E’ arduo accettare di rispondere, con poche
battute, ad una domanda che investe i soggetti ed i modi di funzionamento in
Italia dei complessi strumenti ordinamentali di controllo sulla spesa pubblica.
Nella migliore delle ipotesi, si corre il
doppio rischio di far storcere il naso a studiosi ed esperti di contabilità e di
risultare scarsamente comprensibile per gli inesperti.
Rassegnato e pronto a subire le inevitabili
critiche, inizio aiutandomi con un aneddoto.
Nell’antica Roma fu creata e funzionò, come
raccontano gli storici, la figura dei questores, dediti al controllo
della spesa che incideva sull’Aerarium (allocato presso il tempio del dio
Saturno), anche nel periodo in cui lo stesso (detto anche Fisco) si confondeva
con il patrimonio personale dell’Imperatore. Gli antesignani degli odierni
magistrati contabili controllavano finanche le spese sostenute durante le
campagne militari e, talvolta, si sentivano rispondere dai comandanti che la
nave recante le carte di contabilità, per avverse tempeste, era purtroppo
naufragata nel Mare nostrum.
Sarebbe avvincente, per bravi palombari,
scandagliare le profondità del Mediterraneo che, se sono veritiere le
giustificazioni a suo tempo rese dai militari romani e se il trascorrere di due
millenni non è stato inclemente, dovrebbe essere stracolmo di forzieri
contenenti i documenti contabili dell’epoca.
Fuori dall’aneddoto un po’ irriverente,
credo tutti siamo in grado di comprendere, specie nel mondo d’oggi in cui la
spesa pubblica si traduce in significativi apporti fiscali (torna il vocabolo
Fisco) provenienti dai cittadini contribuenti, l’importanza collettiva e
sociale dei controlli sulla spesa.
La Corte dei conti, pur essendo il massimo
organo di controllo conosciuto nel nostro ordinamento giuridico, a seguito
di varie innovazioni normative succedutesi nel tempo non può, oggi, più dirsi
deputata a realizzare un controllo accentrato e puntuale sulle erogazioni di
spesa, specie per una parte che diviene sempre più consistente, cioè la spesa
locale o decentrata.
Inoltre, le riforme normative dell’ultimo
quindicennio hanno profondamente trasformato la struttura intrinseca del
controllo, quasi interamente passato da preventivo di legittimità o
conformativo o interdittivo (cioè tale da impedire ad un atto, se non conforme a
norma giuridica, di produrre l’effetto di spesa e legittimare l’erogazione di
soldi) a controllo successivo sugli esiti complessivi e finali, cioè su
andamenti globali delle pubbliche gestioni dopo che le stesse sono state
realizzate e quasi sempre anche concluse.
Rimane in essere un controllo di contabilità
sui titoli di spesa svolto all’interno della stessa Amministrazione dello Stato,
prevalentemente attraverso le Ragionerie dello Stato facenti capo al Ministero
dell’Economia e delle Finanze (che è divenuto, perciò, cointestatario di
competenze sia in materia di spesa, sia in materia di entrate), nonché
continuano ad essere svolte verifiche di regolarità amministrativa e contabile
da parte di altri organismi (corpi ispettivi, revisori dei conti).
L’approssimativa descrizione che ho enunciato
mette in risalto i seguenti aspetti:
- il termine controllo (originariamente
derivato dal francese contre-rôle, che indicava un documento chiamato
contro-ruolo o doppio registro nel quale erano ripetuti i dati contenuti in
un atto ufficiale relativi a tributi da riscuotere, a prestazioni d’opera dovute
allo Stato, ovvero a beni inventariati e da gestire e consentiva la verifica sui
corretti adempimenti contabili) assume oggi il significato di verifica
dell’attività descritta nel documento
- la Costituzione ha tracciato le linee
essenziali del controllo nei confronti dell’Amministrazione statale
nell’articolo 100
- l’amministrazione, sia statale, sia
regionale o locale, ha subito un processo di trasformazione, con devoluzione di
molti compiti gestionali al sistema territoriale diffuso e conservazione al
centro (ora da intendersi statale o regionale) di compiti di programmazione e di
indirizzo-regolazione generale.
Un profilo cruciale delle riforme, cui
ho già fatto cenno, è stato quello di ridurre fortemente per lo Stato, e per
gli enti territoriali interamente sopprimere, i controlli di “legittimità”,
con il dichiarato intento di liberare l’esplicarsi di autonomie gestionali e, in
tal maniera, favorire lo scorrere vitale di nuove energie, non più paralizzate o
compresse da oramai vetusti centralismi.
La produzione normativa degli anni ’90
culminata nella legge n. 59 del 1997 (dai più conosciuta come legislazione “Bassanini”),
integra un punto fondamentale di snodo del processo riformatore.
Peraltro è da notare che nello stesso terreno
anche culturale di quel vasto processo, che ha interessato innumerevoli aspetti
nevralgici per il funzionamento della macchina pubblica (attraverso
privatizzazioni, entificazioni spesso ibridate tra “pubblico” e “privato”,
esternalizzazioni o outsourcing, nuovo e più ampio rilievo del terzo
settore o del no-profit, privatizzazione dei rapporti di pubblico impiego,
ampliamento della contrattualistica sindacale, riordino della dirigenza
amministrativa, diverso riparto delle competenze tra le varie giurisdizioni e,
ovviamente, nuovi sistemi di controllo di cui stiamo parlando), affonda le
proprie radici anche la successiva riforma costituzionale del 2001.
Credo sia utile segnalare che non sono
mancate in passato e non mancano oggi (anzi, vanno riprendendo rinnovata
intensità), in vari ambienti tecnici e dottrinari, valutazioni in qualche
misura critiche rispetto alla scelta soppressiva dei controlli esperibili sugli
enti locali.
Le critiche nascono dalla constatazione che la
soppressione è uno – non il solo - tra gli elementi probabilmente all’origine di
un lievitare non sempre “virtuoso” della spesa pubblica sostenuta ai livelli
decentrati.
Ciò, senza nessuna nostalgia di assetti
organizzativi burocratizzati, formalistici e orientati verso la mera
regolarità “cartolare” oramai fuori dal tempo, significa soltanto nutrire
motivate e preoccupate perplessità in ordine alle reali capacità di
funzionamento dei modelli innovativi di controllo che sono stati previsti ed
ingegnerizzati negli anni ’90, in sostituzione di quelli preesistenti.
Le perplessità non revocano in dubbio le
correzioni che bisognava apportare ai preesistenti controlli, divenuti
proceduralmente disarmonici e obsoleti rispetto alle evoluzioni maturate nel
Paese, né l’indispensabilità dell’autonomia decisionale sovrana spettante agli
Enti territoriali e neppure l’irreversibile decentramento amministrativo verso
livelli territoriali subnazionali, finalizzato alla modernizzazione di un
sistema che, indiscutibilmente, non era più in grado di proseguire sulla strada
del monolitismo quasi di stampo napoleonico.
Il decentramento, del resto, positivamente si
è incrementato con la riforma costituzionale del Titolo V varata nel 2001, anche
se, pure per questa parte, le costruzioni dell’ingegneria normativa in prosieguo
di tempo hanno mostrato talune disfunzioni progettuali, alle quali si è dovuta
industriare a porre rimedio la giurisprudenza della Corte costituzionale, in
sede di risoluzione di conflitti tra Stato e Regioni, i due principali livelli
in cui si articolano le decisioni programmatiche di spesa. |