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Tratti antichi e nuovi della funzione docente:
l’insegnante come Maestro, il conoscere e le competenze
 

Noi domandiamo qui e ora, per noi. Il nostro esserci –nella comunità di ricercatori, insegnanti e studenti- è determinato dalla scienza. Che cosa d’essenziale ci accade nel fondo dell’esserci, per il fatto che la scienza è divenuta la nostra passione? 

M.Heidegger, Che cos’è la metafisica, 1929, letto in Segnavia, Adelphi, Milano, 1987

di Gabriele Boselli

 

Interrogativi

Sollecitato da Angelo Scebba a metter per iscritto alcune cose dette in una plenaria del CNPI intorno all’insegnante come Maestro nei difficili chiari di luna dell’attualità, mi sono documentato sugli ultimi numeri di Professione docente, foglio che seguo da anni e con cui ho sempre trovato profondi motivi di consonanza. In particolare vi ho rinvenuto una bella intervista di Renza Bertuzzi a Luciano Gallino, ricca di riferimenti anche a un libro che avevo letto alcuni mesi fa e di assoluta pregnanza.
Io ho vinto un concorso quarant’anni fa; la paga scarsa, ma il posto è sempre stato al sicuro, potevo farci conto. Potevo solo migliorare, con altri concorsi, la mia posizione. Che significa oggi per un docente, professionista istituzionale, dunque di una istituzione della stabilità, essere precario, non poter distribuire nel tempo con un minimo di affidabilità il proprio progetto di vita? Come comunicare ai giovani sicurezza, quando uno non è sicuro nemmeno del proprio posto di lavoro? Nella precarietà cosa trasmettere se non mere competenze, quando i giovani avrebbero bisogno di ben altro, ovvero di imparare ad amare il mondo e la scienza, a conoscere, a guardare il futuro non con ansia ma con speranza?
Sullo sfondo altre domande, che riguardano anche i formalmente non-precari: saremo produttori di conoscenza o addestratori a competenze richieste dal mercato? Cosa significherà per tutti noi anche sul piano della nostra attività di lavoro trovarsi senza un contratto nazionale (forma contrattuale sempre più attaccata dalla Confindustria e pressata dagli esponenti del governo) ed esposti alle trappole del contratto individuale? Che ne sarà della libertà di insegnamento, patrimonio anche della dirigenza scolastica e tecnica, quando saremo tutti valutati dal nostro superiore? Conteranno di più la cultura, l’autonomia intellettuale, la capacità di iniziativa o piuttosto l’obbedienza?

Insegnare a conoscere

La scuola è oppressa, oltre che da grave mancanza di fondi e presto anche di personale (oltre centomila cattedre e cinquantamila non docenti in meno nei prossimi tre anni), dalla richiesta ossessiva di produzione di competenze rilevabili dagli apparati di valutazione sistemica e spendibili sul Mercato. I maestri non dovrebbero più additare il senso della storia e la cultura, nè rappresentare l’ autocoscienza della intera vicenda dello spirito. Per questo la Conoscenza e il suo organo fondazionale, la filosofia, sono rinnegate dalle scuole pedagogiche più mercato/compatibili come teoresi fondanti, “costanti metodologiche” che innervino le diverse discipline e le mettano nel loro insieme in grado di rappresentare l’Intero: il soggetto della produzione non deve conoscere l’intero mondo ma solo quel pezzo che gli competerà. Meno sa, meglio è, basta che sappia fare quel che (ad altri) serve.
Il disegno di disarticolazione delle relazioni sociali e politiche denunciato da Gallino sarà così più facile. Il soggetto non avrà più dei compagni ma dei concorrenti, pardon competitors, non una Terra su cui poggiarsi con sicurezza nè un Cielo cui rivolgersi, poichè tutto il suo esistere sarà impegnato nella incertezza del mondo della produzione.
La piazza principale del paese dell’istruzione appare così dominata da una parola, “competenze”, cui tutti dedicano reverenti omaggi; in frequenti casi lo fanno perfino i controinteressati e pure coloro che culturalmente apparirebbero lontani dall’ideologia del mercato. Il campo semantico occupato dalla parola è stato progressivamente dilatato fino ad occupare tutto il territorio pedagogico. Cercherò in questo breve scritto di precisarne i confini e ridimensionarne l’eccessivo ruolo attualmente giocato.
Un primo elemento di identità di una parola è dato da quelle con cui va abitualmente collegata e da quelle da cui è ordinariamente disgiunta (“Dimmi con chi vai”……). Difficilmente la troverete accompagnata a “spirito”, “persona” “cultura”, “pedagogia”, “filosofia”, “amore”, “attesa”, “speranza”. Competenza procede abitualmente insieme a: linee-guida, format, sequenze, traguardi, descrittori, indicatori, test, livelli, sub-livelli, monitoraggio, certificazione. E’ l’intero dizionario principale di una concezione tecnicistica ed economicistica della scuola; è una concezione impropriamente fatta derivare da alcuni documenti europei sull’istruzione professionale ed estesa impropriamente a criterio sommo dell’intero campo dell’Istruzione, dalla scuola dell’infanzia all’università.
Occorre invece, a mio avviso, ripensare alle strutture dell’istruzione come a luoghi di formazione integrale di tutto l’uomo (non solo del produttore/consumatore); trovare un punto di forza nella coscienza e portare la “competenza” entro la costellazione dominata dalla stella principale: conoscere.

Fare che le coscienze prendano forma

Nello scenario di riferimento di un insegnante o dirigente che sappia essere anche un maestro vi sarebbe un termine ormai (preziosamente) inattuale: coscienza. Se non ho coscienza, io non sono. Ignorando, cancellando la coscienza fra il datum dell’educazione e dell’istruzione, certa didattica nera del tardomoderno cancella il soggetto, lascia perdere la persona e l’essere in educazione come produzione dell’io. A chi conta, i soggetti isolati, incoscienti di sé, dei propri diritti, delle linee di fondo della cultura fanno molto comodo.
Occorre invece reilluminare la “coscienza”, l’atto oscillante ma sempre originario e intenzionale dell’avvicinarsi e del prender le distanze da se stessi e dalle cose per guadagnare un razionale (relativamente stabile e puntualizzato) sentimento di sé e una forza di protensione che faccia guadagnare un inserimento fondato, libero e autonomo nel mondo. Ignorare la coscienza in un disegno pedagogico significa allevare generazioni di dispersi e di dispersi del tipo più pernicioso: i dispersi non tanto da dove li vorremmo quanto anche da se stessi.
La coscienza bene educata (tratta fuori dai suoi condizionamenti più gravi) è serena ma non ha quiete; è vocata a conoscere, fuoriuscire di sé, trascendersi; è volto che non può che attivamente volgersi ad altro, purchè l’altro introduca a un mondo proprio. Non è la cosa della maggior parte degli psicologi o il dato tanto amato dalle docimologie OCSE o dei sistemi nazionali di valutazione (amato in quanto manipolabile ad libitum); non è pertanto materia “fermabile” (il movimento le è essenziale), oggettivabile, nè tantomeno deducibile da ciò che il soggetto sa fare. Nonostante tutte le riduzioni, coscienza è l’avvertire sempre e comunque il legame necessario del vivente con l’intero del vissuto, alla luce di una ragione che la pedagogia come scienza filosofica indirizza a essere sempre meno dipendente, sempre più libero e potente.
Un progetto di scuola deve fare spazio alla coscienza, affinché la persona acquisisca volontà di essere, possa esprimere e generare autonomia intellettuale, morale ed estetica. Nonostante il grande lavoro di molte scuole e università intellettualmente autonome, masse di insegnanti si perdono nella falsa narrazione (meglio chiamarla telenovela) dell’ epoca, inseguendo le competenze, facendo perdere coscienza di sé e non lasciando acquisire capacità di conoscere il mondo. Il mondo viene posto solo come lo scenario precostituito di una conoscenza “oggettiva” finalizzata a competenze “richieste dal mercato” ovvero prescindente da ogni coscienza, prefabbricata, epistemica, astorica, artificiosa, strumentale, misurabile; dunque meramente competenziale. Il mondo non può essere proposto ai giovani come elenco di insignificanti (che non accennano ad altro) obiettivi da raggiungere.

Essenziale è il conoscere. Le competenze - da sole - sono il sapere del servo

La conoscenza è la forza dell’intelligenza umana storicamente formatasi che porta una coscienza a entrare in una relazione più razionale (inquadrata dall’attività “legislatrice” del sapere costituito) con il mondo, intendendo ancora per mondo l’insieme delle relazioni che la coscienza trascendentale dell’umanità intrattiene con le sue rappresentazioni culturalmente consolidate, con l’universo dell’esserci. Di lì, da questa espansione della coscienza nell’altro-da-sé (Gentile) deriverà la genuina oggettualità del mondo, ovvero l’esser il non-solo-io oggetto di operazioni di coscienza; fuori di questo movimento non vi sono altri oggetti. Il professionista nella formazione alle competenze crederà che queste ultime possano evocare la realtà intrinseca degli enti e degli eventi rappresentati e magari anche le relative figure logiche, sottratte alla loro strumentalità e implicitamente accreditate di “esistenza” autonoma, ipostatica.
Conoscere è, al contrario, “sbocciare da se stessi” (Heidegger) a un mondo che non è solo un prodotto dell’attività rappresentativa dell’io, ma che tale non sarebbe se l’io non fosse. Lasciar conoscere è far agire un sapere non destinato a decadere in prestazioni misurabili ma che apre, lascia che gli enti e gli eventi cognitivi accadano senza irretirli in tassonomie; è creare reti non vincolanti di rapporto intellettuale con il mondo.
La scuola può/deve offrire un orizzonte storico, affidabile almeno quanto incerto, per l’intelligenza dell’essere attraverso le vie dell’esistere pedagogico: offrire dunque conoscenze e saperi (conoscenze in atto) essenziali in quanto lasciano essere anziché trasmettere statuti di ciò che la cultura dà per essente. Se il conoscere che si impara a scuola non fosse in primo luogo interpretativo dell’essenziale, del gratuito sarebbe chiacchiera, introduzione al culto del Nulla, la rassegnazione alle prestazioni insensate.
Ogni autentico sapere è invece sapere puro, sapersi nella libertà; è pensiero decostruttivo e creativo.
Le èlites (del censo) che governano il mondo hanno paura che le masse imparino a conoscere; di conoscere la complessità degli eventi e le tensioni della storia, che sicuramente continua e ricrea quell’oltre che smentisce l’impressione della fine. Vogliono che si creda che la storia è finita e loro hanno vinto.
I ragazzi, gli insegnanti e chiunque abbia un ruolo educativo hanno invece bisogno di racconti sull’Intero, di segni essenziali di indicazione; non possono essere lasciati nel nichilismo della frammentualità, più o meno compiaciuta, al servizio né della persona né dell’immensa tradizione d’Occidente.

Per un insegnante/Maestro

Muovendo dalle esperienze e dalle riflessioni maturate durante le discussioni nel CNPI, i congressi scientifici e i numerosi incontri che ho avuto con gli insegnanti cercherò di definire alcuni tratti, a parer mio essenziali, che devono continuare a caratterizzare l'identità docente o che questa potrebbe assumere. Sono linee di un essere-in educazione radicato nella memoria e volto a continuare nel futuro il senso dell'insegnare: in sintesi, si insegna davvero quando si ha qualcosa di proprio da dire, qualcosa che, essendo autentico e non la mera recita di un programma, abbia la forza di mettere in moto il giovane.
Ritengo che riflettere sul senso della propria identità istituzionale come personale sia compito vitale per chi insegna; non soffermarsi a pensare in tal senso comporta il diventare succube della pressione esterna, dell'immagine ufficiale, degli stereotipi ideati per altre figure professionali. Per questo è importante porsi quali soggetti culturalmente "forti" ma non prevaricatori, agili, ma non troppo “flessibili”, per tornare al libro di Gallino.
L'azione dell'insegnare a conoscere secondo me si caratterizza quale attività dinamica, non producibile a partire da schemi precostituiti ma che si costruisce inventandola, come un’opera d’arte (G. Gentile, Sommario di pedagogia come scienza filosofica). La soggettualità docente si costituisce e ricostituisce attraverso l'esercizio del piacere dell'intelligenza colta e dell'autonomia morale. E' agire continuo, interrelato tra le componenti della comunità scolastica e tra questa e il mondo.
Per questo-
-----La libertà è la condizione necessaria e indispensabile affinchè si dia cultura; un pensiero colto è un pensiero autonomo e viceversa. La libertà è il fine, in quanto tensione continua che non si realizza mai compiutamente quale acquisizione definitiva; nel contempo è valore vissuto quotidianamente, a volte con sofferenza. Senza di essa non c’è cultura, né scienza, né attività intellettuale, né morale. Tutta la nostra vita assume valore come atto di libertà, atto di individuazione e costruzione di autonomia.
-----La cultura è attività di ricerca; pertanto ogni insegnante è ricercatore, non distributore automatico di competenze. Pone domande, interroga se stesso, gli altri, gli eventi. Individua possibili risposte in forma problematica, aperta, articolata. E' proprio del magistero, dell’ essere maestri l'attitudine all’indagine, al dubbio, l' atteggiamento non sistematicamente assertivo. Ma anche la sicurezza di sé, il coraggio, la fiducia nel futuro.
----Dimensioni dell’insegnare. L’essere insegnanti nasce e cresce nel più elevato grado possibile di sospensione dai dogmi della cronaca, nella massima fedeltà attuabile alla millenaria missione della scuola. Il Maestro apre all’essenziale ovvero all’inerente all’essere, a ciò che è necessario affinché l’essere viva; indica la terra, la casa in cui si sta, la lingua in cui si risiede; ma anche ciò che schiude al trascendimento dallo stato, apre alla pienezza di un senso intenzionale. Addita l’essenziale quella scuola che avvicina il soggetto al pensiero pensante, al sapere che apre, lascia che gli eventi cognitivi non siano irretiti in tassonomie. Conoscere è un atto di libertà, la libertà che il soggetto concede a se stesso e all’oggetto della sua indagine di incontrarsi in propri provvisori termini ideali.
Dobbiamo resistere alla pressione dell’insensatezza, conservare la memoria ma non solo; anche costruire, creare e non agitarci; anche se tutto ci porta ad un agire economicistico senza fondazioni e senza autentico senso. "Pensare nonostante" ma anche "pensare in vista di": modi di chi insegna le cose che devono permanere come quelle che si vanno disegnando oltre l'orizzonte del tempo.
La formazione in servizio deve allora essere desiderata; certo occorre sia non un modellamento secondo la volontà dei potenti ma un percorso affinchè in ogni insegnante si affermi la forma che lo attende da sempre, in modo che egli sappia essere cultura in atto. Produrrà allora un incremento di conoscenza in quanto trascenderà lo stato attuale, le attese dell’oggi, le aspettative a corto raggio del Mercato.

Immagini di docente/Maestro

Testimone: apertura piena agli elementi di verità, consuetudine a guardare e a pensare in prima persona, senza pretese di universalità ma con esplicita dichiarazione del proprio punto di vista.

Intero: ha un volto proprio e lo mostra senza altre difese che non siano nell’autorità del proprio sapere. In quanto testimone, il docente non percepisce il proprio lavoro come separato dalla vita; dunque non vita e professione, ma professione come vita e vita come professione.

Ermeneuta: ha capacità di interpretare la cultura (i codici, i linguaggi, i valori, i simboli) nell'originalità del suo essere un esistente concreto. Porta e mostra l’essere nelle contingenze dell’esistere.

Dilettante: prova (anche) diletto dall’insegnare. Soggetto che porta a scuola la ricchezza, e pure la contraddizione e l'inevitabile limitatezza della propria esistenza culturale. E' mosso da interiore consenso a ciò che ha scelto di fare e per questo si sa muovere. Non sa agire senza passione e non sa vivere se non nella passione dell'agire e del pensare. E' soggetto di pensiero e di umanità.

Uomo libero: non si lascia rinchiudere in campi; è violatore di confini artificiosi. Non si preoccupa di appartenenze o schieramenti né di etichettature. Studia i libri più che le convenienze, impara dalle cose e dagli uomini; nel suo pensare il pensiero è eterno apprendista.

Artista (o almeno artigiano): soggetto che “tiene a bottega” dei giovani, ha “mestiere”, condivide criticamente eredità, pratiche comuni perenni e dell’epoca in cui è capitato.



Bibliografia essenziale
Giovanni Gentile (1913) Sommario di pedagogia come scienza filosofica ora in Le Lettere. Firenze, 2003
Giovanni Gentile (1916) Teoria generale dello spirito come atto puro, ora in Opere a cura di E.Garin, Garzanti, 1990
Piero Bertolini (a cura di) Per un lessico di pedagogia fenomenologica Erickson, Gardolo di Trento, 2006

Bibliografia della discussione
Luciano Gallino Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità Laterza, Roma-Bari, 2007
Gabriele Boselli Non pensiero e oltre. Scenari e volti per un’introduzione al pensare venturo, Erickson, Gardolo di Trento, 2007