Burn-out
Intervista a Vittorio Lodolo d’Oria
Eppure le ragioni per
ritenere psichicamente usurante il mestiere di docente sono molteplici.
Dalle mie ricerche emerge una sostanziale incapacità dei dirigenti
scolastici a riconoscere la natura dei conflitti – spesso sintomo di disagio
psichico – e conseguentemente nel gestirli.
di Gian Piero Ghini
Di
burn.out , la Gilda degli insegnanti ha cominciato a parlare già
dal 2002 (“Insegnare stanca”, a cura di S. Gnech, in “Professione
docente”, novembre 2002), dando conto delle ricerche del dottor Lodolo
D’ Oria. Questi, medico dell’Inpdap
(Istituto nazionale pensioni dipendenti amministrazione pubblica),
membro del collegio medico per le inabilità al lavoro dell’Asl Città di
Milano, aveva iniziato nel 1999 a raccogliere e catalogare, ad uso
statistico, i verbali delle visite per inabilità effettuate dalla
Commissione medica, a seguito delle richieste presentate dai dipendenti
pubblici di Milano. E aveva scoperto l’ alta frequenza del disagio
mentale trai docenti. Negli anni successivi, il dottor Lodolo D’ Oria
ha pubblicato un libro “ Scuola di follia”, in cui le conclusioni degli
studi precedenti venivano confermate. Oggi, qualcosa è cambiato? Lo
abbiamo chiesto allo stesso medico, in questa intervista.
1) Dottor Lodolo D’ Oria,
più volte nel libro da lei curato (Scuola di follia) viene lamentato che
la consapevolezza degli insegnanti di essere vittime del burnout è
scarsissima. La metterei giù ancora più dura: molti non sanno neanche cosa sia
il burnout. Possiamo fare un breve ripasso….
Per burnout si
intende una condizione caratterizzata da affaticamento fisico ed emotivo,
atteggiamento distaccato e apatico nei rapporti interpersonali, sentimento di
frustrazione e perdita di controllo dei propri impulsi. E’ soprattutto
appannaggio delle cosiddette helping profession tra cui sono ricompresi
psicologi, assistenti sociali, medici, psichiatri ed insegnanti. Le relazioni
sono psichicamente usuranti ed i docenti ne devono avere con studenti, loro
genitori, colleghi e dirigente scolastico.
Dobbiamo però chiarire che
il termine burnout appartiene alla psicologia mentre esula dalla sfera delle
diagnosi psichiatriche che tendono ad assimilare tale condizione al cosiddetto
disturbo dell’adattamento. La questione non è da poco ed appare in tutta la sua
gravità se tradotta in numero di pubblicazioni scientifiche. Infatti nella
letteratura internazionale vi sono più di 8.000 pubblicazioni su riviste
psico-sociali che trattano diffusamente il burnout degli insegnanti, mentre vi è
una sola pubblicazione medico-scientifica (La Medicina del Lavoro N° 5/2004) che
pongono in diretta correlazione la professione docente col rischio di sviluppare
una vera e propria malattia psichiatrica. Sembra quasi che la collettività
riconosca all’insegnante di poter arrivare al massimo ad una condizione di
“esaurimento” ma non certo di malattia psichiatrica propriamente detta. Il
fenomeno si spiega in maniera assai semplice: l’opinione pubblica ritiene che un
lavoro come quello dell’insegnante, sul quale vi sono luoghi comuni non veri,
come il fatto che sia semplice e poco impegnativo– con mezza giornata di
lavoro e 3 mesi di ferie all’anno – al massimo può generare piccoli contrattempi
e al massimo qualche insignificante grattacapo. Poiché gli insegnanti in Italia
sono quasi un milione, dobbiamo riconoscere che rappresentano un’ampia fetta di
opinione pubblica, il che equivale a dire che loro stessi sono “viziati” dai
suddetti stereotipi e si vergognano a parlare del proprio disagio. Questa
ritrosia ad affrontare a viso aperto il malessere psichico li induce ad isolarsi
attuando reazioni di adattamento (chiamate coping dagli psichiatri) negative
quali il bere, il fumare, il pasticciarsi. Il passo verso la vera e propria
malattia psichiatra è dunque breve ed è definitivamente sancito dalla perdita
della capacità critica e di giudizio. Cosa per la quale scatteranno dei
meccanismi di difesa automatici quali l’aggressività o la fuga dagli impegni con
conseguenti manie di persecuzione e accuse di mobbing a dirigente scolastico e
colleghi. L’evidente ricaduta sull’utenza è facilmente immaginabile.
2)La sua azione di analisi
e denuncia non ha avuto origine sindacale ma alcuni sindacati o associazioni
professionali le hanno dato una mano, credo, spero?
Finora non ho incontrato
molti supporti dalle parti sociali, se si eccettua l’attenzione ricevuta da
Gilda e Cgil a livello regionale (Lombardia ed Emilia Romagna). La motivazione
ufficiale risiede nel fatto che l’insegnante è già soggetto allo stereotipo
dello “scansafatiche” (poiché – si dice - lavora mezza giornata e fa 3 mesi di
vacanze all’anno), e se venisse sollevata la questione “burnout” sarebbe
considerato - per giunta – “folle”.
Eppure le ragioni per
ritenere psichicamente usurante il mestiere di docente sono molteplici e
complesse. Teniamo innanzitutto per buone le motivazioni già considerate
relative agli stereotipi dell’opinione pubblica, cui si aggiungono una bassa
considerazione per il mestiere di insegnante, ed il basso salario che ne
discende. Annoveriamo inoltre la globalizzazione e la conseguente presenza
di studenti appartenenti alle diverse etnie, l’abolizione delle scuole speciali
per i portatori di handicap, l’informatizzazione con l’avvento di internet, la
comunicazione veloce grazie alla telefonia, la moltiplicazione delle reti
televisive con un’ampia offerta etc. Vi sono poi i fattori sociali quali
l’abbandono dell’educazione “normativa” che è oggi rimpiazzata da quella
“affettiva”. La sostituzione dell’asse genitore-insegnante con quello
genitore-figlio reso ancora più stretto dalle famiglie che oggi in larga
maggioranza hanno il figlio unico, già di per sé oggetto di attenzioni e
proiezioni narcisistiche di mamma e papà. Da ultimo citiamo una categoria di
docenti oramai in età avanzata con molti anni di servizio alle spalle; la
presenza in cattedra di ex-sessantottini in piena crisi d’identità (oggi tocca a
loro essere contestati dietro alla cattedra); l’arrivo delle nuove generazioni
di giovani insegnanti (il caso del taglio alla lingua ne potrebbe essere
espressione) che provengono dalla cultura del “tutto e subito” non certo
abituati a sopportare e a sentirsi contraddire. Uno scenario davvero
preoccupante, destinato a peggiorare se non ci diamo da fare.
3)Durante tutte le
discussioni sui temi pensionistici spesso si è prospettata la necessità di
differenziare i mestieri usuranti. In considerazione che gli insegnanti sono
vittime di patologie psichiatriche tre volte gli operai, e che quindi “la scuola
logora”come dice lei, ritiene che ci sia una qualche possibilità che l’opinione
pubblica e poi i legislatori acquistino consapevolezza che anche la professione
docente sia un mestiere usurante?
In materia previdenziale,
nella scuola, siamo passati da un estremo all’altro senza effettuare monitoraggi
di sorta. Dalle baby-pensioni - fino al 1992 - siamo passati ai 57-60 anni di
età per ritirarsi a vita privata. Il segnale che qualcosa non funziona è
evidente. Per comprendere come sono cambiate le cose basti pensare che fino a 15
ani fa una donna (l’87% del nostro corpo docente) poteva scegliere dove
trascorrere il periodo della menopausa – a casa o al lavoro – mentre oggi è
obbligatoriamente costretta a lavorare anche se non ce la fa più. Perché parlo
di menopausa? Semplicemente perché le ricerche scientifiche dimostrano che in
una donna il rischio di patologia ansioso-depressiva aumenta fino a 5 volte in
un’età superiore ai 40 anni. Aggiunga poi che il nostro parco insegnanti è il
più anziano d’Europa e l’80% ha superato i 40 anni. Mi chiedo se questo non sia
un tema sindacale da affrontare nel rispetto della donna lavoratrice.
4) Pensa che la marea di
articoli e libri (soprattutto quelli che mettono in ridicolo gli strafalcioni,
rigorosamente decontestualizzati, dei docenti) se non sprezzanti di certo non
sono elogiativi nei confronti degli insegnanti italiani contribuiscano a
deprimerli e a falsarne l’immagine?
Tutto ciò che fa cassetta
viene ripreso dai massmedia per il semplice fatto che fa più rumore un albero
che cade di una foresta che cresce. Certamente c’è tra i docenti chi si adegua
agli stereotipi dell’opinione pubblica perché oramai stanco e sfiduciato.
5) Ritiene che il ruolo
dei dirigenti dovrebbe essere interpretato in modo diverso dall’attuale?
Posso dire soltanto che
non si tratta di un ruolo facile e non mi reputo certamente colui che può
insegnare loro il mestiere.
6)Non le sembra comunque
che i dirigenti nel gestire i conflitti tra docenti, studenti e famiglie, invece
di mediare, siano tendenzialmente e in modo pregiudiziale più propensi ad
ascoltare la campana dell’utenza, adottando pedissequamente la filosofia
imperante che “il cliente ha sempre ragione”?
Dalle mie ricerche
emerge una sostanziale incapacità dei dirigenti scolastici a riconoscere la
natura dei conflitti – spesso sintomo di disagio psichico – e conseguentemente
nel gestirli. I dirigenti hanno la difficile incombenza di
salvaguardare l’integrità psicofisica dei docenti – ai sensi della L. 626/94 –
ed al contempo di tutelare l’incolumità dell’utenza. Un compito talvolta arduo
nei casi che ho incontrato in Collegio Medico. Di sicuro – ma questo è solo buon
senso alla portata di chiunque - il preside che “dà sempre ragione al cliente”
non fa un buon servizio a se stesso né alla scuola.
7) E i colleghi,
soprattutto nella sede istituzionale del collegio, come dovrebbero comportarsi?
L’invio al Collegio
Medico di Verifica (CMV) è a tutela del docente, non un atto di mobbing del
dirigente scolastico. Di fronte ai medici bisogna assumere un atteggiamento
collaborante per mettere gli stessi in condizione di comprendere il caso, porre
una diagnosi ed assumere infine un provvedimento corretto a tutela
dell’integrità psicofisica dell’insegnante stesso.
8) Penso che per un
docente sia comunque traumatico essere inviato a visita presso il Collegio
Medico della ASL, considerato che già il medico fiscale che controlla le assenze
è ritenuto una mancanza di fiducia, benché sia un atto dovuto. Ho poi
l’impressione che molti casi che vengono esaminati su richiesta dell’interessato
non siano i più gravi mentre i più gravi sfuggono. E’così? Non è un po’
paradossale?
La visita in CMV è
affatto diversa dalla visita fiscale, proprio perché volta a valutare l’idoneità
psicofisica al lavoro svolto. La prima difficoltà è nel far comprendere ciò sia
all’insegnante che al dirigente scolastico. Anche quest’ultimo è spesso
refrattario a ricorrere a questo strumento perché crede di “sporcare” lo stato
di servizio all’insegnante. E’ preferibile che il dirigente abbia il consenso
dell’interessato o addirittura che il docente faccia la domanda di visita
spontaneamente per essere sottoposto a visita, ma non sempre – in particolare
nei casi psichiatrici più complessi – ciò è possibile. Se poi un docente
rifiutasse di sottoporsi a visita medica collegiale, il rischio è quello di
essere licenziato perché non mette in condizione il datore di lavoro di
applicare la L. 626/94 che prevede la sorveglianza sanitaria anche per la
professione docente.
9)
Terapie? Lei evidenzia che la commissione che si occupa del problema ha una
funzione medico legale e non terapeutica: ma ci sono terapie per questa così
diffusa patologia?
Intanto è bene precisare
che nel 70% dei casi osserviamo patologie ansioso-depressive che prevedono
terapie consolidate. Quello che più mi preme è però l’aspetto “preventivo”.
Comincerei col rendere edotti gli insegnanti sui rischi di logoramento
psicofisico che il loro mestiere comporta, smontando in loro quegli stereotipi
che albergano nell’opinione pubblica (della quale – non dimentichiamocelo – gli
stessi insegnanti fanno parte). Attraverso corsi e seminari si raggiungerebbe il
duplice risultato di informarli e rendere possibile tra loro la condivisione dei
rischi abbattendo i livelli di ansia e stress. Prevedrei poi la formazione dei
dirigenti scolastici (su come gestire i casi più difficili ma soprattutto come
utilizzare al meglio la visita in CMV) senza tralasciare di effettuare nuove
ricerche scientifiche da divulgare tra i medici che sono totalmente all’oscuro
del Disagio Mentale Professionale degli insegnanti.
10)In appendice al suo
libro ci sono alcuni documenti assai interessanti, tra questi l’interrogazione
parlamentare, la risposta del sottosegretario e infine il decreto del ministro
che autorizza un corso di aggiornamento. Una bella sequenza: ma siamo alle
solite: il gigante e il topolino partorito. Insisto: lei è un tecnico, e come
tale ha fatto moltissimo, ma avrebbe qualche suggerimento, qualche proposta per
avviare un processo virtuoso che faccia intravedere un serio ridimensionamento
del fenomeno?
I documenti in appendice
al mio libro sono lì a testimoniare l’insipienza della risposta finora
contrapposta al rischio DMP nei docenti. In particolare il decreto che è in
ultima pagina – e segnalatomi da un insegnante – mostra come
(inconsapevolmente?) venne affidata la formazione di alcuni docenti ad adepti di
Scientology. Di consigli, in verità ne avrei diversi, visto che mi occupo del
DMP da oramai 10 anni, ma a questo punto dell’intervista mi vien da dire che
chiunque fosse interessato farebbe prima a leggere il mio libro.
Temo però di essere una
Cassandra inascoltata e so bene che il mio libro “Scuola di Follia” (ed.
Armando) sarà rispolverato solo di fronte a un fatto di cronaca nera.
(30
dicembre 2007) |