SUL DISSOLVIMENTO DELLE
DISCIPLINE...
di Sergio Casprini
Il mio
contributo al dibattito sarà breve, data l’ora tarda. Tra l’altro, molto è
stato già detto negli interventi che mi hanno preceduto; darò quindi solo
qualche elemento di riflessione a partire da casi concreti.
Insegno Storia dell‘Arte a Firenze in una Scuola di
Arti applicate.
Con la Riforma dei cicli la mia materia verrà
diluita in un ambito disciplinare allargato: ”Educazione all’immagine “, che verrà insegnata anche
nel ciclo di base a scapito dei suoi fondamenti storici; in alcune
sperimentazioni questo stravolgimento dei contenuti disciplinari della Storia
dell’Arte già avviene in nome di una cultura pedagogica antistoricistica e
antinozionista.
Se voi percorrete il corridoio che porta dall’atrio
dell’Istituto Tecnico che ci ospita fino alla presidenza, passate accanto alla
porta di un’aula con un cartello in cui si legge: ”Progetto di qualità
della scuola”, responsabile prof. Tal dei Tali. Una volta avremmo trovato
scritto aula di scienze,
laboratorio di chimica o di informatica, insomma qualcosa di attinente alla
didattica di un corso di studi di una scuola tecnica; invece, anche se la
riforma verrà attuata l’anno prossimo, la scuola dei progetti, come una
metastasi, sta già soppiantando la scuola
in cui noi tutti stiamo vivendo, in una logica perversa per cui non conta più
saper insegnare ma saper progettare interventi di
“qualità totale”... come fossimo
in una fabbrica o in un ufficio.
Ieri, in treno, venendo a questo Convegno, ho letto
nel Venerdì, supplemento del giornale
La Repubblica,
l’articolo di Curzio Maltese, che -
come molti opinionisti - fa il tuttologo e deve dispensare le sue piccole verità
anche su argomenti di cui non è competente. Nell’articolo di questa settimana
scriveva sulla riforma della scuola, ovviamente difendendola (La Repubblica la sta sponsorizzando in maniera sfacciata, tranne
qualche lodevole eccezione) e, tra le varie banalità, affermava che nella nuova
scuola bisognava insegnare a pensare.
In quel momento mi è tornato in mente un vecchio
articolo di Claudio Magris sul Corriere
della Sera
[i]:
egli ricordava una sua
interrogazione di storia o di
filosofia in un liceo di molti anni fa, in cui
aveva esordito dicendo: “Io penso che….”. e il professore lo aveva
subito interrotto aggredendolo con queste parole : “Come osi pensare,
disgraziato !!!”
Oggi quell’insegnante sarebbe immediatamente
andato incontro ad una sanzione disciplinare, oggi già in prima
elementare lo studente è obbligato a pensare, oggi in nome della centralità
dell’allievo e della formazione alla cittadinanza sono venuti meno i
fondamenti cognitivi delle discipline ed i giusti ritmi di crescita degli
studenti, per cui solo alla fine di un percorso chiaro di studi si può
cominciare a pensare, ma soprattutto sta venendo meno quel sano rapporto tra
l’insegnante adulto e il giovane allievo, fondato ovviamente sul principio di
autorità, come diceva giustamente il collega Lino Giove nella sua relazione
introduttiva.
Qualche giorno fa Renza Bertuzzi, responsabile di Professione
Docente, il giornale della Gilda, ha partecipato ad un’assemblea sindacale
a Firenze in qualità di membro della Commissione ministeriale sul Riordino dei
cicli per illustrare i curricoli della scuola di base.
Pensate intanto che nella Commissione, in mezzo a
tanti esperti, lei è l’unica
docente, a conferma di quello che dicevo prima: sulla scuola intervengono tutti
a vario titolo, gli unici che avrebbero le competenze per proporre - gli
insegnanti - sono assenti.
Nel suo intervento la collega ha affermato che il processo, che tutti noi
paventiamo, di vanificazione dei saperi disciplinari in una ridefinizione
trasversale e modulare delle conoscenze va avanti ed anzi i ministeriali sono
pronti ad attuarlo già dal prossimo anno scolastico.
Il caso più eclatante è quello dell’insegnamento
della Storia, come tutti voi sapete, a seguito delle prese di posizione dei
professori universitari di Storia di ogni orientamento politico e culturale, per
cui a nove anni si studia la storia antica, a quindici anni il novecento, per
poi approfondire in maniera critica lo studio per temi gli ultimi tre anni.
Già immagino le discussioni all’insegna dei luoghi
comuni e dei buoni sentimenti sulla pace, sul razzismo, sulla cultura
multietnica, con i docenti ridotti ad imbonitori, che somministrano pietanze
insipide e tutte uguali.
Non c’è da meravigliarsi se si pensa che questa
Riforma è il risultato di una paradossale convergenza tra un pensiero tardo
illuminista (molto tardo e con tutti i cascami ideologici che produce la
senescenza) di matrice ancora progressista ed una logica efficentistica e
produttivistica da società del mercato e dei consumi di massa, per cui lo
studente deve essere accudito, non deve trovare ostacoli nella sua formazione.,
uguale per tutti e di basso profilo
culturale, con la conseguenza che uscirà
dalla scuola riformata, usa e getta, ancor più massificato di quando è
entrato. Eterogenesi dei fini da parte dei nostri illuminati riformatori !
Voglio concludere facendo una proposta, anche se il
Convegno è stato di per sé utile per una messa a fuoco delle problematiche
inerenti il Riordino dei cicli e soprattutto per aver evidenziato i
rischi che esso comporta per la nostra professionalità.
Su questi argomenti nelle scuole c’è molta
disinformazione, è importante allargare il più possibile il dibattito e quindi
ben vengano questi convegni, non solo nel Veneto ma in tutte le regioni.
Ma non basta: bisogna essere anche propositivi.
La professoressa Luciana Lepri della Fondazione Internazionale “Nova Spes” ha formulato, nel suo intervento, delle proposte emerse dal
lavoro della Commissione “ombra” (quella non ministeriale) di cui fa parte:
la distinzione chiara tra i profili professionali dei docenti delle
elementari e delle medie, mantenendo la separazione tra i due ordini di scuola
nel ciclo di base, la difesa delle discipline, l’articolazione e la
differenziazione dei curricoli della scuola secondaria nella salvaguardia delle
specifiche identità culturali .
La Gilda a novembre ha promosso una campagna di firme
affinché venga sospesa l’attuazione della Riforma per il prossimo anno
scolastico. Occorre saldare l’iniziativa più politica della Gilda con gli
obiettivi culturali della Commissione per far capire all’opinione pubblica che
i docenti italiani non sono arroccati in una difesa corporativa dello status
quo ma vogliono dare il loro contributo, formulare le loro proposte in
quanto nessuna Riforma della scuola può essere efficace
per le nuove generazioni e per la società nel suo complesso senza la
loro attiva partecipazione.
[i]
Dall’articolo di Claudio Magris (n.d.r.): “La scuola è al servizio di
scolari e studenti quando li libera da condizionamenti
economici e sociali e offre a ciascuno di loro le stesse possibilità
di sviluppare la propria persona, quando li rispetta senza vezzeggiarli né
adularli e insegna loro non a dire vanitosamente la propria opinione, bensì
ad osservare e conoscere la realtà con quell’attenzione all’oggetto che
costituisce l’autentica indipendenza intellettuale, la capacità di vedere
e di conoscere, ben diversa dal pretenzioso sdottorare.
I miei compagni e io
siamo grati a un professore che, quando qualcuno di noi, con l’inevitabile
presunzione dell’adolescenza, iniziava a rispondere a una sua domanda
dicendo “io penso che...”, ci interrompeva ingiungendoci di non pensare
mai e di imparare fatti, nomi e date. Già allora – per merito suo, non
nostro – capivamo che era un modo giusto di insegnarci a pensare.”
LA
SCUOLA DELL’INFANZIA E LA RIFORMA DEI CICLI
di Chiara Moimas
CRONOLOGIA DELLA DOCUMENTAZIONE
*Il documento sui “Contenuti
essenziali della formazione di base” redatto da sei professori universitari e
presentato a Roma, all’Accademia dei Lincei, dal Ministro Berlinguer il 20
marzo 1998, conteneva indicazioni che
per gli addetti ai lavori delle scuole materne risuonavano familiari: il
richiamo all’interazione fra linguaggi della mente e linguaggi del corpo e
l’affermazione della loro uguale dignità e la volontà di superare le
tradizionali partizioni disciplinari. Queste indicazioni rinviavano direttamente
ai contenuti degli Orientamenti del ’91, i nuovi programmi per la scuola
materna, che hanno favorito una rivisitazione della stessa evidenziandone le
caratteristiche didattico educative ed iniziando la demolizione ideologica della
sua struttura prevalentemente assistenziale.
*Nel 1999, il Ministro della
Pubblica Istruzione allora in carica, on. Berlinguer, nell’introduzione alla
“Consultazione sulle linee di sviluppo della scuola materna” indicava la
Scuola dell’infanzia come “… primo vero e proprio segmento del sistema
scolastico…” e ribadiva che il carattere di scuola a forte partecipazione
sociale la rendeva luogo privilegiato per indicare il percorso concreto
dell’autonomia all’intero sistema scolastico.
Le “Linee di sviluppo”
contengono dati statistici dai
quali si evince che la scuola materna (statale e non) sull’intero territorio
nazionale ha raggiunto una scolarizzazione del 94%.
E’ indispensabile considerare
che la scuola materna è tuttora retta da una normativa che la relega ad un
ruolo prevalentemente assistenziale ed il riconoscimento di “vera scuola”
che si è conquistata sul campo, è dovuto, prevalentemente, alla volontà degli
insegnanti che in essa operano ed alla loro preparazione.
Il risultato tangibile che la
scuola materna ha sinora avuto dalla citata consultazione è il cambio di nome:
infatti è diventata Scuola dell’infanzia!
*Il dibattito sulla riforma dei
cicli, in prima battuta, ha posto il problema dell’obbligatorietà
dell’ultimo anno di scuola dell’infanzia, dando adito alla formazione di
fazioni di favorevoli e contrari.
La discussione si è, però,
immediatamente spostata dal contesto educativo-didattico a quello logistico con
la risoluzione che alla generalizzazione dell’offerta formativa di tale grado
di scuola si provvedesse mediante il sistema pubblico integrato (L.62/2000).
*Il sottogruppo di lavoro N.7°
della commissione di esperti, insediata dal Ministro De Mauro, nella sintesi dei
lavori sui nuovi curricoli presentata il 12 settembre 2000, ha riconosciuto alla
scuola dell’infanzia la caratteristica di scuola “fondativa”.
Gli esperti hanno confermato la
validità dell’articolazione degli Orientamenti per campi di esperienza ed
hanno ribadito la necessità di
rivedere il quadro normativo esistente, con particolare riferimento all’art.
104 del D.L.vo n. 297/1994 (orario di funzionamento: 8 – 10 ore).
Il sottogruppo n.7 ha
puntualizzato che l’orario di funzionamento della scuola
dell’infanzia deve rispondere ad esigenze di ordine educativo-formativo e deve
essere definito in relazione al benessere psico-fisico dei bambini ed ha
dedicato un paragrafo al calendario scolastico indicandone la doverosa omogeneità
con quello degli altri ordini di scuole, questo per evitare “ ripercussioni
sulle impressioni dei bambini stessi e sulle famiglie … con conseguenze
discriminanti in ordine all’esercizio della professione docente”.
La valutazione di obiettivi specifici è vista
all’interno di un sistema che sia dinamico, complesso, aperto e finalizzato ad
una lettura qualitativa dei processi formativi, processi strettamente connessi
alle condizioni nelle quali si sviluppano.
Emerge quindi, nella relazione
degli esperti, l’importanza della definizione di standard di qualità che,
nella scuola dell’infanzia, non possono prescindere dalla dimensione
organizzativa e prevedere quindi una ottimizzazione del tempo scuola, dell’uso
degli spazi, degli arredi ed una revisione della consistenza delle sezioni.
*Il 3 novembre 2000 il Ministro
De Mauro ha presentato il programma quinquennale di attuazione della L.30/2000
di Riordino dei cicli ed ancora ha parlato di ruolo “fondativo” della scuola
dell’infanzia, poiché al suo interno avviene la prima rielaborazione
concettuale delle esperienze e dei vissuti.
Ancora una volta è stata
evidenziata la diffusione capillare sul territorio nazionale con una frequenza
del 94%.
Anche nel programma quinquennale
di attuazione si riconosce validità agli Orientamenti del ‘91.
Il monte ore annuale assegnato alla scuola
dell’infanzia è di 1.150-1.300 ore distribuito in 35-40 ore settimanali per 5
giorni: questo prospetto dovrebbe risolvere il problema del calendario
scolastico sul quale gli esperti si erano espressi in modo severo.
*Il 7 febbraio 2001 viene presentata la SINTESI dei
gruppi di lavoro sui nuovi curricoli in previsione del riordino dei cicli.
La premessa al curricolo della scuola dell’infanzia
continua l’abitudine oramai radicata in ministri, saggi ed esperti, di
delineare una scuola dell’infanzia come “fondativa”, primo gradino di un
percorso formativo coerente ed unitario nella sua ispirazione pedagogica che
accompagnerà i bambini ed i ragazzi dai 3 ai 18
Gli Orientamenti del ‘91 rimangono validi in quanto
frutto di una ricerca pedagogica avanzata.
Questa la cronistoria della documentazione ufficiale che,
dal 1998 ad oggi, ha preso in esame le problematiche della scuola
dell’infanzia e dalla quale si evince che:
-
all’attualità dei contenuti programmatici degli Orientamenti non
corrisponde un aggiornamento normativo;
-
le norme obsolete che regolano la scuola dell’infanzia evidenziano
ancora un ruolo prevalentemente assistenziale della stessa rendendo
problematico, per gli operatori, l’allineamento al modello di scuola proposto
dall’autonomia;
-
gli standard di qualità ai quali sarà necessario uniformarsi diventano
utopia in assenza di una revisione della densità numerica dei bambini per
sezione;
-
la progettazione del piano dell’offerta formativa, le connessioni ed i
raccordi con la scuola di base necessitano la riconsiderazione dell’ orario di
lavoro dei docenti di scuola dell’infanzia.
GLI ORIENTAMENTI
L’attualità riconosciuta agli Orientamenti del ‘91 e
la loro conseguente conferma, a base dalla definizione del curricolo delle
scuole dell’infanzia, non alimenta l’apertura di nuovi dibattiti poiché i
contenuti degli Orientamenti sono stati motivo di numerosi confronti
all’interno del gruppo docente dal quale sono stati sicuramente
interiorizzati; attualmente essi trovano applicazione contestualmente alle
diverse realtà scolastiche e nella rielaborazione criticamente dinamica e
costruttiva di ogni singolo insegnante.
Gli Orientamenti vengono citati come esempio di ricerca
pedagogica avanzata e vengono definiti interessante fonte per l’individuazione
di criteri di impianto curricolare per l’intero percorso scolastico:
eclatante, per la nuova terminologia con cui indicare l’Educazione fisica, il
richiamo al campo d’esperienza “Corpo e movimento”.
L’interazione dei diversi campi di esperienza che li
caratterizza diventa un modello per il curricolo di tutto il percorso formativo
dei bambini e dei ragazzi e contribuisce alla creazione di una scuola non più
fondata su materie di studio tradizionali, ma su ambiti disciplinari finalizzati
a sviluppare competenze.
Queste argomentazioni risultano utili per affermare la
qualitativa evoluzione che la scuola dell’infanzia ha subito negli ultimi anni
e rappresentano, manifestandosi come positivo riscontro di esperienze, uno
spiraglio di speranza per gli insegnanti che in questo ciclo scolastico credono
e lavorano, in condizioni spesso intollerabili.
Non è questa la sede per giudicare quanto la creazione
di ambiti disciplinari e l’acquisizione di competenze come obiettivi finali
possa essere considerato positivo in altri cicli scolastici.
LA SCUOLA DELL’INFANZIA E I NUOVI CURRICOLI
Nella SINTESI dei nuovi curricoli, i gruppi di lavoro
delle diverse aggregazioni disciplinari si sono unanimemente richiamati alle
esperienze precedenti dei bambini e un evidente richiamo agli orientamenti si
ritrova nell’indicazione, per il primo biennio, a procedere per campi
d’esperienza.
CAMPI DI ESPERIENZA
La riconsiderazione dei campi di esperienza ribadisce la
necessaria interazione degli stessi nel percorso di sviluppo del bambino.
Gli esperti ritengono inopportuna la stesura di un elenco
di obiettivi e competenze desunti dai diversi campi, elenco definito arido e
decontestualizzato; questa considerazione sembra contrastare con quanto sinora
elaborato dagli insegnanti a livello di formazione, anche in considerazione di
eventuali verifiche finali.
Il testo stesso degli Orientamenti delinea, per ogni
campo di esperienza, obiettivi ed abilità da raggiungere; nei lavori di gruppo
di Aggregazione disciplinare, ad esempio in quello matematico, è possibile
ritrovare l’elenco di ciò che, presumibilmente, i bambini sanno a sei anni e
tali conoscenze rinviano palesemente agli obiettivi finali del ciclo della
scuola dell’infanzia per il campo di esperienza LO SPAZIO, L’ORDINE, LA MISURA.
CONTINUITA’
In ogni Aggregazione disciplinare, gli esperti
si richiamano alle conoscenze acquisite dai bambini nei tre anni di
scuola dell’infanzia e le considerano punto di partenza per il nuovo ciclo
scolastico; auspicano, in certi casi, al momento del passaggio alla scuola di
base, un momento di transizione che preveda anche una continuità metodologica.
Risulta evidente la necessità di una trasmissione di
obiettivi per campi d’esperienza, ma risulta anche evidente che una mera
trasmissione di dati non può essere esaustiva, laddove fondamentale è la
conoscenza di un ambiente come sede di sviluppo e della metodologia che in esso
si attua.
Il passaggio dei dati dalla scuola dell’infanzia al
ciclo di base non può concretizzarsi positivamente, se precedentemente non
vengono risolte le problematiche
inerenti l’organizzazione del
lavoro all’interno del gruppo docente dell’istituto verticalizzato e la
visibilità del lavoro svolto nella scuola dell’infanzia.
Il secondo punto deve ancora confrontarsi con una
radicata mentalità che si ostina a vedere questa scuola come servizio o mero
intrattenimento, il primo deve considerare l’oneroso impegno che grava sugli
insegnanti di scuola dell’infanzia a livello quantitativo e qualitativo (nel
senso di esplicazione di molteplici funzioni).
Le medesime argomentazioni sono valide anche in
considerazione delle prospettate possibilità di raccordo pedagogico e
curricolare che prevede anni ponte - team integrati - curricoli
passerella…
VALUTAZIONE
Valutare tenendo conto della contestualizzazione nella
quale avviene l’apprendimento è un suggerimento che non
può essere rifiutato a priori.
Nella SINTESI dei nuovi curricoli appare, però, troppo
accentuato l’interesse rivolto alla valutazione del contesto rispetto a quello
da rivolgere alla valutazione o, se si vuole, alla considerazione dello sviluppo
avvenuto nei singoli bambini.
Valutare la scuola come ambiente formativo, in un momento
di grande degrado delle strutture, di mancanza di personale ausiliario, di
scarsità di risorse degli Istituti per incentivare qualsiasi iniziativa
potrebbe trasformarsi, per gli operatori della scuola dell’infanzia, in una
impresa che richiederebbe un dispendio di energie non sempre disponibili
presentando, comunque, una elevata possibilità
di insuccesso.
Più corretto potrebbe essere valutare la qualità
dell’offerta formativa nonostante……
Nonostante le classi numerose, la mancanza di spazi
adeguati allo svolgimento delle diverse attività, gli orari non adeguati alle
esigenze psicofisiche dei bambini, la prassi consolidata a non nominare
supplenti eliminando di fatto la compresenza……
La valutazione
del contesto può esplicare la sua validità allorché diventa un resoconto
obiettivo della situazione e documento ufficiale dal quale l’Istituto e le
forze sociali deducono i bisogni e le necessità della scuola.
La valutazione individuale deve certamente privilegiare
l’osservazione e l’ascolto, ma può diventare una trasmissione di notizie
utili alla conoscenza del bambino ed al suo ottimale inserimento nel ciclo
scolastico successivo, allorché gli insegnanti dei due cicli di scuola si
servono della medesima chiave di lettura.
ORGANIZZAZIONE
La Scuola dell’infanzia viene toccata marginalmente
dalla riforma dei cicli; lievi modifiche vengono apportate ai contenuti dei
programmi e minime sono anche le proposte che riguardano l’organizzazione
della scuola.
Non sono proposte peggiorative, anche perché
risulterebbe difficile aggravare le condizioni esistenti nella scuola
dell’infanzia.
Il monte ore annuale non è definito e questo,
sicuramente, riduce la possibilità di scelte mirate esclusivamente alla
realizzazione dell’offerta formativa.
La flessibilità tanto auspicata all’interno
dell’organico funzionale è un miraggio che nella realtà dei fatti non
consente l’attuazione di grosse modifiche organizzative per tre fondamentali
motivi:
1)
l’elevato rapporto numerico insegnante-bambini;
2)
la mancanza di spazi;
3)
l’essenzialità dell’organico funzionale.
CONCLUSIONE
La Riforma dei cicli può configurarsi come motivo di un
timido inizio di miglioramento qualitativo per la scuola nel suo complesso e per
le condizioni di lavoro degli insegnanti.
Ma la rivalutazione della Scuola dell’infanzia e la sua
riconversione in vera e propria scuola a carattere “fondativo” non può
prescindere da una revisione legislativa.
La Riforma dei cicli si presenta come un percorso
coerente ed unitario nella sua ispirazione pedagogica e quindi la sua attuazione
deve avvenire contemporaneamente nella scuola di base e nella scuola
dell’infanzia.
L’emanazione del decreto applicativo dell’art. 8 del
Dpr 275/99 è indispensabile per indicare le caratteristiche di funzionamento
della scuola in sintonia con la riforma.
Se non si provvede a ciò, la scuola dell’infanzia non
potrà cambiare ed i nuovi curricoli rimarranno un’ulteriore documentazione
atta ad accreditarle un valore che di fatto non si vuole riconoscere.
La riforma berlingueriana e la
dissoluzione della scuola italiana tra toyotismo e miti messianici.
di
Dario Generali
La minaccia concretissima
di applicazione della riforma dei cicli a partire dal prossimo anno scolastico
sembra smentire una diffusa convinzione, secondo la quale non vi sia, nella
politica riformatrice scolastica degli ultimi anni, un limite al peggio. Quanto
è stato a lungo paventato e duramente contrastato dalla parte migliore, più
consapevole e competente degli insegnanti è sul punto di realizzarsi in tutta
la sua devastante esizialità per il sistema formativo scolastico nazionale, con
la conseguenza che, da qui a pochi mesi, potrebbe cessare di esistere per un
lungo periodo qualsiasi possibilità di formazione culturale pubblica dignitosa
nel nostro paese. Molto è stato fatto per contrastare ed impedire un risultato
di questo genere e molto ancora si sta facendo. Da anni si combatte ad ogni
livello per arginare l’arroganza e l’irrazionalità di una politica
scolastica insipiente e velleitaria, viziata, nel contempo, da ideologismo
livellatore e da volgarità economicista, da superficialità massmediatica e da
malafede politica e sindacale. A partire dall’Incontro di studio Tra delusione e utopia. Stato e prospettive di trasformazione della
scuola pubblica media superiore italiana, svoltosi il 17 giugno presso
l’IPSIA “Cesare Correnti” di Milano,
ai libri di Giovanni Pacchiano,
Fabio Minazzi, Lucio Russo,
Alberto Giovanni Biuso,
Fabrizio Polacco, dalle molte altre
iniziative, volumi e convegni in cui, dal 1998 ad oggi, si è manifestato un
radicale dissenso verso la riforma scolastica in corso,
alle riviste «il Voltaire» e «Punti critici», sino alle disamine degli
autori più competenti del giornalismo italiano di settore
ed all’elaborazione di una vera e propria proposta alternativa condotta da una
commissione di docenti intellettuali promossa congiuntamente dalla Fondazione
Nova Spes, da PRISMA, dal Centro Studi Gilda e dall’Istituto Italiano per gli
Studi Filosofici, si sono sottolineati, con
un grado di chiarezza tale da poter essere compreso anche dalle menti più
semplici e meno strutturate, errori, assurdità, pericoli ed irrazionalità
della riforma berlingueriana. Tuttavia alla forza teoretica delle critiche ed
all’evidenza delle ragioni di chi, in vari modi, si è opposto e si sta
opponendo ad una tale deriva della scuola italiana, ha corrisposto una notevole
debolezza ed uno straordinario isolamento, sul piano pratico e politico, di
queste voci.
La
causa principale di un tale stato di cose può essere ricondotta alla
convergenza di vedute raggiunta in proposito dai sindacati confederali
(egemonizzati culturalmente ed ideologicamente dalla politica scolastica
sostenuta ed elaborata dalla CGIL), da Confindustria e dagli ultimi governi, che
ha costituito un fronte particolarmente compatto e soffocante, difficile da
sconfiggere per chi può contare sulla sola forza delle proprie idee. Il
livellamento impiegatizio del corpo docente è sempre stato un obiettivo del
sindacalismo confederale, che non ha mai tollerato, per gli insegnanti come per
tutte le categorie caratterizzate da una professionalità di alto profilo
intellettuale, la legittima richiesta di aree separate di contrattazione e
l’esigenza del riconoscimento di proprie, particolari professionalità,
evidentemente differenti da quelle che definiscono attività lavorative meno
qualificate. Perché, evidentemente, bidelli, infermieri e personale
amministrativo sono lavoratori come insegnanti e medici ed unitamente a questi
devono essere collocati nel momento di definire stati giuridici e retribuzioni
dei vari comparti. Equità, per il sindacalismo confederale, significa
livellamento, inevitabilmente verso il basso, non riconoscimenti ad ognuno
secondo i propri meriti. Se mai, quando vengono accettate distinzioni, sono
sempre di natura quantitativa, mai qualitativa: chi lavora tre ore deve essere
retribuito il triplo di chi ne lavora una, anche se chi ne lavora una vale il
triplo di chi ne ha lavorate tre ed in una ha fatto quello per cui il primo ne
ha impiegate tre.
Inoltre,
sempre per il sindacalismo confederale, l’unica cosa che sembra importare,
nell’attività didattica, è il recupero della marginalità e della devianza,
mai la valorizzazione dell’eccellenza, perché quello che si deve ottenere è
il superamento di qualsiasi differenza, il livellamento di tutti i soggetti
affidati alla formazione scolastica. Da qui, per esempio, il disastro del tempo
pieno, con bambini dai sei ai dieci anni costretti a stare a scuola, contro ogni
ragionevolezza, per otto ore al giorno, al fine di impedire che i soggetti
appartenenti alle famiglie culturalmente più strutturate possano avvantaggiarsi
degli stimoli familiari. La cosa da fare non è, naturalmente, qualificare la
scuola in modo che chi, indipendentemente dalla famiglia di provenienza, abbia
capacità e motivazioni possa affrancarsi dalle sue origini, ma impedire al
meglio che i più fortunati imparino di più e meglio degli altri. Cosa che poi,
nonostante tutto, avviene ugualmente, senza però che gli altri abbiano avuto
l’unica garanzia che uno stato di diritto e democratico deve necessariamente
dare: una scuola di qualità in grado di fornire strumenti adeguati di
formazione anche a chi non può contare su altri.
Il
fatto che una parte non irrilevante della struttura gerarchica dell’apparato
della scuola, come molti esperti e funzionari del ministero, provengano dai
quadri sindacali che, nel corso degli anni, hanno, insieme ai partiti politici,
ai quali molto spesso i sindacati sono collegati, condotto una sorta di
colonizzazione della pubblica amministrazione, fa intendere perfettamente come
queste logiche si siano imposte anche nella struttura gestionale e normativa
della scuola, facendo così aderire, quasi senza residui, i punti di vista
istituzionali a quelli dei sindacati.
A
propria volta, Confindustria si trova a far proprie le visioni del sindacalismo
confederale. In primo luogo poiché lo considera il proprio interlocutore
privilegiato, l’unico in grado di garantire quella pace sociale che è
presupposto necessario degli interessi che rappresenta. In secondo luogo perché
la grande industria non è interessata ad una formazione culturale critica, ad
una paideia, ad una Bildung,
ma ad un addestramento, funzionale alle proprie esigenze produttive. I pochi
creativi di cui può aver bisogno possono benissimo essersi formati in scuole
private italiane od estere e poco può importare se tutti o solo qualcuno abbia
avuto la possibilità di raggiungere determinate capacità e competenze. Del
resto, legittimamente Confindustria non ha come suo problema l’esigenza che
siano fornite a tutti valide opportunità formative: i figli degli industriali e
di chi rappresenta, evidentemente, ce l’hanno indipendentemente dai livelli
qualitativi della scuola pubblica. Inoltre, trovando opportuno che la scuola
fornisca più un addestramento che una formazione culturale critica ed
approfondita, richiedere che gli insegnanti siano degli intellettuali
rappresenta, per Confindustria, un inutile sperpero di risorse e di denaro,
essendo largamente sufficiente avere degli istruttori efficienti e resi
flessibili dalla frequenza di corsi brevi, che li rendano capaci di preparare i
propri allievi ad affrontare le diverse esigenze di volta in volta presentate
dal mercato. In quest’ottica gli insegnanti, privi di autonomia e di
responsabilità decisionale, non possono che essere inquadrati ad un livello
impiegatizio medio basso, così come credono anche i sindacati confederali, CGIL
in primo luogo.
Non
a torto Mario Pirani, nel suo articolo Se
studiare è un optional, apparso su «La Repubblica» del 20 febbraio 2001,
rompendo il fronte compatto di sostegno prestato dal suo quotidiano fino a quel
momento a Berlinguer e a De Mauro, ha attribuito «la politica scolastica delle
sinistre», un tempo qualificata «nei suoi orientamenti da intellettuali come
Visalberghi e Codignola, Concetto Marchesi e Francesco Flora, Natalino Sapegno e
Rosario Villari», ad «una casta potente quanto autoreferenziale di
pedagogisti, in buona misura anonimi, abbarbicati attorno al Ministero della
Pubblica Istruzione e negli Istituti regionali per la didattica (IRRSAE)»,
appunto quei sindacalisti che hanno colonizzato la pubblica amministrazione di
cui si diceva e «che hanno imposto la loro dittatura sull’ordinamento
scolastico, grazie alla acquiescenza dei ministri che si sono succeduti».
Il
livello e le caratteristiche dell’impianto culturale su cui si fonda
l’azione riformatrice sarebbero tali da non meritare alcun serio sforzo di
analisi critica, venendo da un’operazione ideologica che si potrebbe definire
eclettica se potesse almeno contare su un minimo padroneggiamento razionale dei
propri riferimenti concettuali, accozzati invece in modo spesso arbitrario ed
irrazionale e sempre in una prospettiva di grave fraintendimento e confusione
teoretica. Per dirla ancora con Pirani, si tratta del «virus mentale» della
“Rivoluzione culturale” maoista, «subdolamente annidato in tutto questo
tempo e venuto [a] contatto con il sociologismo pedagogico d’oltreatlantico»,
che ha «diffuso e provocato una di quelle patologie mutanti, quanto devastanti,
che le terapie della Ragione faticano a contenere», ma anche di un patchwork
malamente rappezzato, che fonde l’utopismo messianico di Don Milani con il «ciarpame
psicopedagogico di stampo anglosassone che ha portato l’Inghilterra, stando
alle affermazioni di Blair, ad avere uno dei più disastrati insegnamenti
pubblici del mondo».
Ciarpame
ideologico, patchwork mal combinato e deviazione concettuale che però, grazie
alle ragioni indicate e con il sostegno dei mezzi pratici e dell’apparato
organizzativo di C.G.I.L. e Confindustria sono giunti a generare una riforma
mostruosa ma incombente e realissima, al punto da essere riuscita a terminare
gli iter parlamentari ed essere sul
punto di venir applicata nella sua devastante completezza.
Se,
dunque, tale impianto ideologico meriterebbe pochissima attenzione sul piano
teorico, per la sua pochezza culturale, ne richiede invece moltissima nella sua
qualità di riferimento di una riforma concretissima e sul punto di essere
definitivamente applicata. Impianto ideologico che viene esplicitamente
illustrato, come è raramente accaduto in altri scritti, ne Il
libro verde della Pubblica istruzione, a cura di Federico Butera, con Prefazione di Luigi Berlinguer ed Introduzione di Vittorio Campione.
Il volumetto contiene
l’illustrazione della “diagnosi organizzativa” e di “quattro progetti di
cambiamento”, che costituiscono le premesse operative di PICTO, il Progetto
Integrato di Cambiamento Tecnologico-Organizzativo, nato in sordina, come tutta
la riforma, nel secondo semestre del 1997, con il compito di “implementare”
la riforma berlingueriana, cioè di costringere scuole ed insegnanti ad
accettare il modello di autonomia concepito dal ministro e dai suoi epigoni.
Tale risultato dovrebbe essere ottenuto attraverso strategie organizzative di
tipo aziendale, in grado di espugnare alle radici, ricorrendo alle management sciences, le resistenze di insegnanti e dirigenti
scolastici “retrivi” ed “incapaci di comprendere” il valore
straordinario della riforma.
Alcune caratteristiche di PICTO
meritano di essere sinteticamente illustrate: a) PICTO fa capo ad un Comitato
dove sono largamente rappresentati apporti di tecnica dell’organizzazione
aziendale, senza la presenza di alcun insegnante in quanto punto di vista della
categoria; b) L’unico sindacato rappresentato è la CGIL; c) La qualità
scientifica del Comitato può contare sulla presenza degli immancabili
Maragliano e Vertecchi; d) Il libro verde
è stato redatto da un team di IRSO
(Istituto di Ricerca Intervento sui Sistemi Organizzativi presieduto da Federico
Butera) e dalla Butera e Partners s.r.l., quindi da una società di consulenza e
progettazione organizzativa privata
che, senza sentire alcun insegnante, ha stabilito come dovrebbe essere la scuola
pubblica dell'autonomia.
A queste significative premesse
seguono numerose conclusioni esposte nel Libro
verde, che vale la pena indicare, in quanto emblematiche di caratteristiche
e prospettive ideologiche della riforma: I) Sull'eccellenza della riforma
berlingueriana non c’è da discutere: «tutto ciò è acquisito dal Libro
Verde come dato, e mai posto in questione»; II) La risposta data
dall’industria all’introduzione dei team
ed il conseguente successo del “toyotismo” è esemplare e dovrebbe essere
assunta dalla scuola come modello da imitare; III) La customer satisfaction sarà uno degli obiettivi fondamentali degli
istituti scolastici dell’autonomia; IV) Sarebbe auspicabile un reclutamento
diretto del personale ad opera dei singoli istituti, presieduto ed indirizzato
dai nuovi dirigenti scolastici; V) Condizione preliminare per ogni cambiamento
sarà l’abolizione della libertà d’insegnamento dei singoli insegnanti, che
ora, in una situazione di «profondo radicamento di una cultura democratica»,
non ha più senso di esistere; VI) Si dovrà superare la centralità del
rapporto insegnante-classe a vantaggio di progetti collettivi che coinvolgano
tutte le componenti dell’istituto, le forze sociali, gli enti locali, ecc.;
VII) Il reclutamento del personale docente non dovrà avvenire solo sulla base
delle competenze disciplinari, ma anche e soprattutto sulle sue capacità
trasversali di creare motivazioni; VIII) Gli istituti scolastici dovranno avere
organizzazione e finalità di marketing
simili a quelle di una piccola azienda; IX) La professionalità docente dovrà
essere misurata in relazione al suo adattamento alle logiche di trasformazione
degli istituti; X) I budget
incentivanti degli istituti saranno collegati al raggiungimento dei risultati
indicati dal Ministero; XI) La conoscenza impartita non dovrà più essere
appannaggio di un’élite di
professionisti, ma diffusa nel sociale e condivisa dal complesso del personale
scolastico, poiché è necessario che anche il personale amministrativo attinga
e collabori al livello cognitivo che anima l’offerta formativa; XII) La
concezione della nuova gara per la fornitura del sistema informatico della
scuola rappresenterà la nuova concezione della gestione della conoscenza nella
scuola; ecc.
Ipotesi del
tutto estranee al modello di una scuola di qualità, come la tradizione e
l’esperienza della parte migliore dell’attuale categoria docente configura e
che, come si è visto, se non fosse per la loro agghiacciante incombenza, non
meriterebbero neppure di essere prese in considerazione, in quanto assolutamente
improbabili, per non dire altro, ed incongrue con le esigenze di una scuola
decente. Scuola decente che, in questo contesto, sembra sempre più difficile da
salvare dall’imminente catastrofe, procurata dagli attacchi concentrici di
Confindustria, sindacalismo confederale ed insipienza governativa, che sono sul
punto di portare all’ultima conclusione la distruzione della professionalità
docente e della (da loro odiatissima, in quanto espressione e veicolo di
coscienza critica) libertà d’insegnamento. Scuola decente che si dovrà
tentare di difendere non nella sola contingenza dei singoli istituti, ma
soprattutto sul piano teorico e culturale, dove gli apparati ministeriali e
sindacali stanno concentrando i loro maggiori sforzi per ottenere la
normalizzazione dell’eterogeneità culturale dei docenti e l’egemonia del
pensiero pedagogico unico da loro propugnato.
Ovunque
l’apparato organizzi un corso di formazione o di aggiornamento, gli obiettivi
che persegue non sono quasi mai quelli di un’effettiva qualificazione
culturale e professionale dei docenti coinvolti, come sarebbe lecito aspettarsi
e come sarebbe preciso dovere istituzionale dei promotori delle iniziative, ma
«l’organizzazione di uno sforzo sistematico di trasmissione gerarchica -dal
centro alla periferia, dagli ispettori agli insegnanti- di un pensiero unico, di
un verbo pedagogico dato per assoluto, necessario, indiscutibile».
Con la volontà esplicita ed il pericolo evidente di isolare col tempo i docenti
più strutturati intellettualmente e maggiormente in grado di resistere a tanto battage
ideologico, sia facendo entrare nel senso comune dell’insegnante medio (con
gli stessi metodi utilizzati nelle campagne pubblicitarie massmediatiche nei
confronti dei consumatori) i dogmi su cui si fonda la riforma berlingueriana,
sia, soprattutto, nella logica dell’onnipotenza pedagogica tanto cara ai
riformatori ministeriali, tentando di imporre ai nuovi insegnanti, sin dal
periodo degli studi universitari e di specializzazione, forma
mentis e principi della pedagogia di stato. Non resistere con la massima
energia su questo terreno significherebbe condannarsi ad una lenta ma
inesorabile scomparsa, determinata dall’immissione, nel meccanismo del nostro
naturale avvicendamento generazionale e professionale, di giovani insegnanti
formati secondo i rovinosi modelli sposati dall’apparato e dalla sua ideologia
e selezionati non sulla base delle loro competenze scientifiche e professionali,
ma in relazione alla loro adesione a tale dottrina.
Uno dei luoghi dove sarebbe necessario operare il
massimo sforzo per tentare di spezzare il monopolio ideologico della pedagogia
di stato e l’occupazione pressoché completa del territorio istituzionale da
parte del sindacalismo confederale e della “casta
di pedagogisti” più o meno allineati alle tesi di Maragliano e Vertecchi e
dei loro epigoni, sono sicuramente le scuole di specializzazione
post-universitarie. Con rare eccezioni si è fatto del tutto per evitare che in
esse entrassero come docenti soggetti culturalmente ed ideologicamente
eterogenei rispetto a tale ambiente ideologico di riferimento.
Mentre è stato facilissimo assistere al reclutamento di insegnanti
sindacalizzati con bibliografie nulle o ridicole, nello stesso modo si è spesso
registrata l’esclusione di soggetti che potevano vantare curricula
e bibliografie compatibili con un possibile giudizio d’idoneità al ruolo
della docenza universitaria nelle specifiche discipline di appartenenza. Alla
“Bicocca” di Milano, per esempio, senza aggiungere altro, il bando di
concorso è uscito, come spesso accade in casi di questo genere, nell’agosto
1999, con la conseguenza che a presentare domanda sono stati fondamentalmente
quelli a cui la notizia è stata trasmessa personalmente dalle strutture
accademiche a dagli apparati sindacali coinvolti, con buona pace dei meriti e
delle competenze degli esclusi.
In tali sedi, come, anche, più
in generale, nei molti corsi universitari di Pedagogia maggiormente dominati
dall’esigenza del sostegno acritico del dogma pedagogico più che dalla volontà
di elaborazione di un’originale ricerca critica le forzature si allargano
spesso allo stesso terreno fondazionale della storia. Come è sempre accaduto
anche in passato quando ha prevalso la passione dell’ideologia sulla sobrietà
della riflessione e della ragione, la ricostruzione storiografica viene piegata
senza problemi alle esigenze delle tesi che si vogliono dimostrare, con
distorsioni e mistificazioni di grossolana evidenza, che si commentano da sole e
che qualificano con chiarezza caratteristiche e livello culturale di tali
operazioni. Anche in questo caso, però, tesi che, sul piano teorico, non
meriterebbero particolare attenzione per la loro evidente infondatezza, ne
meritano invece moltissima in quanto esposte e sostenute in corsi universitari
rivolti a giovani, in molti casi ancora incapaci di porsi in modo selettivo e
critico nei confronti degli insegnamenti loro impartiti da docenti dai quali
legittimamente dovrebbero aspettarsi equilibrio, competenza e rigore
scientifico. A giovani, in particolare, che avranno come fondamentale
prospettiva professionale quella dell’insegnamento e che dovranno nel tempo,
per quel naturale ricambio indicato, sostituirci, garantendo la qualità
dell’insegnamento scolastico futuro nella nostra nazione. A giovani cui si
dovrebbe garantire una lunga ed approfondita formazione, in grado di condurli
alla superiorità intellettuale e critica di uno studioso che è maestro nella
propria disciplina e che ha solidi riferimenti culturali generali. A futuri
docenti ai quali non si dovrebbero propinare semplificazioni da scuole serali e
formule ideologiche, ma permettere, attraverso una solida formazione culturale,
la lenta comprensione del complesso rapporto di libertà intellettuale che non
può che caratterizzare qualsiasi insegnamento ed apprendimento, la pacata
educazione al pensiero critico ed ai valori della ragione, la volontà di
un’intelligenza delle cose per quello che sono e la capacità di giudicarle
sempre sulla sola base del proprio libero giudizio critico e degli strumenti
intellettuali e culturali maturati.
Un esempio assai significativo
di come siano impartiti gli insegnamenti di Pedagogia non solo nelle scuole di
specializzazione, ma nelle stesse facoltà di Scienze della formazione, può
venire dal valutare come Raffaele Mantegazza illustri, nell’ambito delle
modalità della trasmissione del sapere e della filosofia dell’educazione, le
caratteristiche salienti del passaggio epocale tra medioevo ed età moderna,
nella sua Filosofia dell’educazione,
testo obbligatorio della parte istituzionale del programma d’esame del corso
di Pedagogia generale della Facoltà di Scienze della formazione
dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca per l’anno accademico
1999-2000. In tale volume Mantegazza, seguendo le tesi di
Walter J. Ong,
individua come caratteristica principale, sul piano in questione e in tale
trasformazione epocale, il passaggio da una società caratterizzata da rapporti
aurali-orali ad una fondata sulla scrittura, su una cultura cristallizzata nel
testo scritto ed espressione di una chiusura comunicativa e dell’egoismo
sociale del borghese moderno, quando, al contrario, sempre secondo Mantegazza,
in quella medioevale la trasmissione della cultura era un fatto sociale e
condiviso, poiché avveniva oralmente, in uno spazio circolare aperto a tutti.
Visto il carattere del tutto
improbabile di tesi storiografiche di questo genere e la possibile difficoltà,
per un lettore avvertito ed equilibrato, di credere alla loro formulazione, in
siffatti termini, da parte di soggetti accreditati ed in manuali universitari,
può forse non essere superfluo assoggettarsi ad una lunga citazione, in modo
che le pagine in questione possano presentarsi nella loro formulazione originale
e senza interpolazioni interpretative:
Dobbiamo
all’analisi di alcuni testi dello studioso statunitense Walter J. Ong una
serie di interessanti suggestioni sul rapporto oralità/scrittura, e
sull’importanza assunta dallo studio di questo rapporto nell’analisi dello
sviluppo della società borghese. Ong analizza infatti il passaggio da una
società -quella medievale- essenzialmente basata sull’oralità a una basata
sulla scrittura -la società moderna- cogliendo proprio nel gesto luterano di
traduzione della Bibbia il paradigma
di questa transizione [...] Nel passaggio dall’età medievale all’era
moderna, si attenua allora la dimensione orale-aurale, per giungere al
predominio della vista [...] Ma che conseguenze ha questo passaggio dalla
dimensione orale-aurale a quella visiva sul piano della trasmissione della
cultura e dunque anche dell’educazione? In una cultura aurale-orale la
trasmissione di dati, informazioni, notizie, il tramandare leggende e miti e
dunque anche la formazione delle nuove generazioni è atto collettivo e sociale,
perché avviene in gruppo; qui, la voce della persona che parla proviene da un
interno ed è accolta e custodita da un interno (o da molti): l’”interno”
dell’ascoltatore. La parola è viva in quanto risuona tra gli uomini e le
donne, è immediatamente parola sociale, condivisa e legittimata dal gruppo: lo
spazio è aperto e circolare, perché deve permettere la circolazione della
parola e della voce. Nella cultura visiva, invece, ossia nella cultura che si
afferma nell’età moderna, la parola è spazializzata, cristallizzata sul
foglio, e l’orizzonte della sua diffusione è quello privato, individuale,
singolare, egoistico del singolo individuo che legge, magari chiuso nella
propria stanza. Il gesto non è più quello del condividere; è quello
dell’isolarsi, del privatizzare, del nascondersi. La parola scritta ha già il
carattere della segretezza. Lo spazio è quello chiuso, delimitato; è lo spazio
del parallelepipedo all’interno del quale si svolge la vita quotidiana del
borghese (bottega, aula scolastica o cella). Il silenzio che contorna la lettura
è la chiusura di ogni possibile comunicazione. Allora, lo spazio del borghese
è, proprio nel gesto che lo fonda, spazio del privato e dell’isolamento,
spazio che deriva dalla rottura dei vincoli solidaristici che permeavano il
Medioevo. E’ uno spazio spersonalizzato, perché non più abitato dalle
presenze che permettevano lo scambio della parola; tale scambio, l’incontro
tra uomo e parola, non è più risonanza tra due interni, ma è incontro-scontro
tra due esteriorità: quella della parola cristallizzata in carattere di stampa
e quella del soggetto monadico e isolato. L’individuo che si afferma nella
modernità è emerso dalla collettività e l’ha dovuta negare per affermare la
propria unicità ed irripetibilità. Ma tale negazione ha avuto come conseguenza
la costituzione dell’uomo isolato, la nascita della forma peculiare di
solitudine disperata che è un tratto caratteristico della modernità. Il senso
di ordine e di controllo che l’alfabeto, la cristallizzazione della parola sul
foglio conferiscono al lettore è senso di potere, ma di potere solitario e da
non condividere con altri. Si tratta del potere dell’uomo solo,
dell’individuo a se stante, del pensatore singolo, figura del tutto
sconosciuta alle culture orali; è nato l’uomo con il libro alla mano, e
contemporaneamente è nata la proprietà privata e personale, di contro alla
proprietà collettiva. Il possesso del borghese trova nel copyright
uno dei suoi archetipi.
L’insipienza e
l’infondatezza storiografica non solo delle tesi sostenute, ma della stessa
illustrazione dei contesti di riferimento, rende superfluo ogni commento, come
un’analisi critica dettagliata delle medesime. Sarebbe infatti fin troppo
semplice ironizzare su Anselmo, Gaunilone ed Abelardo che discutono con i
contadini, attorno a un fuoco, in una comunità di villaggio o sul blocco della
trasmissione del sapere prodotto dall’invenzione della stampa, sull’egoismo
della scrittura e sulla generosità della parola o sul copyright
nato nel passaggio tra medioevo ed età moderna ed archetipo della proprietà
borghese. Più significativo può invece essere rilevare, in questo come in
molti altri casi analoghi, l’arrogante forzatura della storia a sostegno di
tesi preconcette, la negazione disinvolta degli eventi finalizzata
all’accreditamento di concezioni acritiche, di un credo, in questi casi
pedagogico, che si vuole ad ogni costo unico ed indiscutibile. Poco importano le
ragioni di tali operazioni, che si potrebbero sospettare a sostegno di una
battaglia condotta contro il predominio della trasmissione del sapere fondata
sullo studio di testi scritti o a sostegno dell’immagine di una scuola
“aperta al sociale” e non più concentrata su un insegnamento di carattere
specialistico. Importa però -e dà perfettamente conto del livello a cui si è
giunti- che si stiano compiendo sistematicamente e che sia possibile trovarle in
testi universitari, in manuali imposti per la preparazione della parte
istituzionale, dove sarebbe lecito aspettarsi opere sobrie ed equilibrate, in
grado di fornire un’immagine della disciplina condivisa dalla comunità
scientifica di riferimento. Mistificare l’immagine storica del passato
costituisce una grave responsabilità intellettuale, perché attenta alla nostra
memoria ed alla nostra identità culturale. E’ una forma di attacco alla
libertà intellettuale ed al pensiero critico meno eclatante del bruciare i
libri, ma a questo molto simile nelle motivazioni, perché ha lo stesso scopo di
eliminare ciò che è difforme dalle proprie convinzioni, quanto appare
irriducibile ai propri dogmi.
In un clima culturale di tal
genere risulta sicuramente prioritario, per dei docenti impegnati nella
salvaguardia della loro dignità professionale, ma anche e soprattutto nella
difesa dei valori intellettuali e civili insiti in un insegnamento e in una
scuola in linea con i loro compiti istituzionali, concentrare le maggiori e
migliori energie sul piano della battaglia culturale, al fine di tentare di
spezzare l’attuale monopolio delle dottrine sostenute ed imposte dalla
“casta di pedagogisti” di matrice sindacal-ministeriale. Una battaglia che
deve essere evidentemente condotta nelle singole scuole e nella prassi didattica
quotidiana, ma non deve trascurare per nessuna ragione i luoghi di formazione e
di aggiornamento, soprattutto là dove si preparano i nuovi insegnanti, per
contrastare l’ennesimo tentativo di giungere, anche per questa via,
all’eliminazione radicale dell’eterogeneità culturale e del pensiero
critico dei docenti, in una parola alla loro libertà d’insegnamento, e, con
essa, alla possibilità di una scuola libera, dignitosa e culturalmente
qualificata.
ALLA
RICERCA DI UN’ETICA PER LA SCUOLA
di
Stefano Corsi
Al
di là dei contenuti e dell’organizzazione di una Riforma dei cicli per molti
versi blindata fin dall’inizio del suo iter parlamentare, il tema della
disciplina, da elemento apparentemente collaterale ha assunto un ruolo di
centralità ideologica. Ne è espressione lo Statuto dello studente che nasce
come una dichiarazione dei diritti, sensata nelle sue intenzioni e nelle sue
premesse ma decisamente discutibile nell'articolazione
complessiva. Infatti non può passare inosservata la notevole estensione
dell’articolo 2 sui diritti e l’evidente esiguità dell’articolo 3 sui
doveri. Il lettore, fiducioso, è portato a pensare che l’articolo successivo,
il 4, che si occupa esplicitamente della disciplina, recupererà l’omesso.
Leggendone il suo ampio contenuto ci si accorge invece che l’estensione è
dovuta alla premura del legislatore di rassicurare lo studente sui meccanismi
garantisti che dovranno scongiurare le possibili sanzioni. E’ nota la discussione che
recentemente è stata aperta da qualche giornalista non distratto, sullo stato
delle regole nella scuola. E' difficile non notare il cambiamento di clima che
nella scuola si respira da qualche anno. Si possono avere varie opinioni al
riguardo ma è indubbio che il rapporto che un insegnante è chiamato ad
instaurare con gli studenti si dovrebbe sviluppare su un terreno
delimitato da regole che riconducano costantemente l’uno e l’altro alla
coscienza di appartenere alla società. Il diritto del cittadino studente invece
sembra non coniugarsi con il dovere che egli ha di prepararsi
per un ruolo futuro di pubblica utilità. Tutto questo per la demagogia
che ha fatto della scuola una zona franca, avulsa dalla società civile, quella
scuola che assomiglia più ad un supermercato e che è stata ben riassunta dalla
definizione "scuola dello studente cliente". Ho sempre pensato che il
cittadino studente e il cittadino docente, per il solo fatto di essere in quel
terreno comune, la scuola, in cui di volta in volta ci si riappropria del senso
delle regole civili, le si rimettono in discussione, se ne ripercorrono le
implicazioni profonde, finiscano per instaurare, consapevoli o no, una sorta di
complicità: la complicità di chi, anno per anno, di volta in volta, trasforma
le regole in valori personali. Ma perché il superamento avvenga, la scuola deve
avere, essa stessa, delle regole e, soprattutto, chiare. Non mi pare sia il caso
di quelle di cui si parla nello statuto dello studente. Appare chiaro che,
mentre il mondo del lavoro ha regole e selezioni sempre più ferree, la scuola
è sempre meno adatta al suo compito.
Fu
a partire dagli anni ‘80 che cominciarono ad essere frequenti i casi di
ricorso al TAR di studenti e famiglie che contestavano l’esito di uno
scrutinio. Quei ricorsi avevano quasi sempre un esito sfavorevole per chi li
aveva promossi ma tale pratica fu sufficiente per scoraggiare gli insegnanti a
palesare l’effettivo profitto dello studente. Le promozioni sempre più facili
in questi ultimi anni sono le conseguenze di una volontà politica che,
attraverso il ministero, nel tempo, ha fatto pressione sui presidi. Poiché le
promozioni dovrebbero essere il frutto di una scuola che dà a tutti i cittadini
il massimo delle opportunità culturali, se i meccanismi che le producono non
sono credibili, non possono che esprimere l’incapacità della scuola di essere
all’altezza dei suoi obiettivi. Pare evidente che ci si occupi più della
facciata dei dati e delle percentuali, adatte formalmente al palcoscenico
europeo, che della effettiva sostanza. E’ la demagogia di chi, attraverso gli
organi collegiali ha assegnato e va assegnando a genitori e studenti poteri
impropri che confondono i ruoli e che sono destinati ad abbassare non solo il
livello professionale della scuola ma anche il suo senso etico. Quante volte si
è sentito accusare di scarsa sensibilità civica i genitori per la mancanza di
partecipazione alle elezioni degli organi collegiali! Non ci si domanda perché
l'adesione a questi organi sia del tutto marginale. Si individuino e si
rimuovano le ragioni che rendono virtuale la democrazia in quelle occasioni in
cui serve davvero ma si faccia anche una netta distinzione di funzioni nel
rispetto delle competenze di ciascuno. Non si può ripartire lancia in resta,
modificando percentuali di appartenenza delle varie componenti della scuola a
questo o a quell’organo, o, addirittura moltiplicarne il numero.
Infine
un'ultima considerazione sul problema dell'assenteismo degli studenti a scuola.
Tra breve esso andrà assumendo sempre di più il carattere di un'emergenza: è
nota ormai la sempre più diffusa pratica delle assenze collettive nella scuola
superiore. Già ora, a livello di commissioni sui cicli, si comincia a pensare
ad una soluzione. La filosofia che la ispira è la stessa che guida lo spirito
della riforma. Si arriverà ad assegnare dei punteggi, paralleli a quelli del
profitto, in base alla frequenza, che potranno essere esibiti nel libretto
personale alla fine della scuola. Il fenomeno delle assenze dipende dal successo
scolastico garantito e non saranno certo dei punteggi fine a se stessi a
risolverlo. Quanto a capacità di deterrenza siamo vicini allo zero mentre la
formazione del cittadino appare sempre più improbabile.
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