. di Paola Capuozzi.
Commission des Communautés Européennes, e-Learning. Penser
l'éducation de demain, communication de la Commission, COM (2000)
318 final, Bruxelles, le 24.5.2000 [a]. Commission des Communautés
Européennes, Mémorandum sur l'éducation et la formation tout au long
de la vie, SEC (2000) 1832, Bruxelles, le 30.10.2000 [b]. Commission
des Communautés Européennes, Communication concernant une initiative
de la Commission pour le Conseil européen extraordinaire de Lisbonne
des 23 et 24 mars 2000 [c]. Commission des Communautés Européennes,
Les objectifs concrets futurs des systèmes d'éducation, Rapport de
la commission, COM (2001) 59 final , Bruxelles, le 31.01.2001.
ERT, Education et compétence en Europe, Etude de la Table Ronde
Européenne sur l'Education et la Formation en Europe, Bruxelles,
février 1989. ERT, Construire les autoroutes de l’Information pour
repenser l’Europe, Un message des utilisateurs industriels,
juin 1994. ERT, Une éducation européenne, Vers une société qui
apprend, Un rapport de la Table Ronde des Industriels européens,
Bruxelles, Février 1995. ERT, Investir dans la connaissance,
L'intégration de la technologie dans l'éducation européenne,
Bruxelles, février 1997.
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