Riordino dei Cicli scolastici: uno sguardo all’Italia e all’Europa.

Il 22 Settembre 1999, la Camera dei Deputati ha approvato il d. d. l. che ridisegna tutto il Sistema scolastico italiano.

Quel testo , che probabilmente verrá confermato con poche novitá dalle votazioni del Senato, conclude un cammino tormentato, a tratti anche aspramente polemico, che era cominciato nel Giugno del 1997, quando il Governo aveva presentato al Parlamento il primo D.D.L. recante " Legge quadro in materia di riordino dei cicli dell’istruzione ", con una circostanziata relazione sulle motivazioni ideologiche, politiche e culturali che avevano condotto a questa svolta, da tempo attesa e auspicata.

Quelle spiegazioni erano giá state ampiamente e ampollosamente dichiarate nella "Proposta articolata di riordino dei cicli", attraverso la quale il Ministro, sei mesi prima, aveva comunicato alla opinione pubblica il suo intento di modificare radicalmente il sistema scolastico italiano, che risaliva, nell’impianto, alla riforma Gentile (1923), alla riforma Bottai (1940), alla riforma della scuola media unica del 1962.

Quasi contemporaneamente a questa Proposta, veniva istituita, dallo stesso Ministro, una Commissione di 44 "Saggi" con il compito, si diceva, "di individuare le conoscenze fondamentali su cui si baserà l’apprendimento dei giovani nella scuola italiana nei prossimi decenni" (D.M. n. 50 del 21 / 1/ ’97 e D.M. del 5/ 2/ ’97).

Sia il documento che la Commissione avevano provocato, come è inevitabile, discussioni, polemiche, ma anche consensi, ampiamente riportati dalla stampa, che erano poi confluiti nella stesura di quel D.D.L, presentato con molteplici motivazioni che possono essere riassunte nei seguenti principi guida:

  1. il riconoscimento che l’educazione, la formazione e l’istruzione rivestono preminente interesse nazionale, da cui discende l’obiettivo di far crescere le risorse umane, non solo qualitativamente, ma anche quantitativamente, per raggiungere la "piena scolarità";
  2. l’esigenza di proporre una riforma generale del sistema scolastico italiano, per molti versi non
  3. più adeguato a rispondere alle complessive esigenze della formazione delle nuove generazioni,

    che contemplasse, necessariamente, l’adeguamento dell’obbligo di scolarità ai livelli europei;

  4. la necessitá di avvicinare il nostro sistema scolastico a quello degli altri Paesi europei, per la

costruzione della "casa comune dell’istruzione per la nuova Europa".

Quella relazione, che resta un punto di riferimento fondamentale per un’analisi complessiva della nuova Legge, dopo aver precisato opportunamente che il disegno di legge costituiva solo una parte delle risposte alle globali esigenze di riforma della scuola ( avendo essa altri capisaldi, quali : la riforma autonomistica della scuola, la riforma dei programmi di insegnamento e la realizzazione di un sistema pubblico integrato di istruzione ) entrava, infine, anche nel merito di alcune idee portanti, relative ai contenuti e ai metodi dei nuovi "saperi " espressi dalla relazione dei 44 "Saggi", presentata il 13 Maggio 1997.

Il disegno di legge, appena approvato alla Camera, è notevolmente cambiato rispetto al primo, non solo nella forma (ai 17 articoli ne corrispondono oggi solo cinque), ma anche nella sostanza dell’articolazione: al modulo 6+ 6 viene sostituito un modulo di 7 ( anni di scuola primaria) + 5

( anni di scuola secondaria).

Ma, prima di entrare nel merito di un’analisi critica del modello, è necessario approfondire le motivazioni che reggono tutto quell’impianto.

Vediamo dunque perché e se il modello attuale sia inadeguato alle nuove esigenze, e se questo nuovo modello si avvicini a quello europeo, in sintesi dunque attraverso i due assi dell’analisi diacronica e sincronica tenteremo una panoramica conoscitiva dei sistemi di istruzione.

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Preliminarmente, è necessario ricordare che gli attuali sistemi pubblici di insegnamento sono il prodotto dell’intervento nell’organizzazione dell’istruzione da parte dei governi degli Stati europei, avviato a partire dai secoli XVIII e XIX, intervento che avrebbe portato alla sostituzione dell’autorità ecclesiastica, che in questo settore aveva svolto un ruolo quasi monopolistico, con l’autorità pubblica.

I tempi e le modalità d’intervento dei governi hanno, però, assunto caratteri differenti nelle specifiche realtà nazionali, soprattutto in seguito ai rapporti più o meno cooperativi tra le élite politiche del centro statale e le chiese nazionali.

A questo proposito sono stati individuati due percorsi alternativi nella formazione dei sistemi pubblici di insegnamento, esemplificati nei due, opposti, casi della Francia e della Gran Bretagna.

Il primo, che fa riferimento al caso francese, è detto di "restrizione" e comporta l’attacco coercitivo delle autorità pubbliche centrali al precedente monopolio ecclesiastico, nonché la conseguente sostituzione delle strutture educative proprie delle autorità religiose con strutture pubbliche.

Il secondo, che si riferisce al caso britannico, è detto di "sostituzione" e prevede, invece, la progressiva creazione di istituzioni educative al di fuori di quelle della chiesa ufficiale e il successivo coordinamento delle diverse reti educative cosi formatesi, da parte dello Stato.

Il primo percorso ha condotto alla creazione di sistemi centralizzati di amministrazione dell’insegnamento, il secondo ha invece portato allo sviluppo di sistemi decentrati.

Nei primi decenni dell’Ottocento, dunque, la borghesia continentale è impegnata a migliorare in ogni modo, anche con coerenti provvedimenti legislativi, le condizioni dell’istruzione, con l’obiettivo di scolarizzare i ceti fino ad allora esclusi, ma anche con l’intento di mantenere un percorso élitario di istruzione secondaria in grado di fornire un’istruzione successiva al livello elementare.

Anche l’Italia, o meglio il Regno Sabaudo, partecipò a questo processo con alcune caratteristiche legate alle specifiche condizioni politiche. La legge Casati del 1859, la più organica delle leggi italiane in fatto di istruzione pubblica, fu impostata in un sistema centralistico che, con poche varianti, ha retto fino ai nostri giorni, e con un indirizzo prevalentemente classico (le scuole tecniche e quelle professionali rimasero scuole di seconda scelta).

Entrambe quelle caratteristiche suscitarono tenaci polemiche da parte di Carlo Cattaneo e del gruppo del "Politecnico", i quali avrebbero voluto più istruzione tecnico scientifica e meno licei classici, ma soprattutto un chiaro indirizzo autonomistico, nell’intento di realizzare una cosciente partecipazione popolare agli interessi civili e patriottici del paese (cfr.la Relazione sulla riforma dell’istruzione in Lombardia,di Carlo Cattaneo, 1848).

Ma, quella legge e quel sistema, rappresentando "fedelmente i timori e le angustie, come gli ideali e le speranze"( G.Talamo, La scuola dalla legge Casati alla inchiesta del 1864, Giuffré, pag.22) di quella classe dirigente che aveva unificato l’Italia , avevano inteso dare alla cultura il carattere di elargizione ad un popolo, sostanzialmente distaccato dalla vicenda risorgimentale, per forgiarlo sulle aspirazioni dei gruppi dirigenti.( D. Bertoni Jovine, I periodici popolari nel Risorgimento,2 voll, Feltrinelli).

La Riforma Gentile del 1923, nel merito della quale entreremo solo rispetto a quelle costanti che permangono anche nei sistemi scolastici diversi e successivi, non modificó sostanzialmente la precedente tendenza .

Mutò la struttura della scuola primaria, ripartendola in grado preparatorio ( scuola materna non obbligatoria) , grado inferiore ( dalla I alla III classe), grado superiore ( IV e V classe) e corso integrativo post elementare ( dalla VI all’VIII classe) senza sbocchi ulteriori, estendendo l’obbligo fino ai 14 anni, secondo le direttive dell’accordo di Washington; fece del liceo classico il centro della riforma, accentuandone il carattere di scuola privilegiata e selettiva, poiché predisponeva a tutte le facoltà universitarie, mentre il liceo scientifico preparava alle facoltà universitarie, escluse quelle umanistiche ,e gli istituti tecnici dovevano, invece, preparare alle professioni pratiche .

In sintesi, dunque , venne conservato il percorso élitario dell’istruzione secondaria, e la tripartizione degli studi secondari ( tecnici, accademici, e senza sbocco universitario).

Le due riforma di Bottai del 1940 e quella della scuola media del 1962 completarono la fisionomia del sistema scolastico italiano.

La prima istituì la scuola media , mediante l’unificazione dei corsi inferiori del ginnasio, dell’istituto magistrale e dell’istituto tecnico; accanto a questa, tuttavia, rimase la scuola di avviamento professionale, che aveva come sbocco unico i corsi di avviamento professionale.

La seconda riformò radicalmente l’insegnamento secondario inferiore rendendolo pressoché unitario ( con l’opzione tra il latino e l’educazione tecnica) in notevole anticipo rispetto ad analoghe riforme di altri paesi europei.

Se dunque , a fronte di quelle riforme dell’insegnamento secondario inferiore, è mancata in Italia una riforma generale dell’insegnamento secondario superiore, purtuttavia la scuola italiana ha subito radicali trasformazioni attraverso modifiche alle vigenti norme legislative introdotte per via amministrativa e quindi fuori dal controllo parlamentare. Circostanza, questa, che ha caratterizzato dalle origini la storia della istruzione pubblica italiana.

In particolare, intendiamo citare qui la legge n. 910 del 11/ 12/ 1969, che ha liberalizzato l’accesso alle facoltà universitarie, rendendolo indipendente dal tipo di studi seguiti ed ha nei fatti eliminato la specializzazione degli studi secondari e la Legge n. 352/ ’95 - che ha reso definitivo il sistema inaugurato dal Ministro D’Onofrio con il D.L. n 523 del 29 Agosto ’94 di abolizione degli esami di riparazione della sessione autunnale delle scuole medie di secondo grado- con la quale si è attuata una concreta "ammissivitá" totale che , in un contesto così liberalizzante, diventa assenza di ogni forma di orientamento.

La fisionomia del sistema scolastico italiano, che si propone all’osservazione contrastiva del nuovo Ordinamento, presenta tuttora queste caratteristiche:

  1. una suddivisione in cicli primari e secondari ( di primo e secondo grado);
  2. una totale unicità , nei programmi e nelle materie della scuola secondaria di 1 grado, e la mancanza di ogni attività di orientamento;
  3. una selezione di ardua applicazione;
  1. nessuna prescrittivitá da parte della scuola rispetto agli sbocchi universitari;
  2. un obbligo scolastico a 15 anni.

Una scuola , perciò, indifferenziata ed egualitaria.

Ma, se l’obiettivo del Ministro e della parte politica che lo sostiene consiste, come abbiamo visto , nell’avvicinarsi all’Europa , per la costruzione della "casa comune europea", occorre a questo punto gettare lo sguardo agli altri sistemi europei.

Oggi, questi sono il risultato, essenzialmente, di due ondate di riforme: la prima riguarda il quindicennio che ha inizio nei primi anni sessanta ( fino alla crisi petrolifera del 1973), la seconda si sviluppa a partire dagli anni ottanta e prosegue fino agli anni novanta.

La prima ondata fu caratterizzata da espansione economica e dall’allargamento del welfare state, e quindi dall’aumento della spesa pubblica nel settore dell’istruzione, nonché dallo sviluppo delle cosiddette "retoriche educazionali" (L. Benadusi, Italia.Una riforma bloccata, in La non decisione politica, La Nuova Italia), intese a realizzare l’eguaglianza delle opportunità educative in un contesto di scolarizzazione di massa, che eliminasse i condizionamenti sociali sul percorso e sul successo scolastico degli studenti.

Le riforme attuate dai governi europei in quegli anni quindi vanno nella direzione del superamento della tradizionale tripartizione degli studi secondari in scuole accademiche, tecniche e generali ( scuole post primarie senza sbocco) , nell’innalzamento del limite della scuola dell’obbligo [ al sedicesimo anno di età o anche il diciottesimo ( Germania e Belgio)], e nella definizione della scuola primaria che giunge definitivamente ad assumere il ruolo di scuola elementare, intesa come primo grado degli studi, unico per tutti e obbligatorio.

Tuttavia, le linee di intervento non furono omogenee, ma seguirono tre diverse linee di riforma.

Alcuni Paesi non apportarono sostanziali modifiche alla tripartizione tradizionale tra scuole classiche, tecniche e generali, ma mantennero un sistema di precoce selezione ( undici anni): Germania, Svizzera, Lussemburgo e Austria.

Altri, che, pur avendo apportato mutamenti , non sono giunti alla creazione di una scuola unitaria, ma hanno conservato diversi indirizzi all’interno della stessa struttura scolastica e che hanno collocato la formazione professionale vera e propria alle fine dell’obbligo scolastico.( Belgio e Olanda).

Infine, quei paesi che hanno dato vita ad una scuola unitaria al livello secondario inferiore ( Svezia, Francia, Spagna, Gran Bretagna, Italia , Danimarca).

Svezia e Germania rappresentano le due esperienze più diverse relativamente a questa fase di politiche di integrazione.

La prima ha realizzato un modello di scuola unica di base di nove anni, dai 7 ai 16 anni, obbligatoria, seguita da una scuola secondaria unitaria ma articolata, al suo interno, in un numero molto elevato di indirizzi. I risultati raggiunti da questo trentennale processo di riforma sono stati ampissimi, tanto da far nascere negli studiosi interrogativi sui motivi che hanno permesso tale esito.

Secondo Marklund si è trattato di tre progressismi: quello sociopolitico dei governi socialdemocratici, quello pedagogico degli ambienti educativi e, infine, quello amministrativo, proprio del settore burocratico aperto e disponibile al cambiamento ( Rescalli, Il cambiamento nei sistemi educativi.Processi di riforma e modelli europei a confronti, La Nuova Italia, pag.60- 61).

La Germania, invece, ha mantenuto alcune caratteristiche del sistema proprio del XIX secolo e si distingue, nel generale panorama europeo, per due requisiti: l’elevata selettività dell’organizzazione degli studi e la centralità dell’insegnamento professionale ed in particolare del cosiddetto "sistema duale".

Dopo i quattro anni del ciclo elementare , gli scolari vengono selezionati per essere inseriti nei tre differenti percorsi della scuola secondaria: il Gymnasium, della durata di nove anni, costituisce l’unica via per raggiungere l’insegnamento universitario; la Realschule fornisce una preparazione tecnico- scientifica che permette l’accesso alla formazione tecnica o professionale superiore ; la Hauptschule , il percorso meno prestigioso, fornisce la base dei corsi di formazione professionale.

L’altro requisito è il cosiddetto "sistema duale" per il quale la formazione professionale ( ampiamente articolata , e organizzata con cura ed attenzione) è suddivisa tra insegnamento teorico, offerto in una scuola professionale, e apprendistato da svolgersi in una impresa sulla base di un contratto stipulato tra quest’ultima e lo studente. Questa particolare organizzazione degli studi ha permesso l’elevamento dell’obbligo scolastico, fin dal 1955, al diciottesimo anno di età.

La seconda ondata di intervento nei sistemi scolastici, tra gli anni ottanta e novanta, è seguita al periodo di "rallentamento"delle politiche scolastiche nel periodo precedente, durante il quale la fiducia nella possibilità dell’educazione di contribuire alla crescita economica e ad una maggiore equità sociale aveva lasciato il posto alla disillusione e al pessimismo.

In questa ripresa , assistiamo ad una riproposizione della teoria del "capitale umano" ( che abbiamo visto enunciata anche nella relazione del Ministro ), gli investimenti per il quale sono considerati, a loro volta, investimenti a favore dello sviluppo economico, ma anche ad una forza ed ad una urgenza nuove con le quali il cambiamento nel settore educativo è sostenuto a livello politico, per rispondere ai nuovi imperativi economici ( la crescente interdipendenza tra i paesi e la competizione in una economia globale).

In questa fase, le politiche educative dei Paesi europei rivolgono una crescente attenzione sia alla sviluppo e alla diversificazione dell’offerta formativa nella fascia post-obbligatoria, sia alla riorganizzazione e allo sviluppo dell’insegnamento professionale, che diviene , insieme all’insegnamento tecnico, la via dell’istruzione predominante in Europa.

Si possono identificare tre modalità attraverso le quali viene perseguita una più ampia scolarizzazione post- obbligatoria:

  1. il modello scolastico, che prevede la frequenza del maggior numero di giovani nelle istituzioni scolastiche; il modello scolastico, che prevede la frequenza del maggior numero di giovani nelle istituzioni scolastiche; il modello scolastico, che prevede la frequenza del maggior numero di giovani nelle istituzioni scolastiche;
  2. "il modello duale",tipico della Germania, come abbiamo già visto, caratterizzato dalla presenza dell’apprendistato;
  3. il modello misto, tipico della Gran Bretagna, nel quale la formazione professionale è al di fuori del sistema educativo e svincolata dal controllo delle autorità educative. il modello misto, tipico della Gran Bretagna, nel quale la formazione professionale è al di fuori del sistema educativo e svincolata dal controllo delle autorità educative. il modello misto, tipico della Gran Bretagna, nel quale la formazione professionale è al di fuori del sistema educativo e svincolata dal controllo delle autorità educative.

Questa fase di politica scolastica non ha però realizzato sostanziali modifiche alla struttura portante degli ordinamenti scolastici, mentre ha inciso sulle strutture decisionali delle istituzioni educative, con diversi progetti di riforma volti sia al decentramento organizzativo, sia al riconoscimento di nuovi spazi di autonomia alle scuole.

Naturalmente, come è noto, a questa fase l’Italia ha partecipato non con interventi strutturali, ma con modificazioni nell’ambito dei programmi e con interventi "tampone".

A questo punto è possibile tracciare uno schema comune ai sistemi europei di istruzione, sulla base di alcune coordinate:

  1. in molti Paesi permane una divisione tra istruzione primaria ( o elementare) e istruzione secondaria di 1 grado. La Spagna , che negli anni settanta aveva introdotto un insegnamento di base unitario di otto anni, includente il ciclo elementare e il primo ciclo secondario, ha, negli anni novanta, modificato questa struttura, con un insegnamento elementare di sei anni, seguito da un insegnamento secondario inferiore di quattro anni, obbligatorio e diviso in due bienni.
  2. L’Olanda , che presenta formalmente due soli cicli , ha , dal 1958, una scuola secondaria post-elementare, unitaria nella struttura verticale, ma separata negli indirizzi.

    L’unico Stato, che ha un modello di scuola di base uguale per tutti che si protrae per nove anni, è la Svezia, i cui successi , tuttavia, dipendono da quelle tre condizioni, che sembrano assai lontane dalla nostra realtà italiana;

  3. l’istruzione secondaria di 1 grado, pur essendo obbligatoria ed unitaria, non è, tuttavia, indifferenziata.
  4. In forme diverse, i sistemi scolastici indirizzano gli studenti verso l’istruzione secondaria superiore che è suddivisa in aree, separate rispetto agli sbocchi di proseguimento degli studi;

  5. l’istruzione secondaria di 2 grado è, perciò, rigorosamente impostata sul principio dell’accesso o
  6. meno all’istruzione universitaria;

  7. l’obbligo scolastico è al 16 o al 18 anno di età , da compiersi anche nell’istruzione professionale.

Da questi dati si può partire per indicare un’analisi comparativa della nuova Legge , in rapporto alla situazione europea e alla situazione italiana attuale.

In sintesi, la nuova Legge :

  1. attribuisce al sistema educativo di istruzione e formazione la finalità di "valorizzazione della persona umana" e alla repubblica il dovere di "assicurare a tutti pari opportunitá di raggiungere elevati livelli culturali". È scomparso, per fortuna, il riferimento ad un edenico "diritto al successo formativo dei giovani", che appariva nel Testo proposto dal Consiglio dei Ministri .
  2. Articola questo sistema in un ciclo di istruzione primaria di 7 anni, nel quale colloca un percorso educativo " unitario e articolato in rapporto alle esigenze di sviluppo degli alunni", dove acquisire abilitá di base e "sviluppo delle competenze e delle capacitá di scelta individuali atte a consentire scelte fondate sulla pari dignitá delle opzioni culturali successive", al termine del quale si trova un "esame di Stato, dal quale deve emergere anche una indicazione orientativa non vincolante per la successiva scelta dell’area e dell’ indirizzo".

Poi definisce un ciclo secondario di 5 anni, articolato in varie aree, con l’obiettivo di "arricchire

la formazione culturale, umana e civile degli studenti", all’interno del quale è possibile, nel

primo biennio , passare da un modulo all’altro, e nel terzo biennio effettuare "esercitazioni

pratiche, esperienze lavorative …con inserimento nelle realtà culturali, produttive , professionali

e dei servizi". Al termine di questo ciclo , gli studenti sostengono un esame di Stato.

 

Rispetto alla situazione scolastica italiana attuale, la Legge interviene: 1) unendo la scuola primaria con quella secondaria di primo grado , 2) ridefinendo gli indirizzi del Ciclo secondario, in cinque aree e trasformando gli attuali istituti di istruzione secondaria in "licei", 3) istituendo un obbligo scolastico a 16 anni ed un obbligo formativo a 18.

Nulla muta nella direzione di una prescrizione differenziata dei percorsi, affidata alla Scuola, né rispetto agli sbocchi universitari , coerenti con gli studi seguiti

In confronto al panorama europeo, alla famosa "casa comune", non vi è traccia dei percorsi secondari diversificati, in tutti i sistemi , in base al proseguimento universitario o alla formazione tecnica o a quella professionale; né della suddivisione tra un’istruzione primaria e un’istruzione secondaria di due livelli.

Quale analisi critica è possibile tracciare?.

Vi è una prima, obbligata, riflessione in merito all’utilizzazione del personale docente: quando, in un futuro prossimo, anche gli insegnanti della scuola primaria saranno forniti di laurea, non si potrà comunque immaginare uno scorrimento radicale dalla prima alla settima classe, perché i titoli accademici sono orientati a professionalità diverse .

La seconda categoria di riflessione si differenzia in rapporto alla funzione che si intende attribuire alla scuola : se si ritiene che essa si esaurisca nella semplice impartizione di nozioni, semplici o complesse che siano (Cassese- Mura, Commento agli articoli 33-34, in Commentario della Costituzione, p.248 ) o se presenti anche un carattere educativo, tendendo in definitiva alla formazione delle giovani generazioni ( Crisafulli, La scuola nella Costituzione, pag. 70).

Nel primo caso, dunque, nulla opponendo ad una Legge Quadro che il Parlamento, nella sua sovranità , ha plasmato secondo certe visioni politico- culturali, si dovrebbe esclusivamente indicare ai docenti un adeguamento della tipologia del proprio insegnamento secondo , ci par di capire, modelli di semplificazione.

Diverso è invece il caso in cui si intenda attribuire alla scuola, agli insegnanti, un ruolo formativo.

Ebbene, le considerazioni del singolo o delle Associazioni avranno agio di spaziare, quando in questo contesto di autonomia piú "octroyée" che costruita con l’apporto vero dell’intelligenza delle persone, gli istituti scolastici definiranno le articolazioni della scuola di base a norma del regolamento emanato l’8 Marzo 1999. Allora forse si vedrá che essi, ben lontani dall’attuare un "autogoverno", applicheranno i modelli di "socializzazione", cosí cari ai disegni ministeriali , che non saranno imposti attraverso le leggi, ma saranno diffusi attraverso canali "culturali", e daranno l’illusione, a chi non sia particolarmente accorto, che si tratti di scelte autonome e, ancora, si assisterá all’enfatizzazione della dimensione extrascolastica quando si ragionerá sui moduli, anzi sui "progetti" da attuare, nella secondaria, nelle realtà "culturali, professionali, produttive".

Corollario di quella funzione formativa della Scuola é la libertà d’insegnamento, intesa come "trasmissione di cultura ", come "contributo alla elaborazione di essa " che impone la libera espressione culturale del docente (cfr. Daniele, La pubblica istruzione,p.782; De Simone, Sistema del diritto scolastico italiano, Milano 1973, ed anche l’art. 3 del D.P.R. 417/74 ) e che si esplica nella sua pienezza e nella sua autorevolezza non tanto nell’ambito dell’ingegneria degli schemi , quanto in quello sostanziale dei contenuti, tracciati nel documento del 13 Maggio del ’97 , elaborato dai famosi "Saggi".

Quegli esperti avrebbero dovuto identificare le conoscenze fondamentali, elaborando le linee guida del futuro della conoscenza, ma il loro documento sui "saperi", sconfessato dalla maggior parte dei suoi componenti, è attualmente lettera morta, mentre il Ministero ha istituito nuovi gruppi di lavoro sulle singole discipline sui cui risultati non possiamo, ovviamente, ancora pronunciarci.

Tuttavia, possiamo, attraverso la critica alla modalitá di procedura seguita, segnalare sconsigliabili errori.

Quei "saggi", come è noto, non si comportarono come tali.

Elaborarono nuove veritá epistemologiche, non proposero le loro conclusioni nel libero dibattito della comunitá scientifica ( i veri saggi, viceversa, sono consapevoli di muoversi nel terreno argomentativo, nel quale, come è noto, non è in discussione il vero"universale", ma il vero "per lo più"), dichiararono le loro nuove epistemologie le uniche veritá interpretative, malgrado le varie comunità scientifiche avessero espresso autorevoli e sensate critiche .

Infatti: 1) sostituirono le "discipline’, a piacere, con i "nuovi saperi", o con i "nuclei fondanti"; 2) dichiararono che nella scuola (e non nei testi del Readers Digest) la conoscenza della cultura classica non avesse bisogno del veicolo delle lingue e che l’apprendimento della lingua materna dovesse avvenire su testi funzionali (e non per esempio disinteressati , caratteristica propria della cultura); 3) sostennero l’ esistenza di un apprendimento "veicolare" delle lingue straniere ;

4) indicarono, infine, perentoriamente, per la storia, una sommaria fisionomia relativa "ai tanti tempi delle logiche che si esaminano", in sostituzione della storia politica.

In piú, si intrattennero sui metodi e sulle tecniche dell’insegnamento delle materie.

Se i nuovi esperti si comporteranno nello stesso apodittico modo, ci sará il giustificato timore che nuovi fondamenti, nuove metodologie vengano tradotte, letteralmente, in nuovi programmi, dai burocrati ministeriali, poco abituati ai codici di discussione del dibattito culturale.

Se ciò dovesse avvenire, i docenti si troverebbero a svolgere programmi già prederminati in senso epistemologico e in direzione obbligata di certi metodi e di certe tecniche.

In quel momento si aprirà un ambito, a mio parere, inquietante.

Infatti, la "libertà di insegnamento"( art. 33 della Costituzione) rientra con alcuni limiti nella "libertà di pensiero"( art. 21) , ed è intesa come "libertà da"e "libertá di".

Nella prima accezione, è intesa come "libertà da pressioni o intromissioni da parte di altri soggetti", in primo luogo lo Stato, ma più concretamente le autorità scolastiche.

Tale libertà si sostanzia nella possibilità, per l’insegnante, di esercitare la sua funzione in conformità alle proprie convinzioni in ordine alle discipline che insegna, senza essere condizionato né da una verità ufficiale alla quale adeguarsi, né da una dottrina, elaborata in altra sede e elevata a dogma, da riferire agli studenti.

In questo senso, il 1° comma dell’art. 33 della Costituzione viene visto come volto a salvaguardare il docente dalla possibilità che lo Stato gli imponga una "dottrina ufficiale" da trasmettere ai discenti. Si tratta di un punto particolarmente sottolineato dagli studiosi, anche sulla scia di quanto emerso nel corso del dibattito in sede di Assemblea Costituente (cfr. Atti Assemblea Costituente, vol. IV, p. 3146 e SS.)

In assenza (voluta) di una scienza e di una coscienza di Stato, la libertà di insegnamento mira a garantire la libertà del docente, per se stesso, come libertà di manifestare il proprio "sapere" nella scuola.

La predisposizione ministeriale dei programmi di insegnamento per i vari ordini di scuola tocca soltanto l’aspetto oggettivo dell’insegnamento e non quello qualitativo relativo alle concrete modalità con cui l’insegnante svolgerà i programmi (cfr. Caretti-De Siervo, Istituzioni di Diritto Pubblico, p. 570).

Allora, di fronte alla sostituzione delle discipline "storiche", con i nuovi ipotetici "saperi" di opinabile costituzione, come potrà e dovrà reagire il docente? Quale rapporto potrà egli instaurare tra un ipotetico, impositivo testo che contenga una vera e propria "rivoluzione (involuzione?) epistemologica" e la libertá d’insegnamento?

E’ vero che egli è professionista in senso etico e non giuridico, poiché in una scuola di Stato si trova nella condizione di pubblico dipendente, collegato all’Amministrazione da un rapporto gerarchico, per ciò che attiene agli aspetti organizzativi, di direzione e controllo per l’aspetto tecnico della sua prestazione, ma, in ogni caso e comunque, egli è indipendente per gli aspetti culturali ed ideologici dell’insegnamento (A. Mura, La Scuola della Repubblica, pag. 117).

È forse precoce ipotizzare una svolta autoritaria in un’ operazione, ancora ipotetica, tuttavia se dovesse verificarsi , il risultato potrebbe determinare un arretramento culturale e, al di là delle intenzioni, diventare oggettivamente pericoloso.

Qui, le associazioni professionali dei docenti molto potrebbero fare in direzione parlamentare e in direzione della società civile.

Sarebbe un impegno per la salvaguardia della professionalità docente, per conservare la funzione formativa della scuola, ma soprattutto per mantenere attivo quel principio contenuto nell’art. 21 della Costituzione che la stessa Corte Costituzionale riconosce come la "pietra angolare dello sviluppo democratico in quanto condizione del modo di essere e dello sviluppo della vita del Paese in ogni suo aspetto culturale, politico, sociale." (Sentenze 31/12/1982, n. 257 e 23/05/1985, n. 159).

Ci sembra questo un valore per cui varrebbe la pena di impegnarsi.

Renza Bertuzzi.

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