IL NUOVO ESAME DI STATO: UN’ANOMALIA ITALIANA
13 giugno 2002
Che il nuovo Esame di Stato sia una “anomalia italiana” salta subito agli occhi. Basta dare un’occhiata, sia pure superficiale, ai sistemi scolastici dei paesi europei a noi più vicini, quali Francia, Gran Bretagna, Germania e Spagna per accorgersi che l’Italia è fuori linea.
Lo era anche prima, in realtà, con il pasticcio del fifty-fifty nella composizione della commissione ed il carattere composito delle prove d’esame, in parte definite a livello centrale ed in parte decise a livello di singola scuola (Legge 425 del 10 dicembre 1997).
Tutta la politica scolastica italiana è segnata da queste ambiguità, questi compromessi storici, questa incapacità di fare delle scelte nette e decise.
E in questo contesto la storia di un esame rimasto sperimentale dal 1969 al 1997, cioè per quasi un trentennio, e modificato poi per ben due volte nel giro di un quinquennio, non è altro che una matrioska identica ad altre mille e che non stupisce ormai più (1).
Come non stupisce più il fatto che, nemmeno questa volta, sia stata fatta una scelta netta e decisa, che avrebbe semplicemente condotto all’abolizione dell’Esame di Stato.
Scelta che comunque avrebbe segnato, come dicevamo, un andamento nettamente divergente rispetto ai paesi a noi più vicini, nei quali l’esame conclusivo degli studi secondari, che apre l’accesso all’Università, ha un carattere “forte” e delle caratteristiche che l’avvicinano piuttosto alla prova di gentiliana memoria.
Prima fra tutte la composizione delle commissioni. Nei paesi succitati nessuna commissione d’esame è costituita dai docenti che – pochi giorni prima – hanno scrutinato gli allievi.
In Francia la commissione è costituita da insegnanti esterni (provenienti dall’Università o dagli istituti secondari di altre regioni) nominati dal Ministero dell’Educazione; in Gran Bretagna da professori universitari che costituiscono un Panel e non conoscono – ovviamente - gli allievi; in Germania la commissione è normalmente costituita da insegnanti della stessa scuola, ma di corsi diversi; in Spagna essa è formata da professori universitari e da docenti di scuole superiori.
Mentre la composizione delle commissioni è guidata dal principio del “controllo indipendente”, le modalità che regolano la correzione dei compiti sono, in tutti i paesi a cui abbiamo fatto riferimento, tese ad assicurare il massimo di imparzialità. Per questo le prove sono rigorosamente anonime e in Germania, laddove la correzione è effettuata da commissari che fanno parte della stessa scuola degli esaminandi, esse sono sottoposte a controlli a campione effettuati dal Ministero, che ovviamente interviene in caso di irregolarità.
In nessuno di questi paesi vengono effettuate prove elaborate e decise all’interno delle singole scuole, come è avvenuto in Italia dopo la riforma Berlinguer e come è nelle intenzioni del Ministro Moratti dal prossimo anno in poi (2). Tutte le prove sono decise a livello centrale laddove l’esame ha una connotazione prevalentemente conclusiva (Francia, Germania) e dalle Università laddove l’esame assume in prevalenza caratteristiche di funzionalità agli studi universitari (Gran Bretagna, Spagna).
Indipendenza, imparzialità e centralità sembrano dunque costituire gli elementi comuni ai paesi succitati. E questo benché essi siano stati sottoposti agli stessi processi di decentralizzazione che hanno investito l’Italia, e alle stesse pressioni di un sistema economico invasivo, che mira a modellare l’intera struttura sociale a propria immagine e somiglianza.
Sembra che i nostri “vicini” abbiano sviluppato, nel mentre assistevano ad un processo federalistico che per taluni aspetti si presentava come una “necessità storica”, un numero di anticorpi sufficienti ad assicurare la sopravvivenza di quella educazione nazionale che è stata una delle conquiste dell’Europa dopo il 1789.
Molto significativo, a questo proposito, il caso della Francia, che pur avendo avuto un processo di decentralizzazione fortissimo, rafforzato dalla Loi d’orientation de l’éducation voluta da Lionel Jospin nel 1989 (3), ed avendo percorso tutte le tappe volute dai gourous della pedagogia (dalla pedagogia “massimalista e sovversiva” del post ’68 , a quella “minimalista e strumentale” degli obiettivi didattici, fino ad approdare alla pedagogia differenziata) abbia voluto mantenere il carattere nazionale della scuola laica, gratuita ed obbligatoria voluta da Jules Ferry e passata all’Europa occidentale, senza mai approdare - ahimè - oltre atlantico, laddove l’istruzione di Stato, non prevista dalla Costituzione, si configura ancora come una scelta residuale per i poveri e gli emarginati.
Di questo si deve dare atto anche a Philippe Meirieu, eminenza grigia di Claude Allègre prima e di Jack Lang poi, e che da troppe parti viene semplicisticamente considerato come una sorta di Berlinguer d’oltre-Alpi.
Per quanto numerosi possano essere i danni che egli ha causato alla scuola, perlomeno a detta di Pedro Cordoba e dell’Associazione “Ricostruire la scuola”(4), bisogna dargli atto che non hai mai permesso che la diga del Bac (baccalauréat, cioè l’Esame di Stato francese) franasse , trascinando con sé decenni di conquiste e di storia, francese ed europea.
“Sono molto legato, scrive Philippe Meirieu in un recente saggio pubblicato da Gallimard (5), al carattere nazionale dei diplomi: se, in nome del rispetto della concorrenza, la Francia dovesse cedere su questo terreno, considererei la cosa come molto grave: potremmo avere dei ‘baccalauréats locali’ e rinunciare alla funzione della scuola come istituzione che garantisce l’uguaglianza di trattamento nelle procedure di certificazione. S’imporrebbe la deregulation: le esigenze culturali comuni lascerebbero il posto alla valutazione di ‘saper-fare’ diversificati e strettamente utilitari; una miriade di servizi di educazione concorrenziali invaderebbe il mercato, il servizio pubblico sarebbe relegato al ruolo di riciclaggio degli esclusi”
La Francia farebbe un passo indietro.
Tutta l’Europa – aggiungeremmo noi – farebbe un passo indietro.
Serafina Gnech
1. Anche prima del 1969 l’Esame di Stato aveva conosciuto alterne vicende. Dopo la riforma Gentile del ’23 (RD 6.5.1923, n° 1054), che prevedeva che tutti gli esaminatori fossero esterni per assicurare il controllo indipendente e per realizzare la parità con gli alunni della scuola privata che prima di quella data erano i soli ad avere una commissione esterna, l’Esame fu progressivamente indebolito anche e soprattutto perché “la subordinazione delle scuole private al potere politico fu pagata da larghezza di concessioni a danno degli studi” (Valitutti S. citato da Angela Martini, nell’articolo La riforma dell’esame di maturità, il valore legale del titolo di studio e la formazione delle classi dirigenti, in “Scuola e città”, n° 11, 1998). Ma fu soprattutto con la legge n° 86 del 1942 che venne completamente compiuta l’opera di snaturamento dell’esame voluto da Gentile. Quella legge prevedeva che la commissione d’esame fosse formata dai docenti degli allievi e che solo il presidente e il vicepresidente fossero esterni. Di fatto, la legge del ‘42 non fu applicata per la situazione in cui si trovava l’Italia e dopo l’entrata in vigore della Costituzione nel ‘46 (il principio dell’Esame di Stato fu recepito all’art. 33), si procedette con regolamentazioni provvisorie fino al 1958 quando venne promulgata la legge n° 184 che stabilì che tutte le commissioni d’esame fossero formate da membri esterni. La legge 184 rimase inalterata fino al 1969, quando iniziò la procedura sperimentale che durò per circa trenta anni. Il resto è storia recente.
2. Le prove decise a livello locale dovrebbero essere, nelle intenzioni del Ministro Moratti, due anziché tre. La prima e la seconda prova dovrebbero essere elaborate dalle commissioni interne, mentre la terza prova (pluridisciplinare-strutturata) dovrebbe essere decisa a livello centrale. Si ipotizzava anche una soppressione del colloquio orale, primo “colpevole” dell’allungamento dell’esame ed indirettamente del peso che esso ha sul bilancio dello Stato. Entrambe le modifiche segnerebbero un’ulteriore involuzione. Non solo si accentuerebbe il carattere “localistico” dell’esame, ma la perdita di spazio dell’oralità infierirebbe un duro colpo alla parziale funzione di riequilibrio della scuola nelle situazioni di emarginazione sociale. Le ben note “interrogazioni” sono state infatti – fino ad ora – uno dei maggiori strumenti di promozione democratica della nostra scuola.
3. La Loi d’Orientation sur l’Education regolamenta i processi di istruzione, dalla scuola materna alla scuola superiore, i ruoli del personale e la loro formazione, il funzionamento degli istituti scolastici e la valutazione del sistema educativo. Essa attribuisce inoltre personalità giuridica ed autonomia pedagogica e finanziaria a tutti gli istituti di insegnamento secondario. Continua così l’opera di decentralizzazione che aveva avuto inizio negli anni ’80 e che aveva rafforzato, a livello amministrativo, i livelli regionali e dipartimentali (Charles Coutel, Viva la scuola della Repubblica, Introduzione di Angela Martini, Libri Liberi 2002).
4. Il collettivo “Ricostruire la scuola” (formato soprattutto da docenti liceali ed universitari, fra cui figurano molti professori di filosofia) che ha lanciato, nel 1999, un pesantissimo J’accuse contro “IL Signor Meirieu , affossatore della scuola”, non ha mai smesso di far sentire la propria voce. Recentissimamente (il 30 maggio 2002) il Figaro ha pubblicato un articolo dal titolo Il tempo dell’impunità è finito in cui Pedro Cordoba e Charles Coutel avanzano delle precise richieste al Governo che sta per insediarsi in via Grenelle.
5. Philippe Meirieu, Stéphanie Le Bars, La machine-école, Gallimard 2002, pag. 231