Che il nuovo Esame di Stato sia
una “anomalia italiana” salta subito agli occhi. Basta dare
un’occhiata, sia pure superficiale, ai sistemi scolastici dei paesi europei a
noi più vicini, quali Francia, Gran Bretagna, Germania e Spagna per accorgersi
che l’Italia è fuori linea.
Lo era anche prima, in realtà,
con il pasticcio del fifty-fifty nella composizione della
commissione ed il carattere composito delle prove d’esame, in parte
definite a livello centrale ed in parte decise a livello di singola scuola
(Legge 425 del 10 dicembre 1997).
Tutta la politica scolastica
italiana è segnata da queste ambiguità, questi compromessi storici, questa
incapacità di fare delle scelte nette e decise.
E in questo contesto la storia di
un esame rimasto sperimentale dal 1969 al 1997, cioè per quasi un trentennio, e
modificato poi per ben due volte nel giro di un quinquennio, non è altro
che una matrioska identica ad altre mille e che non stupisce ormai più (1).
Come non stupisce più il fatto
che, nemmeno questa volta, sia stata fatta una scelta netta e decisa, che
avrebbe semplicemente condotto all’abolizione dell’Esame di Stato.
Scelta che comunque avrebbe
segnato, come dicevamo, un andamento nettamente divergente rispetto ai
paesi a noi più vicini, nei quali l’esame conclusivo degli studi secondari, che
apre l’accesso all’Università, ha un carattere “forte” e delle
caratteristiche che l’avvicinano piuttosto alla prova di gentiliana
memoria.
Prima fra tutte la composizione
delle commissioni. Nei paesi succitati nessuna commissione d’esame è costituita
dai docenti che – pochi giorni prima – hanno scrutinato gli allievi.
In Francia la commissione è
costituita da insegnanti esterni (provenienti dall’Università o dagli istituti
secondari di altre regioni) nominati dal Ministero dell’Educazione; in Gran
Bretagna da professori universitari che costituiscono un Panel
e non conoscono – ovviamente - gli allievi; in Germania la
commissione è normalmente costituita da insegnanti della stessa scuola, ma di
corsi diversi; in Spagna essa è formata da professori universitari e da
docenti di scuole superiori.
Mentre la composizione delle
commissioni è guidata dal principio del “controllo indipendente”, le modalità
che regolano la correzione dei compiti sono, in tutti i paesi a cui abbiamo
fatto riferimento, tese ad assicurare il massimo di imparzialità. Per questo le
prove sono rigorosamente anonime e in Germania, laddove la correzione è
effettuata da commissari che fanno parte della stessa scuola degli esaminandi,
esse sono sottoposte a controlli a campione effettuati dal Ministero, che
ovviamente interviene in caso di irregolarità.
In nessuno di questi paesi
vengono effettuate prove elaborate e decise all’interno delle singole scuole,
come è avvenuto in Italia dopo la riforma Berlinguer e come è nelle
intenzioni del Ministro Moratti dal prossimo anno in poi (2). Tutte le
prove sono decise a livello centrale laddove l’esame ha una connotazione
prevalentemente conclusiva (Francia, Germania) e dalle Università laddove
l’esame assume in prevalenza caratteristiche di funzionalità agli studi
universitari (Gran Bretagna, Spagna).
Indipendenza, imparzialità e
centralità sembrano dunque costituire gli elementi comuni ai paesi
succitati. E questo benché essi siano stati sottoposti agli stessi processi di
decentralizzazione che hanno investito l’Italia, e alle stesse pressioni di un
sistema economico invasivo, che mira a modellare l’intera struttura sociale a
propria immagine e somiglianza.
Sembra che i nostri “vicini”
abbiano sviluppato, nel mentre assistevano ad un processo federalistico che per
taluni aspetti si presentava come una “necessità storica”, un numero di
anticorpi sufficienti ad assicurare la sopravvivenza di quella educazione
nazionale che è stata una delle conquiste dell’Europa dopo il 1789.
Molto significativo, a questo
proposito, il caso della Francia, che pur avendo avuto un processo di
decentralizzazione fortissimo, rafforzato dalla Loi d’orientation de
l’éducation voluta da Lionel Jospin nel 1989 (3), ed avendo percorso
tutte le tappe volute dai gourous della pedagogia (dalla pedagogia
“massimalista e sovversiva” del post ’68 , a quella “minimalista e strumentale”
degli obiettivi didattici, fino ad approdare alla pedagogia differenziata) abbia
voluto mantenere il carattere nazionale della scuola laica, gratuita
ed obbligatoria voluta da Jules Ferry e passata all’Europa occidentale,
senza mai approdare - ahimè - oltre atlantico, laddove l’istruzione
di Stato, non prevista dalla Costituzione, si configura ancora come una
scelta residuale per i poveri e gli emarginati.
Di questo si deve dare atto anche
a Philippe Meirieu, eminenza grigia di Claude Allègre prima e di Jack Lang poi,
e che da troppe parti viene semplicisticamente considerato come una sorta
di Berlinguer d’oltre-Alpi.
Per quanto numerosi possano
essere i danni che egli ha causato alla scuola, perlomeno a detta di Pedro
Cordoba e dell’Associazione “Ricostruire la scuola”(4), bisogna dargli atto che
non hai mai permesso che la diga del Bac (baccalauréat, cioè
l’Esame di Stato francese) franasse , trascinando con sé decenni di conquiste e
di storia, francese ed europea.
“Sono molto legato, scrive
Philippe Meirieu in un recente saggio pubblicato da Gallimard (5), al carattere
nazionale dei diplomi: se, in nome del rispetto della concorrenza, la Francia
dovesse cedere su questo terreno, considererei la cosa come molto grave:
potremmo avere dei ‘baccalauréats locali’ e rinunciare alla funzione
della scuola come istituzione che garantisce l’uguaglianza di trattamento nelle
procedure di certificazione. S’imporrebbe la deregulation: le esigenze
culturali comuni lascerebbero il posto alla valutazione di ‘saper-fare’
diversificati e strettamente utilitari; una miriade di servizi di educazione
concorrenziali invaderebbe il mercato, il servizio pubblico sarebbe
relegato al ruolo di riciclaggio degli esclusi”
La Francia farebbe un passo
indietro.
Tutta l’Europa – aggiungeremmo
noi – farebbe un passo indietro.
1.
Anche
prima del 1969 l’Esame di Stato aveva conosciuto alterne vicende. Dopo la
riforma Gentile del ’23 (RD 6.5.1923, n° 1054), che prevedeva che tutti gli
esaminatori fossero esterni per assicurare il controllo indipendente e per
realizzare la parità con gli alunni della scuola privata che prima di quella
data erano i soli ad avere una commissione esterna, l’Esame fu progressivamente
indebolito anche e soprattutto perché “la subordinazione delle scuole private al
potere politico fu pagata da larghezza di concessioni a danno degli studi”
(Valitutti S. citato da Angela Martini, nell’articolo La riforma dell’esame
di maturità, il valore legale del titolo di studio e la formazione delle classi
dirigenti, in “Scuola e città”, n° 11, 1998). Ma fu
soprattutto con la legge n° 86 del 1942 che venne completamente compiuta l’opera
di snaturamento dell’esame voluto da Gentile. Quella legge prevedeva che la
commissione d’esame fosse formata dai docenti degli allievi e che solo il
presidente e il vicepresidente fossero esterni. Di fatto, la legge del ‘42 non
fu applicata per la situazione in cui si trovava l’Italia e dopo l’entrata in
vigore della Costituzione nel ‘46 (il principio dell’Esame di Stato fu recepito
all’art. 33), si procedette con regolamentazioni provvisorie fino al 1958
quando venne promulgata la legge n° 184 che stabilì che tutte le commissioni
d’esame fossero formate da membri esterni. La legge 184 rimase inalterata
fino al 1969, quando iniziò la procedura sperimentale che durò per circa trenta
anni. Il resto è storia recente.
2.
Le
prove decise a livello locale dovrebbero essere, nelle intenzioni del Ministro
Moratti, due anziché tre. La prima e la seconda prova dovrebbero essere
elaborate dalle commissioni interne, mentre la terza prova
(pluridisciplinare-strutturata) dovrebbe essere decisa a livello centrale.
Si ipotizzava anche una soppressione del colloquio orale, primo “colpevole”
dell’allungamento dell’esame ed indirettamente del peso che esso ha sul bilancio
dello Stato. Entrambe le modifiche segnerebbero un’ulteriore involuzione. Non
solo si accentuerebbe il carattere “localistico” dell’esame, ma la perdita di
spazio dell’oralità infierirebbe un duro colpo alla parziale funzione di
riequilibrio della scuola nelle situazioni di emarginazione sociale. Le ben note
“interrogazioni” sono state infatti – fino ad ora – uno dei maggiori strumenti
di promozione democratica della nostra scuola.
3.
La
Loi d’Orientation sur l’Education regolamenta i processi di istruzione,
dalla scuola materna alla scuola superiore, i ruoli del personale e la loro
formazione, il funzionamento degli istituti scolastici e la valutazione del
sistema educativo. Essa attribuisce inoltre personalità giuridica ed autonomia
pedagogica e finanziaria a tutti gli istituti di insegnamento secondario.
Continua così l’opera di decentralizzazione che aveva avuto inizio negli anni
’80 e che aveva rafforzato, a livello amministrativo, i livelli regionali e
dipartimentali (Charles Coutel, Viva la scuola della Repubblica,
Introduzione di Angela Martini, Libri Liberi 2002).
4.
Il
collettivo “Ricostruire la scuola” (formato soprattutto da docenti liceali
ed universitari, fra cui figurano molti professori di filosofia) che ha
lanciato, nel 1999, un pesantissimo J’accuse contro “IL Signor Meirieu ,
affossatore della scuola”, non ha mai smesso di far sentire la propria voce.
Recentissimamente (il 30 maggio 2002) il Figaro ha pubblicato un articolo dal
titolo Il tempo dell’impunità è finito in cui Pedro Cordoba e Charles
Coutel avanzano delle precise richieste al Governo che sta per insediarsi in via
Grenelle.
5.
Philippe Meirieu, Stéphanie Le Bars, La
machine-école, Gallimard 2002, pag. 231 |