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La strategia di Lisbona 2000

 

di Emanuele Costa

 
 

Orientamenti e  direttive della politica europea dell’ istruzione  da cui discende la maggior parte delle novità italiane e qualche ragionamento sul fatto che  una educazione disinteressata, liberale, non è più  concepibile se la conoscenza deve diventare una risorsa strategica per l’economia.

 
 

La “Conferenza dei Ministri dell’Istruzione” tenutasi a Lisbona il 23-24 marzo 2000, ha avviato la politica europea per l’educazione, che non poteva aver origine se non da una delega da parte dei quindici, in quanto la Commissione Europea non può operare senza l’unanime consenso di tutti gli stati membri. In questo caso c’è stato quell’accordo unanime che spesso manca tra i governi dell’Unione. L’interessamento della commissione europea è giunto a seguito del Trattato di Maastricht del 1992, che con l’art. 126 accorda per la prima volta alla Commissione europea competenze in materia d’insegnamento. Viene creata successivamente la Direzione generale dell’Educazione della Formazione e della Gioventù (DGXXII), diretta dalla socialista francese Edith Cresson, una sorta di «ministero» europeo dell’Educazione, e immediatamente attivato un «gruppo di riflessione sull’Educazione e la formazione» sotto l’egida del prof. Jean-Louis Reiffers, che partecipa all’elaborazione del Libro Bianco “Insegnare e imparare : verso la società cognitiva”. Con l’arrivo alla Commissione di Viviane Reding si passa concretamente alla fase di realizzazione. I progetti elaborati in forma teorica fino a questo punto trovano l’avallo dei Ministri nazionali dell’educazione per «mobilitare le comunità educative e culturali così come i soggetti economici e sociali europei al fine di accelerare l’evoluzione dei sistemi educativi e di formazione come anche la transizione dell’Europa verso la società della conoscenza». Le decisioni di Lisbona rappresenteranno, e rappresentano ancora, una pesante ipoteca sulle prospettive di riforma e sull’autonomia dei singoli stati in materia di istruzione, non solo per la modalità poco democratica con cui la Commissione abitualmente opera, bensì soprattutto per i contenuti specifici delle sue proposte. In applicazione alle decisioni del summit di Lisbona la Commissione pubblica nell’ottobre un “Memorandum sull’educazione e la formazione permanente”, e a fine gennaio 2001 il testo strategico: “I futuri obiettivi concreti dei sistemi di Educazione” raccogliendo i contributi dei singoli stati e i risultati delle prime discussioni. “L’idea madre, l’ideologia fondatrice di questa politica educativa comune, è riassunta come segue nella maggior parte di questi documenti: «l’Unione europea si trova di fronte ad una svolta formidabile indotta dalla mondializzazione e dalle sfide relative a una nuova economia fondata sulla conoscenza». Da questo momento l’insegnamento europeo deve piegarsi ad un «obiettivo strategico» principale: aiutare l’Europa a «diventare l’economia della conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, capace di una crescita economica duratura»[1].

 

Orientamenti  e  direttive della strategia di Lisbona

 

Il primo orientamento specifico che emerge dai documenti europei riguarda la centralità delle competenze. Per quanto riguarda i contenuti disciplinari o i programmi d’insegnamento è giunto il momento di uscire di scena: trasmettere saperi non è più prioritario nella scuola che diventa risorsa strategica per l’economia della conoscenza. Se finora avevamo concepito l’apprendimento significativo di sapere come l’esperienza cognitiva fondamentale per lo studente, il cui obiettivo era l’acquisizione e lo sviluppo di capacità critiche quali la comprensione della realtà, la capacità di comprenderne i significati nelle più varie forme, di valutare il peso e l’importanza di fatti, eventi, fenomeni culturali, di orientarsi autonomamente, ecc. ora l’obiettivo diventa la soluzione di problemi: “in quanto capacità di risolvere dei problemi, la competenza non può che acquisirsi mettendo il «discente» - soggetto del proprio apprendimento in opposizione all’allievo, presunto passivo – « nella condizione» di far fronte a problemi di un dato tipo, affinché esso si eserciti a «mobilizzare» il proprio sapere e saper-fare in determinate categorie di situazioni concrete”[2]. Per la discussione sui fondamenti pedagogici dell’approccio per competenze e sulla sua efficacia in relazione agli obiettivi rimando al testo di Hirtt che è reperibile sul sito belga “Pour une école démocratique”.

Le conclusioni del Consiglio europeo di Lisbona indicano nelle competenze pluridisciplinari o trasversali, nelle nuove competenze di base (relative alle tecnologie dell’informazione, alle lingue straniere), i futuri obiettivi di insegnamento, precisando che «non si tratta di una lista di soggetti o discipline come le abbiamo conosciute a scuola o successivamente»; sottolinea inoltre la centralità delle competenze sociali: «fiducia in se stessi, indipendenza, attitudine ad assumersi rischi»; competenze relative allo spirito d’impresa: «capacità dell’individuo a superarsi nel campo professionale», «attitudine a diversificare le attività d’impresa». Segue immediatamente la formazione permanente: «una educazione di base di qualità per tutti, fin dalla più tenera età, costituisce un preambolo essenziale. L'educazione di base, seguita da un’educazione e da una formazione professionale iniziali, dovrà permettere all’insieme dei giovani di acquisire tutte le nuove competenze fondamentali richieste da una società fondata sulla conoscenza. Essa dovrà anche "insegnargli ad imparare" e dargli un’immagine positiva dell’apprendimento»; l’adattamento dei sistemi educativi «a un mondo in cui l’educazione e la formazione si perseguono durante tutta la vita» è individuato come «la più importante delle sfide con cui tutti gli Stati membri si confrontano».[3]

La seconda direttiva invoca una profonda deregolamentazione, ritenuta essenziale per attuare la flessibilità dell’educazione e della formazione; spazio quindi all’autonomia e alla concorrenza tra diversi livelli di gestione che dovranno sostituire le istituzioni pubbliche gestite centralmente e attuare forme di partenariato con le imprese, il territorio e altre agenzie formative. Seguono la diversificazione dell’offerta formativa, sistemi elastici di validità dei titoli, programmi di convergenza dell’offerta di insegnamento superiore in Europa, da cui è scaturita una dichiarazione congiunta su "lo Spazio europeo d’insegnamento superiore", firmata dai Ministri dell’Educazione di 29 Stati europei, tra cui gli Stati membri dell’Unione Europea e dello Spazio Economico Europeo. A questo punto possiamo già trovare negli orientamenti europei la paternità di gran parte delle novità italiane: l’autonomia, le TIC (con relativi corsi di aggiornamento), le reti di scuole, le reti informatiche interne, i partenariati con le industrie (attivate con i corsi IFTS), ecc.

Economia e conoscenza saranno alla base della futura politica europea per l’educazione, che dovrà stabilire gli obiettivi e le modalità di riforma che saranno necessarie per fare della scuola una delle risorse utilizzabili nella sfida per il primato economico nel nuovo scenario globale. La scuola pubblica, in quanto pagata dalla società tutta, ha sempre dovuto rispondere a esigenze e interessi dei corpi sociali, dell’economia, della politica, ecc. La prevalenza odierna dell’economia su ogni altra istanza rappresenta la forma attuale di questa dipendenza, che, sfruttando le leve tecnico-burocratiche fornite dai processi di integrazione europea, sta progressivamente attuando una ridefinizione delle finalità dell’istruzione pubblica, favorita anche dalle incertezze delle politiche dei governi in materia scolastica negli ultimi trent’anni, dalle mode pedagogiche “progressiste” che hanno giustificato e reso condivisibile il giudizio sulla scuola arretrata e sugli insegnanti autoritari incapaci di dialogare con i giovani, e dalle trasformazioni indotte dai nuovi media, dall’informatica per comunicare, dalla multimedialità, sempre più frequentemente proposti come un’alternativa formativa flessibile e interattiva, democratica e ubiquitaria che si fa spazio a spese della rigidità, monomediale e direttiva della scuola istituzione, ancora fondata sulla presunzione di essere l’unica agenzia responsabile della trasmissione del sapere.

 

Analisi sulla logica della strategia di Lisbona

 

Ragioniamo ora sulla logica di quanto è stato elaborato in Europa. La formazione scolastica negli stati europei era caratterizzata prevalentemente da sistemi educatici organizzati e finanziati prevalentemente dallo stato, che dovevano garantire, attraverso percorsi rigidi, l’acquisizione di qualifiche precise, spesso fortemente specializzate. Ciò rispondeva ad una situazione economica, quella dei gloriosi trent’anni di crescita economica, della occupazione crescente, che avevano richiesto un aumento costante della qualificazione e la conseguente massificazione della scuola. L’imprevedibilità dei cambiamenti industriali e tecnologici, accellerati dall’accumulo delle conoscenze, la concorrenza basata sulla capacità di innovazione e la fuga in avanti della mondializzazione hanno creato uno scenario completamente nuovo. L’occupazione precaria si estende in proporzione all’estendersi dell’instabilità economica, e alla richiesta crescente di esperti nei settori informatici, ingegneristici e della gestione delle risorse, fa riscontro un’altrettanto forte crescita di un’occupazione a basso livello di qualificazione: “il mercato del lavoro ormai non richiede più un elevamento generale dei livelli di qualificazione, come è stato nel corso di tutto il XX secolo, ma un appiattimento, una costante dualizzazione di questa formazione”.[4] Se si aggiunge la crisi finanziaria degli stati che impone politiche di tagli alle spese sociali per garantire la “defiscalizzazione competitiva”, abbiamo il quadro completo dello scenario dal quale sorge il progetto europeo di una politica scolastica comune. Siccome la scuola deve rispondere alla società che le assegna il mandato educativo e le garantisce finanziariamente di operare, non c’è da stupirsi se periodicamente questo mandato viene ridefinito in relazione agli scopi che le forze sociali ritengono prioritari. “Se si ammette il postulato secondo cui la competizione economica è il solo o, in ogni caso, il miglior modo di regolamentare le attività umane, quali che siano – e tale sembra essere attualmente l’ideologia dominante all’interno dei cenacoli europei – non ci si stupirà del fatto che l’insegnamento venga a sua volta pensato come un mezzo per sostenere la competitività delle imprese. In materia di politiche educative, questo significa attualmente tre cose: (1) assicurare la qualità del capitale umano attraverso un adeguamento ottimale scuola-economia, (2) utilizzare la scuola come leva a sostegno dei mercati emergenti e (3) posizionarsi nella conquista del mercato dell’insegnamento”[5]. In uno scenario economico che evolve velocemente e in modo imprevedibile l’Europa “ha bisogno di lavoratori più adattabili, sempre più in grado di svolgere mansioni diversificate”[6].  La scuola stessa deve essere in grado di ridefinire velocemente i propri obiettivi, adattandosi alle esigenze che provengono dall’esterno (società, famiglie, imprese), deve imparare a lavorare su “progetti”, applicare forme di controllo relative all’efficienza e all’efficacia, operare in autonomia, alleggerendosi anche di quelle strutture burocratiche e centralistiche che impediscono il cambiamento e hanno notevoli costi di gestione. Dall’obiettivo di un’estensione dell’accesso alla conoscenza che aveva guidato la scuola dagli anni sessanta in poi, si ritorna all’ammissibilità di una diversificazione dei percorsi: la vecchia scuola che pretendeva di insegnare tutto a tutti, costosa, burocratica e autoreferenziale, deve lasciare il posto ad un sistema flessibile che insegni ai più le competenze utili ad imparare ad apprendere (cosa che dovranno fare per tutta la vita visto che dovranno cambiare frequentemente lavoro), mentre ai pochi superspecializzati provvederanno gli istituti di alta formazione. La scuola dovrà inoltre dare un rilevante contributo alla crescita delle competenze informatiche, al fine di recuperare il gap che separa l’Europa dalla più dinamica economia del pianeta. L’utilizzo dell’informatica nell’insegnamento e l’apprendimento a distanza (e-learning, che era appunto il tema del summit di Lisbona) devono caratterizzare i programmi di insegnamento europei nei prossimi anni. Già il rapporto Reiffers, nel 1996 affermava: “si può dubitare che il nostro continente possa avere il ruolo industriale che gli compete su questo nuovo mercato, se i nostri sistemi scolastici e di formazione non rispondono rapidamente. Lo sviluppo di queste tecnologie, in un contesto di forte concorrenza internazionale, ha bisogno di giocare pienamente sugli effetti di scala. Se il mondo dell’educazione e della formazione non li utilizzano, il mercato europeo diventerà troppo tardi un mercato di massa e l’auspicata evoluzione dell’educazione e della formazione sarà realizzata da altri”[7]. Anche in questo caso è evidente la ricaduta sull’attività scolastica quotidiana: basta considerare quante parole si sono spese, anche solo in Italia, per celebrare le potenzialità didattiche dell’informatica, della multimedialità, della rete internet, addirittura dei videogiochi; in questi settori sono stati spesi soldi pubblici e soldi privati, si sono creati spazi di arricchimento per società che hanno fornito e continuano a fornire hardware e software, si sono spese le capacità di invenzione di docenti e tecnici; si è investito nelle attività di formazione, spesso in modo episodico, e, almeno a parole, l’alfabettizzazione informatica è stata sbandierata da tutti i governi come lo strumento principale dell’innovazione. Nel bene e nel male intanto la scuola è diventata un mercato appetibile per venditori e fornitori, consulenti, sistemisti, manutentori, ecc., grazie ad essa anche docenti e studenti accedevano al consumo informatico e contribuivano ad integrarsi nel nuovo universo dei consumatori digitali. Se non è serivto alla scuola forse, almeno, è servito all’economia. Il ruolo cruciale giocato dai settori più influenti dell’economia europea nell’indirizzare la politica europea per l’educazione è confermato dalla consonanza tra gli obiettivi europei e le indicazioni dell’ERT[8] espresse nel documento del 1989 intitolato “Educazione e competenza in Europa” e in successivi del 1995 e del 1997[9], nei quali gli industriali lamentando una scarsa interazione tra scuole e imprese, una comprensione insufficiente dell’ambiente economico da parte degli insegnanti, indicavano «l’importanza strategica vitale della formazione e dell’educazione per la competitività europea » e peroravano un rinnovamento accelerato dei sistemi d’insegnamento e dei programmi.

Continuando a ragionare sulle motivazioni profonde degli impulsi che la politica europea dell’educazione sta inviando scopriamo che la scuola può diventare un affare anche per l’economia privata. L’OCSE stimava nel 1997 l’investimento per la scuola nel mondo in 2000 miliardi di dollari, ed in 1000 miliardi quello negli Stati membri (circa: 4 milioni di insegnanti, 80 milioni di studenti, 315 mila istituti e 5 mila università)[10], e nel 1996 aveva già constatato che “l'apprendimento a vita non può fondarsi sulla presenza permanente di insegnanti ma deve essere assicurato da 'prestatori di servizi educativi' (...). La tecnologia crea un mercato mondiale nel settore della formazione”[11]; in un altro dello stesso anno rilevava: “negli Stati uniti, il progetto Annenberg/Cpb collabora con i produttori in Europa, in Giappone e in Australia per la creazione di vari tipi di nuovi corsi, che dovranno essere utilizzati nel teleinsegnamento (...) Gli studenti diverranno clienti, e gli istituti di studi saranno concorrenti in lotta tra loro per ottenere quote di mercato (...). Gli istituti sono incitati a comportarsi come imprese”[12]; oppure, con le parole di M. Murphy: “la decisione politica di incoraggiare l'apprendistato a vita è destinata a fornire alle grandi imprese europee l'infrastruttura educativa essenziale al mantenimento dei loro tassi di profitto”[13]. Si viene a realizzare passo a passo uno degli scenari che la stessa Commissione Europea aveva delineato all’inizio degli anni novanta impostando la propria riflessione sul ruolo strategico dell’insegnamento a distanza e sul mercato di strumenti didattici, di software e hardware, di strumenti per la connessione, la comunicazione e l’intrattenimento, che coinvolge editoria, telefonia e Tv, che la formazione permanente potrà creare. Perchè: “un'università aperta è un'impresa industriale e l'insegnamento superiore a distanza è una nuova industria.  Quest'impresa deve vendere i suoi prodotti sul mercato dell'insegnamento permanente”[14]. Il consulente americano Eduventures, specializzato in Education-Business, afferma che “gli anni 90 resteranno negli annali per l’aver permesso la maturazione dell’insegnamento di mercato ("for-profit education"). Le fondamenta della vibrante industria educativa del XXI secolo – iniziative imprenditoriali, innovazioni tecnologiche e opportunità di mercato – hanno iniziato a muoversi per raggiungere la propria massa critica”[15]. Non ci sono quindi profonde riflessioni pedagogiche alla base del progressivo scivolare della scuola dei saperi verso la scuola delle competenze, del portfolio, delle certificazioni spendibili, dell’imparare ad apprendere. I pedagogisti hanno eseguito un’operazione di giustificazione: hanno cercato da una parte di descrivere come innovazione un cambiamento spinto dalla necessità di adeguare le competenze dei futuri lavoratori ad sistema produttivo sempre più caotico e dualizzato, mentre dall’altra si realizzava un allineamento delle forme di apprendimento alle nuove opportunità di consumo offerte dal mercato della formazione personalizzata, flessibile, continua e – ovviamente- a pagamento. Ma siccome avremo a che fare con percorsi di apprendimento che dovranno condurre ad esiti certificabili, spendibili in tutta l’area dell’Unione, integrabili con altri percorsi, con precedenti fasi di formazione, acquisibili in enti pubblici o in strutture private, individualmente o in gruppo, allora solo usando descrittori che permettano di definire con precisione il “saper fare” potremo evitare il caos degli infiniti titoli o certificati professionali rigidi cui si potrebbe andare incontro. Ecco l’importanza delle parole magiche che già da almeno dieci anni inflazionano la nostra odissea didattica: conoscenze, competenze e capacità. Aggiungo solo alcune considerazioni su una di queste utilizzando le riflessioni di Hirtt: “La dottrina detta de «l’approccio per competenze» è volta essenzialmente a mettere le competenze al centro delle preoccupazioni dell’insegnante. E questo, ci viene detto,  in opposizione a «l’ampliamento delle conoscenze». Tale approccio non è dunque riducibile ad una pedagogia: esso integra chiaramente una determinata visione degli obiettivi dell’insegnamento. ... Tuttavia, l’approccio per competenze implica anche un certo tipo di approccio pedagogico, dato che esso raccomanda di mettere in linea le pratiche di insegnamento con il nuovo obiettivo: in quanto capacità di risolvere dei problemi, la competenza non può che acquisirsi mettendo il «discente» - soggetto del proprio apprendimento in opposizione all’allievo, presunto passivo – «nella condizione » di far fronte a problemi di un dato tipo, affinché esso si eserciti a « mobilizzare» il proprio saperi e saper-fare in determinate categorie di situazioni concrete. Questa pratica non è scevra dal  presentare qualche similitudine con quelle proposte dalle scuole pedagogiche del movimento costruttivista. Anche  qui si insiste spesso sul ruolo attivo dell’allievo e sulla necessità di metterlo «nella condizione di ricerca» grazie alla messa in atto di “cantieri di problemi”. Vedremo comunque più avanti che la somiglianza si ferma qua.”[16]. In effetti il problema centrale è che da una parte, per il 20% della popolazione studentesca che occuperà posti a livello molto alto di qualificazione i saperi forniti dai programmi di insegnamneto sono obsoleti o insufficienti, mentre per la massa che potrà accedere solo ad occupazioni che richiedono qualificazione bassa essi sono superflui. Una educazione disinteressata, liberale, non è più  concepibile se la conoscenza deve diventare una risorsa strategica per l’economia; ecco quindi “la volontà di concentrare la formazione su quelle competenze di base comuni a tutti : lettura, scrittura, calcolo, alfabetizzazione informatica, adattabilità, capacità di risolvere problemi, competenze sociali, etc…”[17]. La pedagogia incontra l’economia, la quale va a braccetto della politica. Il cerchio si chiude dove si era aperto.


 

[1] N. Hirtt, L’Europa, la scuola e il profitto. Nascita  di una politica educativa comune in Europa. Trad. di  Paola Capozzi.  Nico Hirtt è belga, docente di fisica, autore di Appel pour une école démocratique che si oppone ai tentativi di mercificazione neoliberista dell’istruzione pubblica.

[2] N. Hirtt, A proposito dell’approccio attraverso le competenze. Abbiamo bisogno di lavoratori competenti o di cittadini critici?, Appel pour une école démocratique, trad. di Paola Capuozzi.

[3] Commission des Communautés Européennes, e-Learning. Penser l'éducation de demain, communication de la Commission, COM (2000) 318 final, Bruxelles, le 24.5.2000 [a]. Commission des Communautés Européennes, Mémorandum sur l'éducation et la formation tout au long de la vie, SEC (2000) 1832, Bruxelles, le 30.10.2000 [b]. Commission des Communautés Européennes, Communication concernant une initiative de la Commission pour le Conseil européen extraordinaire de Lisbonne des 23 et 24 mars 2000 [c]. Commission des Communautés Européennes, Les objectifs concrets futurs des systèmes d'éducation, Rapport de la commission, COM (2001) 59 final , Bruxelles, le 31.01.2001.

[4] N. Hirtt, cit.

[5] N. Hirtt, cit.

[6] EURYDICE, Dix années de réformes au niveau de l'enseignement obligatoire en Europe 1984-1994, 1997

[7] J. L. Reiffers, Accomplir l'Europe par l'éducation et la formation, rapport du groupe de réflexion sur l'Education et la Formation, 1996.

[8] Tavola Rotonda Europea degli industriali (ERT). Creato nel 1983, questo gruppo di pressione riunisce una quarantina tra i più potenti dirigenti industriali europei, come Peter Brabeck (Nestlé), Paolo Fresco (Fiat), Leif Johansson (Volvo), Thomas Middelhoff (Bertelsmann), Peter Sutherland (BP) o Jürgen Weber (Lufthansa).

[9] ERT, Education et compétence en Europe, Etude de la Table Ronde Européenne sur l'Education et la Formation en Europe, Bruxelles, février 1989. ERT, Construire les autoroutes de l’Information pour repenser l’Europe, Un message des utilisateurs industriels, juin 1994. ERT, Une éducation européenne, Vers une société qui apprend, Un rapport de la Table Ronde des Industriels européens, Bruxelles, Février 1995. ERT, Investir dans la connaissance, L'intégration de la technologie dans l'éducation européenne, Bruxelles, février 1997.

[10] Regards sur l'éducation. Les indicateurs de l'Oecd, Paris 1997.

[11] Ocse, Adult Learning and Technology in Oecd Countries, Paris, 1996

[12] Ocse, Les Technologies de l'information et l'Avenir de l'enseignement post-secondaire, Paris, 1996

[13] M. Murphy, Capital, class and adult education: the international political economy of lifelong learning in the European Union, NIU, USA, 1997

[14] L'educazione e la formazione a distanza, Sec (90) 479, 7 marzo 1990. Rapporto sull'insegnamento superiore aperto e a distanza nella comunità europea, Sec (91), 388 finale, 24 maggio 1991

[15] A. Newman, What is the education-industry ?, Eduventures, january 2000

[16] N. Hirtt, A proposito dell’approccio attraverso le competenze, cit.

[17] N. Hirtt, L’Europa, la scuola, il profitto, cit.

 

 

 
 
 
 

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