Oltre dieci anni fa, al mio debutto come “notista” su Professione docente,
il mensile della Gilda, per descrivere il mondo della scuola scelsi, traendola
dalla meccanica, la metafora del corpo dotato di una enorme massa inerziale,
la cui traiettoria può variare impercettibilmente ma definitivamente a causa di
una forza applicata su di esso. In effetti il sistema scolastico – in
particolare quello delle medie superiori - dava ancora la sensazione di un
enorme apparato burocratico, regolato da norme magari vetuste, che però
conservavano ancora una buona dose di “antica saggezza”. Le novità di allora,
come i nuovi esami di Stato, l’autonomia scolastica, il fallito “concorsone” per
diventare insegnante “esperto”, per quanto notevoli, non sembravano disturbare
più di tanto il lento moto perpetuo del “corpaccione” scolastico.
Oggi
– complice anche un impressionante incendio che si è propagato nei boschi della
mia regione
-
l’immagine che trovo più appropriata per rappresentare il nostro sistema
scolastico è appunto quella di una immensa pira,
divampata in momenti diversi ed in più punti della frastagliata ed estesa
foresta educativa, alla quale guardano attoniti i cittadini di questa
Repubblica, chiedendosi forse quali siano le fattezze del novello Nerone.
L’incendio si propaga furioso nel vitale settore della definizione degli
obiettivi dell’istruzione secondaria superiore:
la riforma epocale ha ripreso l’impianto del precedente governo, imperniato
sulla traduzione nostrana delle competenze chiave di cittadinanza europea
articolate in competenze di base secondo quattro assi culturali,
sovrapponendo ad esse liste ministeriali di conoscenze ed abilità secondo la
logica delle vecchie indicazioni nazionali.
Il risultato è un pastiche di definizioni contraddittorie e metodologie
abborracciate che sembra fatto apposta per rendere la certificazione delle
competenze un nuovo assurdo ed inutile adempimento burocratico che a giugno gli
insegnanti delle classi seconde compileranno per gli alunni che finiscono il
biennio e quindi per indebolire ulteriormente la prassi didattico-educativa.
Il
tutto viene a sovrapporsi in modo imprevedibile con l’estensione a partire da
quest’anno dei test Invalsi a tutto l’universo degli studenti di seconda
superiore,
con l’intenzione dal prossimo di utilizzarli anche nell’esame di Stato: se
infatti è previsto e voluto l’aggancio di questa rilevazione censuaria degli
apprendimenti degli studenti con la valutazione “oggettiva” degli insegnanti,
probabilmente nessuno al Miur ha collegato razionalmente tale rilevazione con la
certificazione delle competenze di cui sopra, della quale potrebbe forse
rappresentare un utile termine di confronto critico. A tal proposito anche la
mozione approvata all’AN della Gilda del 27 marzo scorso, nel denunciare la
distanza delle tecnocratiche prove Invalsi dalla valutazione da parte dei
docenti, “basata su elementi storici contestuali e relazionali degli
insegnanti”, non accenna al collegamento funzionale di quella con la
certificazione delle competenze.
Toccando il tema della valutazione siamo già di fronte ad un altro spettacoloso
fronte di fuoco: alludo al settore della gestione delle risorse umane,
“riccamente foraggiate” da quel 97% di spesa pubblica ministeriale che se ne va
– come ci ricorda spesso la titolare del dicastero – in stipendi. L’azione
congiunta dei ministri dell’economia, della funzione pubblica e dell’istruzione
porta nella prospettiva del triennio 2010-2013 ad una consistente diminuzione
dell’organico docenti ottenuta principalmente attraverso la riduzione
dell’orario curricolare degli istituti superiori “riformati”. Ora, poiché al
taglio delle cattedre consegue direttamente il fatto che i docenti assunti a
tempo determinato rischiano di non lavorare più, ci si poteva aspettare da parte
del ministero un’accorta gestione sul delicato fronte del lavoro precari; è
invece sinceramente imbarazzante analizzare la politica di reclutamento di
questo governo: dopo aver incautamente aperto le graduatorie provinciali a ben
tre inserimenti “a pettine”, e aver tentato di fare marcia indietro ritornando
alle “code”, il MIUR è riuscito a creare un impasse normativo; ora il
dicastero tace mentre urlano le carte bollate, che si calcola produrranno –
oltre a non quantificabili introiti per studi legali travestiti da sedicenti
sindacati – intorno a 65.000 disoccupati della scuola. Proprio a partire da
questa vergogna nazionale, si avverte l’urgenza della lotta per l’area
contrattuale separata e il consiglio nazionale della docenza: il percorso di
formazione iniziale per diventare insegnante può essere disegnato in modo
efficace ed equilibrato solo da un organismo che sia reale espressione dei 7-800
mila professionisti dell’insegnamento italiani.
Scintille di questa azione precarizzante si propagano nel settore della gestione
delle istituzioni scolastiche:
un “innocuo” cerino gettato sull’ora di lezione che d’incanto si è allungata di
10 minuti dall’inizio dell’anno scolastico appena trascorso, ha costretto gli
organi collegiali degli istituti tecnici e professionali alle più spericolate
manovre per costruire orari settimanali che non assomiglino troppo a quelli
delle fabbriche, negoziando ore di inizio e fine lezione con le aziende locali
di trasporto, anch’esse alle prese con bilanci piuttosto magri. Dalla
valutazione alla gestione del personale e della logistica. E la didattica?
Nessuno al ministero è andato oltre il banale calcolo aritmetico 5 ore nuove = 6
ore vecchie, in forza del quale l’onorevole avv. Ministra ha potuto affermare
che le ore effettive di scuola non venivano ridotte dalla sua riforma epocale. A
nessuno è venuto in mente che quei 10’ possono diventare realmente una risorsa
se chi insegna viene messo nelle condizioni di poter utilizzare qualche sussidio
in più della lavagna con (qualche volta) il gesso, e chi impara non deve stare
gomito a gomito in classi da 30 e passa. Nessuno infatti ha collegato i famosi
10’ con la didattica laboratoriale che pur viene citata decine di volte da
regolamenti ed allegati, a proposito ed a sproposito. Quello che si è fatto è
stato semplicemente tagliare il bilancio dell’istruzione anche in quel 3%
eliminando spese per formazione e aggiornamento del personale, ricerca
educativa, acquisto strumentazione didattica e quant’altro potrebbe veramente
valorizzare il merito dei docenti, l’efficacia dell’insegnamento e la qualità
dell’istruzione.
A
proposito, dire che la qualità della didattica è strettamente collegata alla
valorizzazione delle migliori pratiche nell’insegnamento (concetto che mi sembra
meno fumoso del demagogico merito) è talmente scontato da apparire banale:
il problema è come valutare il lavoro degli insegnanti; su questo si sono già
prodotte troppe analisi teoriche, alcune veramente raffinate anche fra quelle
pubblicate nella nostra rivista, mentre la ministra appare del tutto determinata
a procedere e l’estensione a tappeto dei test Invalsi ne è probabilmente un
segnale preciso. Tuttavia, a parte il costo della gigantesca operazione che ha
coinvolto quest’anno oltre 2 milioni di studenti, il livello dell’apprendimento
è solo uno degli elementi che possono indicare la “bontà” dell’insegnamento;
detto questo, mi pare non si consideri abbastanza il fatto che i metodi di
valutazione finiscono per influenzare le modalità di insegnamento ed
apprendimento; mi spiego con un esempio: dopo aver scorso il questionario di
matematica, e aver sentito i miei allievi denunciare la difficoltà dei problemi
in esso contenuti anche perché raramente ne avevano affrontati prima,
mi è sorto il dubbio che forse gli studenti che eccellono nei test sono
concentrati nei paesi dove gli insegnanti li addestrano specificamente a
superarli. Ma allora, se la valutazione “oggettiva” del merito dei docenti si
aggancerà ai test di cui sopra, non sarà che il vento della “innovazione
didattica” porterà altra cenere molto lontano, verso una ulteriore
parcellizzazione di stampo vagamente skinneriano del processo formativo?
Per
tornare allo strategico fronte della definizione degli obiettivi del sistema,
i nuovi curricoli dell’istruzione liceale e tecnica stanno buttando come si dice
benzina sul fuoco: a dispetto degli slogan ministeriali, le iscrizioni
quest’anno dimostrano un’ulteriore pesante licealizzazione dell’istruzione
secondaria italiana.
Ma quale sarà il motivo di questo nuovo fronte delle fiamme che ormai
circondano da ogni lato gli alberi della conoscenza? Semplicemente il fatto che
le famiglie non sono stupide e hanno capito che – aldilà della grandi promesse –
l’istruzione tecnica e professionale “ordinaria”
è stata abbandonata a se stessa.
Così il passaparola garantirà ancora per qualche anno una prospettiva al mezzo
milione di quattordicenni italiani iscritti ai licei: per quanti anni? Fino a
quando, parcheggiati all’università nel migliore dei casi, finiranno nelle
statistiche dei lavoratori “scoraggiati”? E ciò mentre da anni le imprese
italiane si rivolgono ai lavoratori extracomunitari per diversi profili tecnici
e professionali?
La gran domanda finale è allora: fra cinque-sei anni saranno ancora presenti in
questo paese scampoli di cultura e professionalità da bruciare?
Ma
allora, di quale strana suggestione sono vittime questi nostri concittadini
italiani? Che stiano rinnegando i troppi libri di testo poco raccomandabili
studiati in passato?
Ecco perché, per evitare che i nostri governanti passino a metodi ancora più
efficaci, come quello narrato da Ray Bradbury in Farenheit 451, è più che mai
necessario reagire a questa sistematica distruzione della scuola pubblica,
contribuendo ognuno – oltre alla promozione delle iniziative di lotta della
nostra associazione sindacale - con le sue quotidiane gocce d’acqua gettate
nelle proprie classi, a spegnere il furioso incendio divampato per incuria o
premeditazione nel sistema scolastico italiano.