IL BURN-OUT

Burn-out: se ne parla molto, si conosce poco.

 

Ma affligge un numero sempre crescente di insegnanti e sta assumendo, nella scuola,  le dimensioni di una vera e propria epidemia.

Ne avevamo parlato nel nostro giornale: nel mese di dicembre 2001 “Professione Docente” pubblica l’articolo-intervista a Emanuele Bartolozzi  Star bene a scuola, da cui emerge una realtà di forte disagio, e nel mese di novembre  2002 ospita, insieme ad una  sintesi dello studio milanese che ha fatto esplodere il caso (Studio Getsemani) e ad una breve analisi della patologia, anche  una “storia”, una storia vera:

 

“Stare a scuola mi piaceva e all’insegnamento ho sempre creduto, ci racconta Lorenza. Il contatto con i ragazzi, il senso del mio lavoro, era tutto chiaro. Talvolta mi ha aiutato anche a superare i miei problemi. Partecipare alla crescita dei ragazzi, inventare sempre nuovi modi per interessarli, abbiamo fatto tante cose belle… Poi, non so, è cambiato tutto…” (I segni dello stress, Storia di Lorenza)

 

Storie come queste non costituiscono più l’episodio sporadico, ma il quotidiano della scuola. Non a caso gli echi mass-mediatici si richiamano, e dai giornali  (vedi “Il Sole 24 ore”, inserto Scuola) si insinuano nei convegni. La CGIL, senza dubbio affascinata dal titolo che “Professione Docente” ha dato all’inchiesta - INSEGNARE STANCA - organizza a Milano un convegno sull’argomento che reca lo stesso titolo.  E lo costella di storie, che non sono altro che la storia di Lorenza, la “nostra” storia ripetuta all’infinito.

 

Cosa possiamo dire noi a Lorenza, Giuliana, Roberta o le tante altre (donne!!!  in un mondo – come quello della scuola –  quasi tutto al femminile). Nulla come terapeuti, poco come colleghi, ma molto come membri di un’Associazione.

Possiamo prima di tutto ascoltare. Diffondere gli studi, le analisi, i questionari che intendono fare una rilevazione scientifica del problema. Ed è quello che vogliamo fare in uno spazio tematico di prossima apertura nel sito nazionale della Gilda (www.gildains.it).  Ma non solo. L’obiettivo che ci siamo posti al nostro nascere come Gilda – la rivisitazione/rivalutazione del ruolo istituzionale dell’insegnante, avvilito dalle stesse organizzazioni sindacali che sostengono di difenderlo – assume ora carattere di urgenza. Perché lo stereotipo negativo dell’insegnante, così ben radicato nell’opinione pubblica e spesso strumentalmente alimentato dai mass-media, non è certo estraneo a questo fenomeno di burn-out generalizzato.

 

Per cominciare a capire il burn-out leggiamo l’articolo che Emanuele Bartolozzi*** ci ha gentilmente concesso di pubblicare.

 

 

*** Emanuele Bartolozzi è docente e attualmente lavora come psicologo e psicoterapeuta nel Gruppo di lavoro “PROGETTO ALICE” della regione Toscana.

 


 

I rischi del mestiere: Il burnout nella professione docente.

Emanuele Bartolozzi e  Christina Bachmann

 

Il termine burnout compare per la prima volta negli Anni '30 nel gergo sportivo e indica il fenomeno per il quale un atleta, dopo alcuni anni di successi, si esaurisce, si brucia e non può più dare nulla agonisticamente. A partire dagli Anni '70 entra nella terminologia dell'ambito lavorativo, in particolare nella letteratura riguardante le professioni d'aiuto.

Recentemente, soprattutto in seguito ad alcune importanti evidenze scientifiche, si sta iniziando a parlare di burnout anche in altri ambienti lavorativi, in particolare in quello scolastico. E' un termine che non è ancora contemplato dal DSM-IV, cioè dal sistema di classificazione internazionale delle patologie psichiatriche, non ha ricevuto nessun riconoscimento istituzionale ed è trascurato dai sindacati, ma sembra riguardare i docenti in misura maggiore rispetto ad altre professioni.

Viene spesso erroneamente interpretato come scarsa motivazione, incompetenza, fragilità psicologica.

Il termine è stato introdotto in psicologia per la prima volta da Maslach (1982) per indicare una malattia professionale degli operatori d’aiuto. Oggi il suo campo di indagine si estende e diventa una patologia comportamentale a carico di tutte le professioni ad elevata implicazione relazionale.

Occorre distinguere il burnout dallo stress: il burnout può manifestarsi in concomitanza dello stress e lo stress può esserne una concausa, ma non necessariamente quando c'è una situazione di stress c'è anche burnout. Quando si parla di burnout si parla di una sindrome, cioè di una costellazione di sintomi e segni.

Il burnout è diverso anche dalle nevrosi: si tratta di una patologia comportamentale più che di un disturbo della personalità.

Sono state date più definizioni del termine, l'argomento è piuttosto recente e i nuovi studi ricerche aggiungono continuamente conoscenze del fenomeno. Inizialmente per Maslach, (1975) era una perdita d’interesse nei confronti delle persone con cui si lavora, successivamente si è notato che se questa perdita d'interesse si accompagna a stress e insoddisfazione eccessivi può portare ad una ritirata psicologica dal lavoro (Cherniss, 1983).

Edelwich e Brodsky (1980) definiscono il burnout come una progressiva perdita di idealismo, energia e scopi, vissuta da operatori sociali, professionali e non, come risultato delle condizioni in cui lavorano.

Riportiamo la definizione che è stata data del burnout nel Progetto di Legge 4562 del 2 maggio 2000: "Sindrome di esaurimento emozionale, di spersonalizzazione e di riduzione delle capacità professionali che può presentarsi in soggetti che per mestiere si occupano degli altri e si esprime in una costellazione di sintomi quali somatizzazioni, apatia, eccessiva stanchezza, risentimento, incidenti"

Quali sono gli elementi principali che caratterizzano questa sindrome? L'affaticamento fisico ed emotivo, quello che una volta si definiva semplicemente esaurimento; l'atteggiamento distaccato e apatico nei rapporti interpersonali, per quanto concerne gli insegnanti sia nei rapporti con gli studenti, con i genitori che con i colleghi; il sentimento di frustrazione dovuto alla mancata realizzazione delle proprie aspettative professionali.

Recentemente da Folgheraiter (1994) è stato individuato un quarto sintomo: la perdita della capacità di controllo rispetto alla propria attività professionale, che porta a una riduzione del senso critico e quindi a una errata attribuzione di valenza alla sfera lavorativa.

La sindrome del burnout è caratterizzata da particolari stati d'animo (ansia, irritabilità, esaurimento fisico, panico, agitazione, senso di colpa, negativismo, ridotta autostima, empatia e capacità d’ascolto), somatizzazioni (emicrania, sudorazioni, insonnia, disturbi gastrointestinali, ecc.) e reazioni comportamentali (assenze o ritardi frequenti, distacco emotivo, ridotta creatività, ecc.).

Come si fa a rilevare la presenza di burnout? Uno dei primi e dei più importanti strumenti è il Maslach Burnout Inventory. In questo test vengono individuati tre ambiti di burnout. Il primo riguarda l'esaurimento emotivo, cioè lo svuotamento delle risorse emotive e personali. Prevalgono la stanchezza, la fatica e i sintomi psicosomatici. Può presentarsi in concomitanza a sindromi ansiose o depressive, ma non necessariamente. Il secondo ambito riguarda la depersonalizzazione, cioè il soggetto si sente inadeguato al suo compito ed assume atteggiamenti e sentimenti negativi, cinici, di distacco nei confronti degli altri. Il terzo riguarda la bassa realizzazione professionale, il soggetto si valuta in modo negativo sul lavoro, ha bassa autostima, viene meno il desiderio di successo, è frustrato per la mancata realizzazione delle sue aspettative, perché sente che la propria soddisfazione dipende da agenti esterni, dalle istituzioni, dalle riforme, ecc.

Individuarne le cause è piuttosto difficile poiché si tratta di un fenomeno multidimensionale, influenzato da più fattori, sia di tipo oggettivo sia soggettivo. I fattori soggettivi sono particolarmente importanti, infatti persone diverse che condividono uno stesso ambiente lavorativo non tutte sviluppano la sindrome. Molto dipende dalla loro personalità, dalle strategie di coping, dalle esperienze precedenti, dalla resistenza allo stress e alle frustrazioni.

In generale tra le cause principali possiamo nominare una eccessiva idealizzazione della professione, mansioni frustranti o inadeguate alle aspettative, organizzazione del lavoro disfunzionale o patologica.

L'insegnante può aver trovato lungo la sua strada situazioni predisponenti all'insorgere del burnout: fattori sociali e personali, fattori relazionali o fattori professionali.

I fattori personali hanno un'importanza rilevante per un insegnante nel suo lavoro e nella qualità dell'insegnamento. All'insegnante viene chiesto di intervenire nel suo lavoro con tutta la sua persona, utilizzando risorse sia professionali ma anche e soprattutto personali: le sue esperienze, il suo modo di vedere la vita, la sua personalità. I docenti delle scuole pubbliche in Italia sono 700.000, la scuola è l'impresa con il maggior numero di lavoratori ed è un'impresa particolare, poiché basa tutta la sua produttività sulle persone stesse, cioè sui docenti.

Risulta difficile fare un elenco completo di quali siano i fattori personali predisponenti, ne nomineremo solo alcuni che sono più frequentemente riportati nelle ricerche sull'argomento. Le prime sono variabili di tipo socio-demografico: sesso, età, religione, condizione socio-economica, ecc., le altre riguardano caratteristiche di personalità.

La figura classica dell'insegnante che soffre di burnout è quella di un giovane che si è sentito portato all'insegnamento, che ha visto il suo futuro lavoro quasi come una missione, che lo ha caricato di ideali e di aspettative, ma che poi negli anni si è trovato di fronte a un lavoro diverso da quello che si aspettava, più difficile, più stancante, retribuito poco rispetto alle energie che richiede. Spesso l'insegnante adulto per anni ha dovuto combattere contro un sistema che non funziona, contro le resistenze al cambiamento, contro burocrazie.

Tra i fattori relazionali può aver trovato difficoltà nel rapporto con gli studenti o con i genitori, classi troppo numerose, un'eccessiva competività con i colleghi.

Oppure (o in aggiunta) può essere incappato in fattori professionali tipici del suo lavoro: la situazione di precariato, l'ambiguità di ruolo, la costante necessità di aggiornamento, un sistema retributivo insoddisfacente, richieste eccessive.

Oltre ai fattori già nominati, vi è una quarta categoria, direttamente legata ai cambiamenti sociali e culturali dell'ambiente in cui viviamo. Essi sono: il susseguirsi continuo di riforme, il passaggio al lavoro d'équipe, il mancato riconoscimento della professione, la scarsa considerazione da parte dell'opinione pubblica, l'avvento dell'era informatica e della società multiculturale.

Quali sono le conseguenze? Come reagisce l'insegnante di fronte ad una situazione che ritiene insostenibile? Può mettere in atto diverse strategie, dette strategie di coping, cioè meccanismi atti a difendersi dagli agenti stressanti.

Può adottare azioni dirette, cioè affrontare il problema di petto, esserne consapevole, cercare attivamente soluzioni nuove. Oppure può entrare in un circolo vizioso di frustrazioni, mettendo in atto strategie inadeguate, che lì per lì allontanano il problema ma che, non solo non aiutano ad affrontarlo, ma nel tempo lo aggravano. Si tratta di strategie diversive (apatia), oppure strategie d fuga, che portano all'abbandono dell’attività, oppure strategie palliative, come l'assunzione di sostanze, psicofarmaci, consumo eccessivo di caffè, sigarette, alcolici.

Esistono pochi studi in Italia sull'argomento, ancora meno riguardo alla categoria professionale degli insegnanti. Recentemente è stato reso pubblico uno studio svolto dalla ASL Città di Milano che intendeva prendere in esame i lavoratori dell'amministrazione pubblica e che a sorpresa ha fornito dei risultati interessanti per la categoria insegnanti. Si tratta dello Studio Getsemani, che partendo dall'analisi delle domande per inabilità presentate all'INPDAP nel decennio 1992 - 2001, ha preso in esame 3049 casi clinici e ha confrontato i dati di quattro macrocategorie professionali: insegnanti, impiegati, personale sanitario e operatori.

Nonostante gli insegnanti costituiscano soltanto il 18% degli iscritti alle Casse Pensioni INPDAP, la categoria rappresenta il 36,6% delle richieste d’inabilità. Le domande riguardano in maggior misura patologie psichiatriche.

I risultati hanno evidenziato che la categoria degli insegnanti è soggetta ad una frequenza di patologie psichiatriche pari a due volte quella della categoria degli impiegati, due volte e mezzo quella del personale sanitario e tre volte quella degli operatori. La frequenza di questi disturbi tra i docenti è indipendente dal loro sesso e dal tipo di scuola in cui esercitano la professione.

In sintesi quindi è stato rilevato che quasi la metà delle domande di inabilità presentate da insegnanti riguardano patologie psichiatriche e che ben il 75,1 % di queste vengono accolte. Questa percentuale è superiore alla percentuale di domande accolte di utenti appartenenti ad altre categorie (36%).

Lo studio evidenzia inoltre come si verifichi un'anomala situazione di "mobbing atipico", intendendo con esso un processo di allontanamento che gli insegnanti in burnout subiscono da parte della struttura dove lavorano e dell'utenza, direttamente proporzionale alla gravità della patologia manifestata.

Questi risultati hanno stupito l'opinione pubblica : sono apparsi articoli sui giornali e molti esperti sono stati interpellati per commentarli. Per chi lavora nel settore invece non sono risultati sorprendenti: sono finalmente evidenze empiriche di una situazione tristemente nota. Già nel 1986 la Sinascel riferiva di un'indagine campione condotta sugli insegnanti della Lombardia che evidenziava come l'uso di psicofarmaci e ricostituenti rappresentasse ben il 52.5 % dei farmaci consumati dagli insegnanti di scuola elementare.

Purtroppo non è facile ottenere dati simili per zone a noi più vicine: personalmente ho contattato le ASL di Firenze, della Provincia di Firenze e di Prato, e l'INPS, sede locale e sede nazionale. Non dispongono di dati relativi alla categoria insegnanti e non registrano le richieste di inabilità rifiutate (il burnout non viene contemplato tra le cause di inabilità al lavoro). Riferirò perciò di alcune indagini che si sono svolte in Toscana negli ultimi anni: non vantano la sistematicità dello Studio Getsemani, ma rappresentano dei piccoli grandi passi per il riconoscimento della sindrome da parte della autorità competenti.

In una ricerca svolta da alla fine degli Anni '90 in otto circoli didattici nella provincia di Firenze si sono ottenuti punteggi molti alti nel Maslach Burnout Inventory: su 169 test somministrati agli insegnanti di scuola materna, ben il 35,3 % presentava valori alti in una o più sottoscale.

 

Tab.1 Punteggi alti ottenuti nel Maslach Burnout Inventory:

54,5 %            degli insegnanti di Bagno a Ripoli 2

36.8 %            degli insegnanti di Rignano sull’Arno

36.4 %            degli insegnanti di Firenze 12

35 %    degli insegnanti di Signa

33.3 %            degli insegnanti di Lastra a Signa

29.1 %            degli insegnanti di Sesto 1

 26.6 %           degli insegnanti di Sesto 2

 

Successivamente (1997) una rilevazione effettuata su un gruppo di 50 insegnanti di scuola materna e elementare durante un corso di formazione a Lastra a Signa ha dato esiti molto simili: il 30 % dei soggetti ha ottenuto punteggi alti in una o più sottoscale del Maslach Burnout Inventory.

Come affrontare questa situazione e come prevenirla? L’approccio deve essere necessariamente multidimensionale, cioè prendere in esame più fattori e a più livelli, deve coinvolgere le istituzioni, le parti sociali, l'amministrazione scolastica, le associazioni di categoria, gli studenti, le famiglie, la sanità, e deve operare su più livelli, politico, sociale, sanitario ed economico.

E l'insegnante che è in burnout o che si sente ad alto rischio, che può fare? Innanzitutto deve potersi avvalere di esperti e specialisti del settore. Gli interventi devono avere lo scopo sia di risolvere situazioni difficili come di prevenire quelle future. La formazione deve essere permanente: questo significa che non basta assistere a un paio di incontri con un formatore o psicologo, occorre un'équipe che lavori insieme sotto la costante supervisione di uno psicologo. Un'équipe non è un gruppo di rivali né di nemici e lo psicologo non è il capo: il gruppo lavora insieme per uno scopo comune, per essere luogo di confronto, di critiche costruttive, di scambio, dove portare le proprie esperienze e i propri vissuti personali. Con questo lavoro di équipe possono essere affrontate difficoltà personali e organizzative. E' fondamentale coinvolgere tutta la struttura in un programma di lotta al burnout, utilizzando tutte le risorse: contesto lavorativo, alunni, insegnanti, psicologi, dirigenti.

 

Bibliografia

Avitabile, A. (2002). Scoppia il burnout tra gli insegnanti. Rassegna sindacale, n.39.

Bartolozzi, E. (1985). L'insegnante in crisi. Vita dell'infanzia, n.2.

Cherniss C. (1980). Staff burnout: job stress in the human services. Beverly Hills, Sage; trad. It. La syndrome del burnout, Torino, CST, 1983.

Contessa, G. (1995). La prevenzione del burnout. Il vaso di Pandora, Vol, III, n.3.

Edelwich, J.E., & Brodsky, A. (1980). Burn-out. Stages of disillusionement in the helping professions. Human Sciences Press, N.Y.

Folgheraiter F., "Introduzione all'edizione italiana". In G. Bernstein e J. Halaszyn, Io operatore sociale. Trento: Centro Studi Erickson, 1994.

Lodolo D'Oria, V., et al. (2002). Burnout e patologia psichiatrica negli insegnanti. Sole Scuola, n.17.

Maslach, C. (1992). La sindrome del burnout. Il prezzo dell'aiuto agli altri. Cittadella Editrice, Assisi.

Maslach, C. & Jackson, S.E. (1986). Maslach Burnout Inventory Manual (2nd edn.). Palo Alto, CA: Consultino Psychologists Press, Inc.