L’insegnante come professionista.
(Un'ipotesi di progressione professionale)
di Fabio Pipitò
0. PREMESSA
Dal tema della progressione professionale e delle
conseguenti differenziazioni stipendiali non credo che gli insegnanti
possano sottrarsi, non solo per evitare che i nostri profili
professionali vengano modificati attraverso provvedimenti legislativi
prima che ai tavoli di contrattazione sindacale, ma anche per dare dei
contenuti alla nostra richiesta dell’area contrattuale separata.
Ritengo che il nostro ruolo (dico della Gilda) dovrebbe
essere quello di suscitare il dibattito tra tutti i colleghi sulle varie
tematiche professionali che attengono al nostro lavoro: insomma,
l’obiettivo ultimo, al di là delle varie rivendicazioni e vertenze di
tipo sindacale, dovrebbe essere quello di promuovere innanzitutto
all’interno della categoria “l’orgoglio professionale”, la
consapevolezza del ruolo decisivo degli insegnanti e della scuola
all’interno di ogni società che voglia vantarsi di definirsi civile, la
determinazione nel contrapporsi a qualunque politica che tenda a
svalutare il significato e il ruolo della cultura e dell’istruzione. E
in relazione a tutto ciò, ogni insegnante dovrebbe sentire la
responsabilità di difendere queste idee, non certo per ottuso e
lobbistico “egoismo”, ma nell’interesse generale di tutti, a partire
dalle giovani generazioni. Non alimentare questo dibattito, e con questi
obiettivi, sarebbe stolto e, credo, il ruolo della Gilda in questa
direzione dovrebbe meglio esplicitarsi. Il rischio che corriamo è quello
di impantanarci sulle tematiche sindacali, tralasciando quelle
professionali, e di dimenticare, o di non comprendere, che le prime
discendono dalle seconde e non viceversa.
Ho l'impressione, infatti, che si oscilli in modo
piuttosto equivoco tra posizioni egualitariste e posizioni "carrieristiche",
laddove per "carrierismo" intendo l'aspirazione (umanamente legittima)
di vedere un proprio riconoscimento professionale con il passaggio alla
docenza universitaria, come se però solo in quei ruoli si possa essere
riconosciuti come "luminari" o esperti, come se però solo da professori
universitari si sia Professori e non anche in una scuola materna o
superiore.
Se, come si
sosterrà di seguito, esistono dei tratti caratterizzanti del nostro
lavoro al di là della comune attività d’insegnamento (che, è bene
sottolinearlo subito, dovrà comunque essere esercitata da tutti gli
insegnanti e che giustifica di per sé l’equiparazione delle
rivendicazioni salariali e dei carichi di lavoro per tutti gli
insegnanti di ogni ordine e grado), vi sono senz’altro altri ambiti non
direttamente collegati all’attività d’aula che distinguono un insegnante
da un altro; e l’esercizio professionale in questi ambiti paralleli,
contemporanei e sinergici (non sostitutivi o alternativi) con
l’attività d’aula non potrà che prevedere delle differenziazioni
stipendiali ed eventuali sviluppi professionali, ferma restando
l’appartenenza al medesimo ruolo.
Insomma, la
tendenza all’egualitarismo è una prigione dalla quale ci si dovrebbe
liberare, perché, alla luce dei fatti, la logica dell’indistinzione
finisce per penalizzare non solo ciascuno di noi ma anche - e
soprattutto - l’essenza stessa del valore professionale del nostro
lavoro e del suo ruolo sociale. Ovviamente le logiche demagogiche o la
legittima e fondata paura della creazione artificiosa di gerarchie
(che, va detto subito e con forza, nella scuola produrrebbero solo esiti
contrari alle migliori intenzioni riformatrici – ammesso e non concesso
che quelle attuali o del passato recente lo siano o lo siano state -,
pena la fine stessa della possibilità di promuovere la già labile
“cultura della collaborazione”) contrappongono ad ipotesi di
progressione professionale la pari dignità di tutte le discipline e di
tutti gli insegnanti nel concorrere alla formazione integrale
dell’alunno! E chi dice di no? Ma è altrettanto indiscutibile che, a
parità di dignità, vi sia, di fatto, un’evidente disparità già nei
carichi di lavoro tra collega e collega (preparazione e correzione di
compiti scritti), tra livello primario e livello secondario (25 o 22+2
ore di lezione della scuola primaria, contro le 18 ore della scuola
secondaria) e, diciamolo pure, tra docenti più o meno impegnati.
In questa
sede, le riflessioni e le proposte che si formuleranno, lungi dallo
scrivente la pretesa di avere esaurito l’argomento, men che meno di
avere proposto un modello condivisibile, vogliono costituire solo uno
stimolo all’abbandono di posizioni pregiudiziali che, ancorché
fondate su legittime preoccupazioni, rischierebbero di condurci ad
uno sterile atteggiamento di chiusura verso forme nuove di ripensamento
del nostro lavoro, che pure mi paiono necessarie.
Ma prima
ancora di entrare nel merito dell’argomento “progressione
professionale”, non mi pare inopportuno tentare di definire
preliminarmente perché siamo dei professionisti. Lo ripeto: la questione
della progressione professionale degli insegnanti è solo uno degli
aspetti, e forse neanche il più importante, della più generale e
fondamentale questione del sistema di Istruzione e di Educazione del
nostro Paese. E, pertanto, ritornare a riflettere su aspetti che si
danno per acquisiti, quale è quello che seguirà, potrebbe aprire nuovi
orizzonti di proposte di revisione del nostro malconcio sistema
scolastico.
1. NATURA PROFESSIONALE DELL’ATTIVITÀ
DEGLI INSEGNANTI
La differenza sostanziale tra un qualunque lavoro ed
un’attività professionale consiste nella diversità della prestazione e
nella preparazione specialistica che tale prestazione richiede. Il
lavoro del comune prestatore d’opera richiede conoscenza settoriale di
uno specifico ambito e si riduce agli aspetti esecutivi e, comunque,
applicativi di una progettualità che altrove ha trovato la sua
elaborazione e i suoi scopi. Il lavoro professionale, invece, parte sì
da una richiesta (la committenza, il servizio da rendere ai singoli e
alla comunità), ma a partire da quella richiesta si concretizza in
un’elaborazione progettuale, in uno studio di tutte le variabili che
intervengono nel processo, in una verifica e in una valutazione del
percorso prescelto, per cui risulta evidente che il momento esecutivo è
solo una, per quanto importante, delle parti di una prestazione che, in
ogni caso, già nella complessità determinata dalle variabili che entrano
in gioco, trova il crisma della sua specificità professionale.
In altri termini, l’agire di un professionista comporta
sempre un’attività di pensiero che precede, accompagna e segue la sua
prestazione. Cosa che, per converso, in una comune prestazione manca, là
dove essa inizia e si conclude nell’esecuzione di un progetto che
altrove è stato concepito e del quale al comune prestatore d’opera si
richiede il prodotto finito che di quel progetto costituiva l’obiettivo.
Se, dunque, riferiamo questi momenti e questi passaggi
alle attività degli insegnanti, ci accorgiamo come essi siano tutti (o
comunque dovrebbero essere tutti) specifici della loro formazione e
della loro cultura professionale, in chiave teorica, e della loro
attività, dal punto di vista pratico.
Come, in ambito medico, un bravo infermiere non si
sognerebbe di somministrare al paziente un farmaco diverso da quello
prescritto dal medico e come un bravo medico non si sognerebbe mai di
prescrivere un farmaco se non alla luce di una diagnosi del caso clinico
che gli viene sottoposto, o di protrarre tale somministrazione di fronte
ad effetti negativi o ininfluenti, così, in ambito scolastico, un bravo
dipendente amministrativo si limiterebbe a trovare la forma migliore per
una lettera di trasmissione di una certa documentazione, senza comunque
stravolgere le indicazioni che gli sono state impartite dal superiore, e
così un bravo insegnante studierebbe il modo migliore per far apprendere
certi contenuti della sua disciplina o per “suggerire” certi
comportamenti ai suoi allievi, senza che comunque altri abbiano in alcun
modo predisposto percorsi o impartito istruzioni sul da farsi, dato che
è l’insegnante stesso a dover creare questi percorsi e a riflettere sui
metodi cui affidarsi per ottenere quel che desidera ottenere.
Insomma, non
bisognerà certo convincere gli insegnanti del valore professionale del
loro lavoro.
Non mi pare,
tuttavia, vano affrontare la questione, dal momento che le politiche
scolastiche dell’ultimo decennio, e comunque a partire dal contratto del
’95, hanno subdolamente e pericolosamente spostato la riflessione sul
problema quantitativo (“la logica dell’aggiuntivo”), allontanandolo da
quello più strettamente culturale, professionale e, in definitiva,
istituzionale. Non vorrei che anche la Gilda degli Insegnanti,
giustamente concentrata sulle questioni sindacali, rischiasse tuttavia
di perdere di vista, come colpevolmente le altre Organizzazioni
sindacali hanno perso di vista, la più determinante questione del ruolo
centrale del Sistema di Istruzione nel nostro Paese.
2. LA (STOLTA) LOGICA DELL’AGGIUNTIVO
A costo di
approfittare della pazienza di chi legge, cercherò di essere più
esplicito al riguardo.
Se, a prima
vista, e comunque concedendo il beneficio della buona fede, i firmatari
del contratto del ’95 avevano realmente pensato al riconoscimento e alla
valorizzazione del carattere professionale della prestazione degli
insegnanti (e la successiva legge sull’Autonomia del ’97 avrebbe dovuto
in chiave teorica costituire il coronamento di quel riconoscimento), di
fatto, quel contratto consacrava - schizofrenicamente - il carattere
professionale del nostro lavoro solo ed esclusivamente per tutte le
attività di progetto al di fuori della didattica disciplinare da
svolgersi all’interno della classe: come se l’attività di ricerca e di
progettazione avesse una sua dignità solo nel progetto da finanziare con
il Fondo d’Istituto (che allora si chiamava ancora, e non a caso, fondo
incentivante!) e non invece, come avrebbe dovuto essere, proprio nelle
attività di insegnamento delle conoscenze disciplinari. Come dire:
finché sei in classe non sei un professionista (!) e pertanto il tuo
stipendio sarà quello di sempre; quando invece “confezionerai” qualche
bel progettino (di qualunque genere e a prescindere dalle ricadute su
quelle attività di insegnamento di cui sopra), ecco per te la
“ricompensa” più o meno congrua per quel che hai proposto!
Se dunque è
vera l’interpretazione di quegli eventi, sarà a partire da essi che
dovremo iniziare il nostro percorso di ridefinizione del carattere
professionale del lavoro d’aula e, più specificamente, sarà necessario
ridefinire il quadro all’interno del quale tale lavoro, già nella
cornice, veda riconosciuta la sua natura.
3.
L’INSEGNANTE COME PROFESSIONISTA (SPECIALISTA)
DELL’ISTRUZIONE E DELL’EDUCAZIONE: CONSEGUENTI CARICHI DI LAVORO.
Una prima
osservazione va fatta in merito all’organizzazione dei tempi del proprio
lavoro. Mentre nelle libere professioni e nella dirigenza, il
professionista organizza autonomamente i tempi della sua prestazione,
nella professione docente tale autonomia non può certo riguardare le
attività con gli alunni e pertanto non potrà non indicarsi un quantum
di servizio da erogare all’utenza.
Ma già questo
è un primo punto sul quale cominciare a riflettere: siamo certi che il
quantum debba essere calcolato in termini di ore lavorative
(modalità tipica del settore impiegatizio) o forse non sarebbe il caso
di cominciare a parlare anche da noi, in Italia, come già da tempo si fa
in vari paesi d’Europa, di numero di lezioni, al di là della durata di
ciascuna di esse, eliminando così una volta per tutte l’insopportabile
questione del recupero dei 5 o 10 o 15 minuti di lezione se essa avesse
durata inferiore ai 60 minuti? Ogni scuola, nella sua autonomia (e
responsabilità), stabilirebbe la durata della lezione e l’obbligo
contrattuale si esaurirebbe quando si fossero svolte le lezioni (non le
ore) settimanali cui ciascun insegnante è tenuto! Forse qualcuno ha mai
chiesto ad un magistrato di far durare un processo un certo numero di
ore o a un medico di far durare un’operazione non meno di tre ore?
Fissato
dunque il numero di lezioni da tenere (18 è un tetto che, a mio avviso,
non si può superare; ad esso peraltro dovrebbe essere equiparato anche
quello dei colleghi delle scuole materne ed elementari, secondo la nota
rivendicazione della Gilda, e, semmai, non mi parrebbe eccessivo
abbassare quel tetto nel caso di cattedre o ambiti disciplinari per cui
in quel dato ordinamento scolastico un insegnante si trovi ad insegnare
più di due discipline), restano da definire i carichi di lavoro e il
tipo di attività da svolgere oltre le lezioni. Mi pare che esse si
potrebbero individuare nelle seguenti tre:
-
attività
di tutoraggio nei confronti di un certo numero di alunni (diciamo dieci
per ogni insegnante);
-
riunioni
collegiali (quelle comunque strettamente necessarie per le “delibere
d’indirizzo” didattico-educativo della Comunità scolastica);
-
rapporti
con le famiglie a carattere informativo, “diagnostico” e orientativo (è
bene precisare che il tutor non entra nel merito delle scelte
didattiche degli altri colleghi);
-
“riunioni
di servizio” (o gruppi di lavoro tematici). Per esse si dovrà prevedere
una retribuzione aggiuntiva in misura oraria o forfetaria (v. ultra
par.7, s.v. “COPERTURA FINANZIARIA”).
Sottintendendo che comunque non si dovrebbero avere più
di venti/venticinque alunni per classe (viceversa i rapporti numerici
alunni/tutor salterebbero) e rinviando ad altro momento
l’approfondimento su ciascuna tipologia di prestazione professionale
sopra indicata, ciò che preme dire è che tutto ciò non andrebbe definito
in termini numerici o quantitativi, perché il professionista, da solo o
in équipe (consigli di classe, gruppi di lavoro a tema), sa quali
siano i momenti in cui necessiti una verifica individuale o d’équipe
del lavoro in corso. Quanto ai rapporti con le famiglie essi attengono solo al
tutor e solo per quegli alunni che ha preso in consegna. Sarà
compito del tutor comunicare alle famiglie quale sia la
situazione scolastica dell’alunno (cosa che ovviamente non esclude la
possibilità di consulti allargati qualora i casi lo richiedano). Tutto
ciò ovviamente richiede una capillare, puntuale, chiara circolazione tra
i colleghi dei dati necessari all’informazione, che resterebbe comunque
atto dovuto.
Fino a qui la visibilità del lavoro rispetto all’utenza
(e agli obblighi contrattuali). Entriamo ora nello specifico degli altri
ambiti che definiscono il senso professionale del nostro lavoro.
4. ALTRI AMBITI DISTINTIVI DELLA
PROFESSIONALITA’ DEGLI INSEGNANTI
Alla luce di quanto detto sulla natura professionale del
nostro lavoro e delle conseguenze sopra descritte sull’organizzazione
del nostro comune lavoro di base, ci si dovrebbe, a mio avviso,
concentrare su un dibattito volto a costruire i segmenti di una
“rivoluzione” del nostro status giuridico e quindi anche
economico. Tali segmenti, infatti, non riguardano soltanto gli aspetti
contrattuali (che sono poi quelli che definiscono il cosiddetto “profilo
professionale”), ma soprattutto quelli di una nuova configurazione
dell’attività di insegnamento che poi nel contratto possa trovare il suo
inveramento.Al fine, dunque, di cominciare ad entrare nel merito
dell’argomento della “progressione professionale”, mi pare che si
possano indicare i seguenti altri ambiti nei quali ciascun insegnante
dovrebbe e potrebbe definire (e vedere socialmente, economicamente e
culturalmente riconosciuto) il senso della sua professionalità:
-
l’insegnante come professionista (o specialista) della ricerca
disciplinare, didattica ed educativa;
-
l’insegnante come professionista (o specialista) della organizzazione
scolastica;
-
l’insegnante come professionista (o specialista) della promozione della
cultura professionale (formazione e aggiornamento).
Vediamo, dunque, se e come sia possibile inserire questi
tre ambiti in un possibile profilo professionale di tutti gli
insegnanti delle scuole di ogni ordine e grado.
5. IMPOSTAZIONE METODOLOGICA
Le domande dalle quali sono partito sono state pertanto
queste:
1. "E' possibile una progressione professionale, pur
restando ad operare nelle Scuole e Istituti di ogni ordine e grado?";
2. "Sono compatibili all'interno del medesimo luogo di
lavoro la coesistenza di impegni professionali parzialmente
differenziati (a partire comunque dalla comune attività
d’insegnamento), con relative differenziazioni stipendiali, pur
nella coesistenza e collaborazione tra professionisti diversamente
retribuiti?"
3. "Esistono modelli organizzativi, in cui persone che
appartengono al medesimo ruolo possano svolgere porzioni di lavoro
differenziate e con conseguente diversa retribuzione, salvaguardando al
tempo stesso il senso (o la promozione) della collegialità e della
collaborazione?"
4. "Si può
evitare che i riconoscimenti professionali e le conseguenti diverse
retribuzioni si trasformino in “rendite di posizione” o diano luogo a
rapporti gerarchici?"
6. QUESTIONI PRELIMINARI
Cercherò, innanzitutto, di fissare alcuni “paletti” o
pregiudiziali che dovrebbero chiarire quale sia il punto di vista di chi
scrive.
Qualunque ipotesi di progressione professionale non
potrà non tenere conto dei seguenti presupposti:
a.
l’insegnante è il professionista
dell’educazione che si realizza attraverso l’istruzione
(il che vuol dire che chi non entra in aula già non è più un insegnante,
ma altro);
b.
le scuole sono Comunità educative e di
ricerca didattico-pedagogica (il che vuol dire
che nessun insegnante si può esimere, in quanto membro di quella
Comunità, dal fornire la propria disponibilità e il proprio contributo
alla crescita della sua Comunità);
c.
il concetto stesso di “Comunità” e,
soprattutto, l’appartenenza al medesimo ruolo,
con le connesse, medesime funzioni educative, escludono la
possibilità che tra colleghi possano sussistere rapporti gerarchici
e che le relazioni professionali ammettano intromissioni vincolanti alla
propria libertà e autonomia professionale, garantite del resto dalla
Costituzione (il che vuol dire che chi svolga nella propria Comunità
anche attività di Coordinamento possa proporre, non imporre,
linee di indirizzo didattico o organizzativo alla luce dei bisogni reali
di quella Comunità e che ciascun insegnante abbia il diritto di
rifiutarle, ma anche il dovere di cercarne – si badi bene “cercarne”,
non “trovarne” - di alternative).
Al di
fuori di queste pregiudiziali, qualunque discorso sulla progressione
professionale, a parere del sottoscritto, non può neanche essere avviato
dal momento che la specificità della Scuola e dell’Insegnamento non può
ammettere che si mutuino da altri ambiti (aziendali!) logiche
gerarchiche che nella Scuola non possono trovare posto: in qualunque
attività educativa, il tratto comune è garantito dalla comune
ispirazione degli educatori: ciascun educatore sceglierà poi la propria
strada, quella più vicina e adeguata al suo temperamento, alla sua
personalità e, in definitiva, alla sua coscienza di Uomo e di Donna, per
ottenere gli obiettivi che si prefigge.
7. ASPETTI CONTRATTUALI
Possiamo ora entrare nel merito delle domande formulate
precedentemente.
Premesso che ogni insegnante dovrà continuare a svolgere
un certo numero di lezioni - dal momento che chiunque lavori per la
scuola, non può vivere lontano da essa, anche per brevi periodi (mai
superiori ad un anno!), pena la perdita della visione di una realtà in
continua e rapidissima trasformazione -, nella presente proposta, la
progressione professionale consisterebbe nella possibilità di impiegare
una porzione del proprio orario di servizio in ambiti diversi
dall’insegnamento (cfr. par. 4), ma ad esso strettamente legati
per le conseguenti ricadute: ricerca, organizzazione, formazione e
aggiornamento.
Il collega che si dedicasse alla ricerca o
all’organizzazione vedrebbe decurtato di un terzo (diciamo da 18 a 12
lezioni) il suo impegno in aula e dedicherebbe l’altra parte del suo
tempo professionale al suo ambito di specializzazione. Si badi bene:
tempo professionale, non tempo contrattuale. Quest’ultimo definisce gli
obblighi di servizio, il primo invece sarebbe autogestito dal
professionista in funzione dei carichi di lavoro legati alla ricerca che
va conducendo o agli aspetti organizzativi che va curando in relazione
alla Comunità di appartenenza!
Il collega che invece si dedicasse alla Formazione e
all’Aggiornamento vedrebbe decurtata la propria prestazione
professionale in aula della metà (ad esempio, nelle scuole elementari,
da 22+2 settimanali a 11 lezioni, escluse anche le attività di
programmazione –tranne quelle collegiali di cui al par. 3 –, o da 18
lezioni a 9) dal momento che in questo ambito oltre all’organizzazione
materiale dei corsi, rientrano anche i momenti della ricerca.
ORGANICI: ogni Istituzione Scolastica Autonoma (di
seguito I.S.A.), sulla base del numero di alunni e di personale,
disporrebbe, nel suo organico di diritto, di un quantitativo di lezioni
scoperto da destinare a ciascuna delle tre aree, cosicché ciascuna
I.S.A. e ciascun docente saprebbe che nella propria Scuola vi sarebbero,
ad esempio, 4 posti di ricercatore (24 lezioni da assegnare ad altro
docente), 2 posti di organizzatore (altre 12 lezioni da assegnare), 2
posti di formatore (altre 18 lezioni da assegnare). Insomma in quella
data I.S.A. vi sarebbero 54 lezioni da assegnare a tre docenti (3
docenti x 18 lezioni= 54 lezioni).
ACCESSO: per soli titoli e per anzianità: dopo 10 anni
per ricercatori e organizzatori-coordinatori; dopo 18/20 anni per i
responsabili della formazione e dell’aggiornamento. A quest’ultimo
ambito si potrebbe accedere solo avendo operato precedentemente come
ricercatore e organizzatore, dal momento che la formazione e
l’aggiornamento contemplano la maturazione di competenze specifiche in
entrambi gli ambiti.
MOBILITA’: graduatorie provinciali biennali o triennali
(con valutazione titoli: precedenze, continuità, anzianità di servizio,
titoli culturali, ecc.)
STIPENDIO: maggiorazione (quota fissa uguale a quella
degli altri colleghi + una “indennità di specializzazione” ulteriormente
maggiorata per il docente-formatore).
ULTERIORE PROGRESSIONE PROFESSIONALE: le esperienze
maturate e i relativi titoli costituiscono presupposti per l’accesso ai
ruoli universitari e, in genere, nell’amministrazione scolastica con
incarichi direttivi/dirigenziali.
MANTENIMENTO DEL REQUISITO: relazione congiunta del dirigente e del
comitato di valutazione (solo docenti di quell’I.S.A., con almeno 25
anni di servizio); pubblicazioni (un certo numero di lavori prodotti nel
biennio o nel triennio).
COPERTURA FINANZIARIA: i costi potrebbero essere
ammortizzati trasferendo una porzione dei fondi destinati alle SSIS
(almeno i fondi del 2° anno) e inserendo nelle Scuole, in qualità di
docenti-tirocinanti, gli specializzandi: la supervisione del tirocinio e
le connesse attività di formazione sarebbero affidate proprio a quei
docenti-formatori di quella data Scuola. Altra non indifferente fonte di
finanziamento sarebbero i risparmi sui Fondi delle Istituzioni
Scolastiche, la cui consistenza sarebbe legata soltanto al pagamento
delle prestazioni aggiuntive del personale A.T.A. (attualmente circa 1/4
o 1/5 dell’intero Fondo) e per le riunioni di servizio dei docenti (e
questa dovrebbe divenire la parte più consistente del Fondo, perché
dovrebbe retribuire i membri della Comunità scientifica ed educativa in
cui si trasformerebbe ciascuna scuola). Infine, e forse questa sarebbe
la voce di finanziamento più consistente, i Fondi europei: piuttosto che
indirizzarli su progetti più o meno cervellotici, si investano sulle
attività di ricerca e di aggiornamento degli Insegnanti all’interno
delle loro scuole!
E se ancora i costi dovessero essere in esubero, ritengo
che l’argomento “Scuola” sia così determinante per il futuro stesso di
un Paese, che una Comunità Nazionale non si potrebbe esimere dal
sostenere ogni forma di investimento sui suoi Insegnanti. Insomma, se si
vuole una Scuola di qualità bisogna investire innanzitutto sui suoi
Insegnanti e smetterla una volta e per tutte con gli sprechi e con le
manovre di bilancio ipocritamente spacciate per “riforme scolastiche”!
PRECARIATO: sia chiaro che un’operazione di questo genere
non potrebbe che essere successiva ad una definitiva risoluzione del
precariato storico, previa cioè immediata immissione in ruolo dei
colleghi che da anni tengono comunque in piedi il sistema della scuola
italiana. A regime, solo i docenti-tirocinanti potrebbero vantare titoli
per l’accesso ai ruoli dell’insegnamento e il loro numero avrebbe sempre
una consistenza legata ad una preventiva programmazione delle esigenze
di personale insegnante nella scuola italiana.
Possiamo ora entrare nel merito dei tre ambiti di
“progressione professionale” di cui s’è detto.
8. L’INSEGNANTE COME PROFESSIONISTA (SPECIALISTA)
DELLA RICERCA DISCIPLINARE, DIDATTICA ED EDUCATIVA.
L’aspetto che ritengo maggiormente qualificante rispetto
alla valorizzazione professionale dell’attività di insegnamento sta
proprio nella ricerca.
La sola (per quanto fondamentale) professionalità in
ambito educativo e didattico-disciplinare di per sé giustifica (e,
sottolineo, a ragion veduta) la rivendicazione di maggiorazione
retributiva per tutti, ma al tempo stesso risulterebbe penalizzante
rispetto alla versatilità di ogni singola professionalità. Fermo
restando che il ruolo educativo e didattico è unico e che unica è la
funzione docente (ed è quindi a partire da questa base che si calcola la
comune base retributiva maggiorata), è altresì vero che tale
professionalità si può esplicare anche in ambiti diversi da quello
dell’attività didattico-educativa.
Da tempo ormai si richiede (la Gilda almeno lo richiede)
un agganciamento della scuola all’Università e si richiedono gli anni
sabbatici per gli insegnanti dei vari ordini di scuola. Proprio la
ricerca potrebbe essere lo strumento per vedere riconosciuta anche
giuridicamente la professionalità degli insegnanti. Come all’Università
un ricercatore pubblica in un certo arco di tempo il frutto delle sue
ricerche, così anche per gli insegnanti si potrebbero stabilire delle
misure e si potrebbe a ragion veduta rivendicare l’agganciamento
stipendiale a quello dei professori associati e ordinari.
Forse la ricerca (con relative pubblicazioni) di un
insegnante fornirebbe contributi inferiori alla comunità scientifica
rispetto all’attività di un docente universitario? L’unico vincolo che
questo genere di ricerca dovrebbe avere, ricadrebbe sulla sua
spendibilità, utilizzabilità ai fini dell’arricchimento della qualità
della proposta culturale o organizzativa dell’Istituzione Scolastica cui
l’insegnante-ricercatore appartiene. I titoli acquisiti dall’insegnante
costituirebbero il presupposto per un prolungamento del suo incarico o
per il passaggio alle funzioni di insegnante-formatore o, in ultima
analisi, per il conferimento di incarichi nelle Università o negli IFTS.
Si badi bene, però: le Università o gli IFTS non
rappresenterebbero più un miraggio irraggiungibile, perché finalmente
anche nei vari ordini di scuola vi sarebbero le condizioni per lo
svolgimento delle attività di ricerca con i relativi incrementi
retributivi, evitando così al tempo stesso che le professionalità più
versatili si allontanino dalla Scuola e dai propri alunni! E tutto ciò,
fra l’altro, fondato su automatismi contrattuali, non certo su concorsi
o concorsacci di recente memoria!
9. L’INSEGNANTE COME
PROFESSIONISTA (SPECIALISTA) DELL’ORGANIZZAZIONE
La
complessità delle varie attività in cui si concretizza il servizio di
istruzione e di educazione in ogni Istituzione Scolastica Autonoma, ha
richiesto sin dagli esordi della Legge sull’Autonomia la presenza di
figure professionali che il Contratto del ’99 aveva individuato nelle
cosiddette Funzioni-Obiettivo, oggi divenute Funzioni Strumentali
all’Offerta Formativa. La stessa dicitura la dice lunga sullo
svuotamento professionale che essa sottende: che un insegnante debba
dire di sé “sono una Funzione” e non, come logica vorrebbe, “ho una
Funzione” è indice di uno svuotamento della stessa identità personale,
prima ancora che professionale, di un insegnante. E qui, sia detto
appena per inciso, si riconosce in pieno l’idea della nostra
professione, ma sarebbe meglio dire impiego, di cui è intrisa la
cultura, ma sarebbe meglio dire sottocultura, di tutti i sindacati
diversi dalla GILDA.
Il
Contratto del ’99, se da un lato aveva intuito quale sarebbe stata la
mole di lavoro aggiuntiva che si sarebbe riversata nelle Scuole
dell’Autonomia, anche a seguito della riorganizzazione della rete
scolastica, al punto da dover prevedere la creazione di nuove figure
necessarie per il buon funzionamento di una scuola, dall’altro si
contraddiceva nel pensare che queste nuove figure potessero sobbarcarsi
a quella stessa mole in spazi ulteriori da ritagliarsi in una giornata
lavorativa. Quel che cioè è continuato a sfuggire all’attenzione dei
Sindacati firmatari è che di ulteriori spazi nella giornata di lavoro di
un insegnante - sempreché voglia svolgere seriamente il suo lavoro -, non
ve ne sono. Ed ecco come e perché un’idea interessante sia fallita, e
continuerà a fallire, fino a quando il presupposto errato - la
fuorviante cultura dell’aggiuntivo - non verrà al più presto spazzato
via. Se si continua a partire dal presupposto che gli insegnanti possano
lavorare più di quanto già lavorino, nessuna differenziazione di ruoli e
funzioni, nessuna definizione di carriere e compensi differenziati potrà
mai attecchire. E nessun miglioramento qualitativo del servizio di
istruzione potrà mai derivare da queste sconsiderate alchimie.
Ogni Scuola, in ragione della sua complessità e delle sue
esigenze, e nella misura del numero di alunni e di personale,
individuerà gli ambiti o i settori nei quali necessitano delle
specifiche professionalità di coordinamento e avrà a disposizione tali
professionalità. Insomma, le attuali nomine di collaboratori del
Dirigente o di suoi delegati di fiducia, potrebbero bene essere
sostituite da figure di insegnanti specialisti dell’organizzazione della
scuola, appositamente retribuiti con maggiorazioni del loro stipendio e
che continuano però ad insegnare, lasciando al Dirigente Scolastico
tutte le questioni amministrative, gestionali e di rappresentanza legale
(ma anche questo ruolo e queste funzioni col tempo potrebbero essere
superati, con ulteriori significativi risparmi). In definitiva, ai
Colleghi Coordinatori spetterebbe di garantire il migliore funzionamento
di tutte le attività della Scuola sulla base di un costante lavoro di
ricerca di modelli organizzativi, anche sperimentali e quindi che
coinvolgano anche settori limitati della Scuola, volti al sostegno delle
esigenze dei colleghi e di tutti i membri della Comunità Scolastica,
alla luce delle “delibere d’indirizzo” del Collegio dei Docenti.
10. L’INSEGNANTE COME PROFESSIONISTA (SPECIALISTA)
della PROMOZIONE della CULTURA PROFESSIONALE (FORMAZIONE E
AGGIORNAMENTO).
E’ chiaro a tutti che nella Formazione e
nell’Aggiornamento risiede la possibilità di qualunque attività
professionale di potersi ridefinire per mantenere la sua significatività
all’interno della comunità in cui essa si esercita e fornisce il suo
contributo alla comunità stessa. La crisi profonda che la Scuola degli
ultimi vent’anni, non solo in Italia, ma in tutto il mondo ad alta
tecnologia, sta tuttora attraversando, ha le sue radici proprio nel
fatto che essa non ha saputo ridefinire il suo ruolo rispetto alle
trasformazioni radicali della società e alle trasformazioni
antropologiche della stessa umanità.
La Formazione e l’Aggiornamento degli Insegnanti sono
infatti gli ambiti in cui l’Istituzione accorcia i tempi di assestamento
al variare della realtà storica, sociale ed economica, anche se,
utopisticamente, verrebbe voglia di dire che dovrebbe essere essa a
dettare i tempi e le modalità di questi cambiamenti! Come dire: un Mondo
a misura d’Uomo e non, come purtroppo avviene, un Uomo a misura del
Mondo Economico!
Delle attività di formazione si è già detto a proposito
della formazione dei giovani colleghi-tirocinanti provenienti dalle SSIS.
Resta da dire come i colleghi formatori di una data Scuola dovrebbero
operare nell’ambito dell’aggiornamento. Le loro competenze
specialistiche saranno limitate ovviamente alle loro discipline e
pertanto nelle attività di aggiornamento della propria scuola essi
potranno intervenire in qualità di relatori solo negli ambiti di loro
competenza. Oltre a ciò essi dovranno coordinare tutte le attività di
aggiornamento professionale sulla base delle esigenze dei colleghi della
Scuola di appartenenza, secondo le “delibere d’indirizzo” formulate in
seno agli organi collegiali, curando dall’inizio alla fine tutte le fasi
legate all’organizzazione dell’aggiornamento nella loro scuola e
selezionando i relatori più adatti alle esigenze concrete (attingendo
prioritariamente tra i colleghi della medesima Scuola).
Ovviamente, l’aggiornamento non esclude l’autoaggiornamento,
purché quest’ultimo esca una volta e per tutte dall’autoreferenzialità e
diventi finalmente lo strumento della promozione della “cultura
professionale del lavoro di squadra”. Esso, cioè, attiene più agli
aspetti deontologici che a quelli della progressione professionale (non
si dimentichi quanto si diceva al punto b. del par. 6 “questioni
preliminari”).
11. CONCLUSIONI
Immaginiamo infine quale sarebbe l’effetto psicologico e
di promozione dell’emulazione (non della competizione) che su tutti gli
insegnanti avrebbe la compresenza negli stessi spazi di lavoro di
insegnanti che svolgono la stessa professione, ma con funzioni (e
retribuzioni) parzialmente diversificate: le “torri d’avorio” della
cultura accademica scomparirebbero ed ogni istituzione scolastica
autonoma si trasformerebbe in una piccola comunità scientifica (ed
educativa), in cui gli àristoi e il démos si troverebbero
fianco a fianco in un rapporto sinergico di fattiva collaborazione, in
cui l’àristos non sarebbe l’invidiato (e privilegiato) collega e
il démos la plebaglia degli esecutori di chissà quali direttive,
ma tutti si ritroverebbero a contribuire ad offrire alle nuove
generazioni dei modelli culturali e comportamentali tutti tesi ad una
laicizzazione (in senso etimologico, laòs è il popolo in
contrapposizione agli olìgoi, “i pochi privilegiati”) e
democratizzazione della cultura, sulla base di un concorde
riconoscimento del merito.
Utopie? Può darsi. Credo però che la “volgarità” dei
nostri tempi non debba impedirci di avviare un serio ripensamento delle
politiche scolastiche attuali o del recente passato (che tale
“volgarità” assecondano o avrebbero voluto assecondare). La semplice
gestione dell’esistente, se si dovesse perseverare nella svalutazione
del ruolo istituzionale della scuola pubblica statale e del ruolo
sociale degli Insegnanti, non solo non riuscirà ad evitare le spaventose
conseguenze culturali e comportamentali che già produce sulle giovani
generazioni, ma fra non molto renderà più difficile, se non impossibile,
invertire la rotta.
Fabio Pipitò
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
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AA.VV., La scuola deve cambiare, l’ancora del
mediterraneo, 2002;
Bruner J., La cultura dell’educazione, Feltrinelli,
2001;
Bruner J., Verso una teoria dell’istruzione,
Armando, 1999;
Calogero G., Scuola sotto inchiesta, Einaudi,
1957;
Cavadi A., Le ideologie del Novecento, Rubbettino,
2001;
Frabboni F., La scuola ritrovata, Laterza, 2002;
Luperini R., Il professore come intellettuale,
Piero Manni, 1998;
Margiotta U., L’insegnante di qualità, Armando,
1999;
Morin E., I sette saperi, Raffaello Cortina, 2000;
Morin E., La testa ben fatta, Raffaello Cortina,
2000;
Piazza S., Il corpo indecente.
L’annientamento della dignità dei docenti nella scuola del permissivismo
antimeritocratico, Cleup, 2002.
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