“Quando si farà la devolution?” “Subito dopo il ponte di Messina” .
Questa battuta, riportata da Luciano Vandelli nel suo breve saggio
Devolution ed altre storie, connota fin dall’inizio l’opera: veloce,
caustica, senz’altro ben documentata e senz’altro fortemente critica. Un
“buon” pamphlet contro la devolution, insomma, scritto da un
assessore di precise tendenze politiche di una regione dalle tendenze
politiche altrettanto precise (1).
“Non
sono convinto che la devolution sia una Croce Rossa – scrive Vandelli
- … perché già con la sua presentazione e con il dibattito che produce,
questa proposta politica porta un (ulteriore) elemento (se non di
disgregazione) di delegittimazione, di svilimento di quella politica
solidale e autonomistica che, ancora gracile, sta compiendo faticosi sforzi
per affermarsi, per strutturarsi e per radicarsi nel tessuto
istituzionale e sociale”. E continua: “… questo libretto si propone non
tanto e non soltanto di attaccare un progetto dall’esito dubbio, quanto di
invitare a una riflessione sulla svalutazione e deformazione dei valori di
unitarietà dei diritti, di solidarietà e di autonomia che ne stanno alla
base” (2).
Per
raggiungere il suo scopo, per procedere cioè alla dimostrazione, con
rigore - nelle intenzioni - matematico, Vandelli fa prima di tutto un
brevissimo excursus storico che spiega anche l’adozione di un termine “così
poco padano” (3). Devolution deriva da devolved matters,
ovvero questioni devolute e fu ed è usato con riferimento al processo
autonomistico che ha coinvolto la Scozia ed il Galles nella seconda metà
degli anni ’90, approdando alle due leggi (lo Scotland Act e il
Government of Wales Act) che hanno istituito Assemblee legislative sia
per la Scozia che per il Galles.
Il
fascino dell’intera vicenda – e in particolar modo di quella scozzese -
sulla Lega sarebbe stato notevole grazie ad un’analogia di fondo. La Padania
si sarebbe sentita, proprio come la Scozia, una sorta di nazione senza
Stato, cioè un territorio con un’identità ben definita privo però di
sovranità statuale, che anelava all’autodeterminazione e che concepiva la
devoluzione come “un primo passo per avviare una politica separatista” (4).
Il richiamo alla Scozia sarebbe però, secondo Vandelli, più simbolico che
reale, sia per le profonde differenze fra la concezione di decentramento
inglese e quella continentale che per il divario fra l’assetto
costituzionale inglese (che garantisce molto poco le autonomie locali) e
quello italiano che, invece, le garantisce moltissimo. Senza parlare dei
contenuti della devoluzione scozzese che appare moderata e cauta non solo
in rapporto all’assetto stabilitosi dopo la riforma del 2001, ma addirittura
rispetto all’assetto delineatosi dopo i decentramenti degli anni ’70 e le
“leggi Bassanini”.
Ma,
genealogia a parte, quanti anni ha esattamente la devolution
italiana e qual è la sua storia locale?
Il
bruco che ha dato origine alla variopinta farfalla politica che monopolizza
i mass media – perché la devolution è Evento mediatico prima che
Evento politico, ci dice altrove Vandelli, o forse Evento politico perché
Evento mediatico - nasce nel 1989.
Nasce come bruco a tre teste: un Nord, un Centro ed un Sud firmati Lega
Nord, che nel giro di poco meno di un decennio, e cioè nel ’96, si
scompongono e si ricompongono in un Nord ed un Sud. “Nel ’96, dopo
l’effimera esperienza della prima alleanza con Berlusconi, scrive Vandelli
(4), l’elaborazione della Lega giunge al suo punto più esplicitamente
azzardato: teorizzando e proclamando come obiettivo politico l’indipendenza
del Nord, vale a dire la secessione. Ed è con questo messaggio che la Lega
ottiene, nelle elezioni del 21 aprile, un successo superiore a ogni
aspettativa: quattro milioni di voti, oltre 90 parlamentari, quarto partito
italiano, primo nel Nord”. La vittoria politica, che sfocia nella
Dichiarazione di indipendenza e sovranità della Padania, in una
posizione cioè fortemente radicale risulta però estremamente pesante nel
panorama politico italiano, e tale da porre la Lega al di fuori degli
schieramenti (“Roma–Polo” e “Roma-Ulivo”) che si vanno delineando. Si
rende dunque necessario un compromesso: un compromesso che permetta a Bossi
di non rinnegare le proprie scelte, uscendo dall’isolamento e rendendo, allo
stesso tempo, possibile l’alleanza con Berlusconi.
Questo compromesso è la farfalla della devolution, che dischiude le
proprie ali nel Congresso leghista di Milano del marzo ’98.
La
secessione diviene devoluzione e perde ogni connotazione geografica
definita. Bossi e Berlusconi tracciano un percorso comune, punteggiato da
uno “Stato minimo” con “meno tasse, meno leggi, meno burocrazia” (5).
E
all’insegna della moderazione e del compromesso segue il suo iter anche la
revisione costituzionale per la devoluzione che, partita in grande stile
(l’8 luglio 2001 “La Padania” pubblica un testo di 5 articoli e di 11
commi) si sgonfia, in particolare dopo il referendum del 7 ottobre che
approva la riforma dell’Ulivo. Dall’idea di sopprimere e/o di modificare si
passa a quella di aggiungere e l’aggiunta si concretizza, nel dicembre 2001,
quando cioè viene esaminata dal Consiglio dei Ministri, nel seguente testo
di nove righe:
“Dopo il 4° comma dell’art. 117 della Costituzione è inserito il seguente:
“Le Regioni attivano la competenza legislativa esclusiva per le seguenti
materie:
a)
Assistenza e organizzazione sanitaria;
b)
Organizzazione scolastica, gestione degli
istituti scolastici e di formazione;
c)
Definizione della parte dei programmi
scolastici e formativi di interesse specifico della regione;
d)
Polizia locale.”
Che
cosa contengono di dirompente queste nove righe che vengono approvate al
Senato il 26 febbraio 2002 (A. S. 1187) con l’anodino titolo: Modifiche
dell’art. 117 della Costituzione ?
Qui
il ragionamento, finora lineare, tende ad invischiarsi un po’. Vandelli
parla dapprima di “limitatezza della proposta” e di oscurità del testo
(“tanto succinto - nove righe - quanto denso di enigmi”) (6) e riprende così
l’impostazione del dossier del Servizio studi del Senato ispirato da “una
marcata cautela e da una sottolineata titubanza” per poi denunciare la
natura – a suo avviso – sostanzialmente eversiva del disegno: “C’è una
particolare ostilità, nel governo Berlusconi, nei confronti delle competenze
concorrenti, anche nelle materie che più evidentemente richiedono di
svilupparsi nel quadro di principi unificanti. Ed è precisamente il rifiuto
di questo nucleo di unitarietà a caratterizzare la devolution”(7).
Oltre, cita volentieri Sabino Cassese, che parla di un “decentramento molto
meno completo, molto meno esteso (rispetto a quello della legge 3/2001,
n.d.r.), ma che, compiendo una scelta politica, punta direttamente su tre
settori togliendo i quali lo Stato è effettivamente lasciato nudo “ (8).
Pressoché univoca e al di là di ogni ambiguità – e per motivi più che ovvi –
appare la posizione delle associazioni che rappresentano i comuni, le
province, le comunità montane (ANCI, UPI, UNCEM), che già prima
dell’approvazione in Consiglio dei Ministri avevano espresso numerose
critiche. Diversificato invece in quella stessa circostanza il parere delle
regioni, con una, più che prevedibile, spaccatura sinistra-destra. Così le
regioni Emilia Romagna, Campania, Marche, Toscana e Umbria esprimono un
parere sostanzialmente negativo; sul versante opposto si situano Abruzzo,
Calabria, Lazio, Lombardia, Molise, Piemonte, Puglia, Sicilia, Veneto.
Ma
veniamo al punto che maggiormente ci interessa: la devoluzione
dell’istruzione (9).
Anche qui, come già nella parte generale, affiorano le esitazioni, perché la
tesi eversiva stenta a reggere. E Vandelli, in tutta onestà, scrive: “La
reale possibilità di spostare competenze dallo Stato alle Regioni, per
questa via, si presenta fortemente opinabile, se si considera che comunque
la Costituzione riserva (e continuerebbe a riservare, in base all’art. 117,
comma 2, lettera n, di cui non si prevede alcuna modifica) alla legislazione
statale l’adozione delle norme generali in materia di istruzione”. E,
subito dopo, restringe ulteriormente lo spazio che separa la legge 3/2001
dal disegno di legge Berlusconi-Bossi: “ Su una filosofia non distante da
quella del d.d.l. sulla devolution, del resto, si basa la riforma dei
cicli scolastici proposta dal Ministro Moratti, ove, in sostanza, si delinea
un conferimento alle regioni del complesso delle funzioni relative
all’organizzazione scolastica, all’articolazione dell’offerta dei programmi,
alla gestione degli istituti scolastici. Si conferma la sensazione che gli
obiettivi che, quanto meno nelle dichiarazioni, vengono attribuiti alla
devolution, siano, in realtà perseguibili ( e concretamente perseguiti)
senza alcuna necessità di mettere mano alla Costituzione” (10).
Se
alla devolution non sarebbe dunque imputabile la colpa – e questo
detto da un “avversario” – di voler smantellare l’istruzione nazionale,
appare invece più fondata l’obiezione mossa da comuni, province e comunità
montane, che “ravvisano una lesione delle competenze già attribuite alle
autonomie locali” (11). Meno nitide e più strumentali, anche se non prive
di fondamento, appaiono invece le accuse di un attacco all’autonomia delle
scuole.
Ma
l’analisi dell’esistente non esaurisce l’Evento devolution, ci dice
Vandelli riprendendo il discorso generale. La “mini-devolution” che abbiamo
di fronte non comporta l’abbandono da parte di Bossi di progetti più ampi. E
questi progetti – sui quali ora non ci soffermeremo – sono contenuti in un
“decalogo” articolato in 5 leggi costituzionali e 5 leggi ordinarie
presentato alla Commissione Affari costituzionali del Senato il 21 febbraio
2002. Il punto più interessante di questo rigonfiamento della devolution
consisterebbe nel lancio-rilancio del presidenzialismo che “ripropone
l’idea di in diretto collegamento tra federalismo e presidenzialismo” (12),
collegamento che si presenterebbe, comunque, come del tutto infondato.
Ritornando comunque all’esistente, la devolution nasce carica di
paradossi, ambiguità e contraddizioni.
Iniziamo dai paradossi. Alcune regioni, come sappiamo, sono ostili alla
devolution ed hanno espresso in modo chiaro i motivi della loro
contrarietà. Ora il paradosso deriverebbe dal fatto che il Ministro che ha
assunto il rafforzamento delle regioni come punto centrale della propria
azione di Governo ignori il parere proprio delle regioni. Inoltre la
resistenza, calca Vandelli, non verrebbe solo dalle regioni, ma sarebbe
diffusa anche in numerose categorie: dai ministri a insigni esponenti della
cultura giuridica (quali Sabino Cassese, Beniamino Carovita e Vincenzo
Caianiello), ai sindacati. Senza parlare dell’opposizione, come già si
diceva, delle altre autonomie. E’ ben vero (e questa è una nota dello
scrivente) che le “altre autonomie” nel fare opera di opposizione fanno
spesso un passaggio diretto dalla Costituzione del 1948 alla devolution,
senza passare attraverso la modifica del titolo V attuata dalla Legge
Costituzionale 3/2001. L’ANCI, l’UPI e l’UNCEM fanno ad esempio uno
scivolone quando affermano che il d.d.l. risulta “analogamente non
condivisibile nelle scelte in materia di politica scolastica, affidata ad
“alcune” regioni con una scelta lesiva dei diritti dei cittadini, del
principio di uguaglianza, dell’identità della comunità nazionale, così come
dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, delle competenze degli enti
locali, del dovere di istituire scuole statali per tutti gli ordini e i
gradi, sancito dall’art. 33 della Costituzione” (13). Ignorano infatti – o
fingono di ignorare – che la Legge Costituzionale 3/2001 stabilisce che
“la Repubblica non si riparte più in Regioni, Province e Comuni (come
recitava l’art. 114 della Costituzione, ma “è costituita dai Comuni, dalle
Province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo Stato” e che vi
è “il riconoscimento della soggettività originaria delle Regioni e degli
enti locali che non costituiscono semplici ripartizioni amministrative del
territorio, ma col loro territorio, con la loro popolazione e le loro
tradizioni vanno a costituire lo Stato, unico soggetto unitario” (14).
Risulta evidente che se le Regioni vanno a costituire lo Stato “unico
soggetto unitario” le scuole regionali sono scuole “statali” e l’obiezione
cade.
Ma
ritorniamo ai paradossi evidenziati da Vandelli. Il secondo è – a suo
avviso - un paradosso di tipo istituzionale. La logica della devoluzione
prevede, come è avvenuto, ad esempio, in Scozia e in Catalogna, che alcune
materie vengano devolute, cioè “cedute” dal centro alla periferia; non
prevede – come contemplerebbe il d.d.l. 1187 - che le regioni si
auto-attribuiscano dei poteri nuovi. Il paradosso sta dunque nel fatto che
la devoluzione non sarebbe in realtà una devoluzione ma una ”cosa” anomala
di cui non si trova riscontro in nessuna esperienza precedente. Inoltre
Vandelli non vede nella famosa frase “le regioni attivano la competenza
legislativa esclusiva” nessuna analogia con l’art. 116 della Costituzione
vigente – analogia sostenuta invece da molti altri esperti
costituzionalisti – e sostiene invece che l’auto-determinazione delle
regioni innesterebbe un processo pericoloso e dirompente. Degna di nota e da
non ignorare l’argomentazione addotta dai sostenitori del d.d.l. che
affermano che la modifica verrebbe effettuata proprio nel rispetto della
costituzione vigente che è caratterizzata “da una logica inversa” (15)
rispetto a quella che emerge dal 116, da una logica cioè – che va dal
basso verso l’alto.
A
tutto questo si aggiungono il paradosso finanziario (una devolution non
accompagnata dalla devoluzione fiscale e dunque possibile solo per le
regioni con soldi?), il paradosso comunicativo (quale nesso fra la
limitatezza della proposta ed il battage mediatico?) ed il paradosso
lessicale al quale facevamo cenno prima (una devolution che non assomiglia a
nessuna devolution).
Il
rebus non appare di facile soluzione, anche perché - e qui ritorna il
leit-motiv della sovrapposizione pressoché perfetta – “quasi tutti i
risultati di questa ulteriore revisione potrebbero già conseguirsi con
interventi legislativi ordinari di Stato e regioni, sulla base del testo del
nuovo titolo V” (16).
Ai
paradossi si aggiungono forti ambiguità, ambiguità tali da far formulare a
Vandelli una duplice ipotesi. Testualmente:
a)
“che il significato di un intervento della
stessa Costituzione si collochi essenzialmente sul piano politico-simbolico:
che, in altri termini, si tratti di un’operazione fondamentalmente
propagandistica, ben più di quanto non rivesta contenuti sul piano giuridico
istituzionale; o, se si vuole usare un’espressione più benevola, si può
dire, seguendo Bagnetti – che si intende conseguire un “crisma
costituzionale” elevando la devolution al massimo livello dell’ordinamento;
b)
che, all’opposto, l’intervento sulla
Costituzione abbia (o possa assumere) valenze sostanziali, finendo per
consentire di attenuare o derogare quel sistema di garanzie, di diritti e di
limiti che costituiscono l’impalcatura unificante della Parte I della
Costituzione e delle disposizioni specifiche del Titolo V della Parte II”
(17).
L’ultima ipotesi apre prospettive inquietanti, ci dice Vandelli. Si tratta
di un processo per la Lombardia, il Veneto o la Padania? Se la
valenza del d.d.l. 1187 è sostanziale il punto d’arrivo della devolution
è politico nel senso più lato, “trattandosi di un passaggio, di un
(dirompente) dispositivo, volto anzitutto ad alterare gli equilibri
esistenti e ad aprire spazi per nuove dinamiche” (18).
Potrebbe aprirsi lo spazio ad un’altra lettura, di carattere non
strettamente geografico e che potrebbe collocarsi in aggiunta e/o in
alternativa alla precedente.
Se
si considera – dice Vandelli – che il Governo Berlusconi, nel mentre fa dei
proclami federalisti e sostiene il disegno di legge Bossi - pratica di fatto
una politica di tipo centralistico, invadendo spesso competenze di regioni e
autonomie locali, sorge il dubbio che l’obiettivo sia diverso e che gli
opposti non siano tali che ad un occhio miope.
Se
pensiamo infatti che la finalità fondamentale di questo Governo sia quella
di “ridimensionare o anche smantellare il sistema di Stato sociale e di
tutela dei diritti così come è venuto affermandosi, in Italia e in Europa,
in seguito ad una lunga e faticosa evoluzione, alla ricerca di nuovi
equilibri di stampo liberista, allora le due strade – devolution e
accentramento – pur partendo da punti opposti, possono confluire,
perseguendo il medesimo risultato” (19).
Arrivato a questo punto, Vandelli ci ha detto quasi tutto.
Le
“altre storie” di cui si fa menzione nel titolo (frantumazione del governo
locale, presidenzialismo, ecc.) non fanno altro che rinforzare la lunga
storia iniziale.
E
lasciano comunque aperta la domanda: devoluzione “bolla di sapone” o “bomba
per le istituzioni” (20)? E qui il professore e l’uomo politico si
sdoppiano. Perché se il professore sembra propendere per la prima ipotesi,
l’uomo politico è fortemente pungolato dalla seconda…
E allora?
Breve nota
dello scrivente, ovvero 4 domande per i curiosi, gli insoddisfatti, gli
emotivi, i cani sciolti,…
Non si può
dire che l’”Evento” non sia preceduto ed accompagnato da qualcosa di strano,
tanto strano da imporci alcune domande.
Perché quell’evento
dirompente che è la modifica del Titolo V della Costituzione è avvenuto
senza echi mass-mediatici?
Perché si è
iniziato a parlare di regionalizzazione della scuola solo dopo la
devolution annunciata e non dopo la riforma effettuata?
Perché dopo il
battage mass-mediatico si spargono fiumi d’inchiostro a sinistra e
ben poco si muove a destra?
Perché si avvia
– e quasi a tutti i livelli – uno scontro di tipo passionale-emotivo quando
ci sarebbe invece bisogno, prima di tutto e soprattutto, di capire?
Serafina Gnech |