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BURNOUT E PENSIONE

 

Intervista al Dottor Vittorio Lodolo D’Oria

 
 

-   Dottore, L’Espresso di questa settimana ha ampiamente riportato i risultati del suo studio  - lo studio “Getsemani”-   e dell’indagine che lei ha condotto con la Fondazione IARD sullo stato di “sofferenza professionale” degli insegnanti italiani (E’ scoppiato il professore di Fiamma Tinelli, “L’Espresso”- 9 ottobre 2003). Ora, questi risultati emergono nella loro allarmante crudezza proprio nel momento in cui si prospetta una riforma delle pensioni che contempla un periodo lavorativo di durata uniforme per tutti.  Ci chiediamo – le chiediamo:  esistono delle categorie a rischio? Fra queste categorie  collocherebbe  la categoria dei docenti?

Sicuramente ci sono delle categorie più esposte di altre a particolari malattie e il caso degli insegnanti ne è la dimostrazione. Occorre approfondire gli studi appena avviati prima di giungere a conclusioni affrettate, ma questo non deve costituire un alibi per giustificare l’immobilismo registrato fino ad oggi. Non è azzardato - visti i numeri dello studio “Getsemani” e ricorrendo a un’analogia forte – ipotizzare che il binomio insegnanti-psicopatie rischia di assomigliare a quello arcinoto minatori-silicosi. Proviamo a domandarci, alla luce dei dati emersi, se tutti gli insegnanti che si sono ammalati di psicopatia dopo 20-30 anni di onorata professione cominciassero a chiedere la causa di servizio: chi potrebbe negargliela recisamente dopo aver letto lo studio “Getsemani”? Ma forse è meglio rivolgere questa domanda ai sindacati e agli avvocati del lavoro.

Il discorso sulle pensioni è delicato, ma non credo di sbagliare di molto nell’affermare che tutti i cambiamenti devono essere monitorati nel tempo. Sacrosanto abolire le baby-pensioni nel ’92, ma altrettanto sbagliato non andare a studiarne gli effetti nel tempo. I numeri ci dicono che la percentuale di patologie psichiatriche tra i docenti passa dal 45% nel biennio 93-94 al 57,5% del 2001-2002, mentre nelle altre professioni passa da un valore medio di 20,4% al 26,3%.

    - Quali sono, a suo avviso, gli elementi che fanno sì  che l’insegnamento rientri nella rosa delle  professioni a rischio?

    Suddividerei i fattori di rischio in due grosse categorie. I fattori endogeni legati a carattere, capacità reattiva individuale e storia personale dell’individuo. Già su questi è possibile un intervento prima dell’immissione in ruolo e durante la carriera professionale. Poi vi sono i fattori esogeni, cioè quelli propri dell’ambiente lavorativo e del clima sociale. Questi divengono ogni giorno più numerosi e intensi: studenti extracomunitari, portatori di handicap, classi numerose, rapporti con colleghi e dirigenza, genitori esigenti, delega educativa, informatizzazione, precariato, retribuzione inadeguata e via dicendo. Ma il fattore ritenuto più pesante dagli stessi docenti - addirittura insopportabile - è lo scarso riconoscimento sociale.

    - La presenza in un luogo  lavorativo  a forte connotazione relazionale di una persona in stato di sofferenza ha ovviamente pesanti conseguenze  sull’intero contesto. Nella scuola il cuore della relazione consiste nel rapporto con i bambini e/o gli adolescenti, non ritiene dunque che il peso di queste conseguenze sia maggiore? E che ciò richieda una particolare sensibilità da parte delle forze politiche?

     Un insegnante che non ce la fa più è al contempo una persona da curare e un fattore destabilizzante per tutto il sistema. L’ambiente scolastico evoca una risposta anticorpale cercando di espellerlo. Genitori, colleghi, studenti e amministrazione si coalizzano per allontanare il malcapitato. Il dirigente, non sapendo che pesci prendere si barcamena tra attendismo e sanzioni disciplinari; poi getta la spugna e convince il docente in questione a trasferirsi in un’altra scuola. Nel nuovo istituto la storia si ripete finché non accade l’episodio grave che attiva l’intervento ispettivo del Ministero. La successiva tappa di questo calvario si contempla di fronte al Collegio medico della ASL competente. La storia poi non finisce qui perché i collegi medici hanno le loro difficoltà: il paziente – sempre che si presenti a visita in quanto è sua facoltà sottrarvisi - sostiene nella gran parte dei casi di essere mobbizzato e presenta talvolta certificati medici compiacenti attestanti che “Non sussistono condizioni psicopatologiche in atto”. Il risultato finale è che la storia dura in media tra i 5 e i 10 anni e talvolta si conclude solo con la pensione di anzianità. Insomma è come il famoso gioco a carte “dell’uomo nero”, con la sola differenza che perdono tutti.

     - Nella sua indagine ha notato dei collegamenti fra l’età e lo stato di “sofferenza professionale” che ora viene comunemente denominato “sindrome del burnout”?

    Solitamente vediamo insegnanti con 20-30 anni di servizio. L’età media dei casi che si presentano a noi gravita intorno ai 50 anni.

      - Ha notato differenze tra insegnanti uomini ed insegnanti donne?

    E’ emerso un dato estremamente interessante. Infatti la letteratura scientifica ci dice che le donne si ammalano di patologie ansioso-depressive con frequenza doppia rispetto agli uomini. Al contrario noi abbiamo osservato una situazione di perfetto equilibrio tra i due generi. Questo può giustificare due ipotesi opposte, tutte da verificare, ma entrambe preoccupanti: la prima attribuisce alla professione un ruolo psichicamente usurante al punto da annullare le differenze tra i due sessi; la seconda si basa sul fatto che i maschi che abbracciano la professione siano già demotivati e depressi al momento dell’assunzione del ruolo. Probabilmente la verità si trova nel mezzo.

    - Ritiene dunque che possa essere contemplato per i docenti un percorso atipico? Magari non solo caratterizzato da una durata diversa o da un part-time appetibile,  ma anche da impegni individuali diversificati. Penso ad un docente che riduca il proprio orario  frontale (cioè con gli allievi) e si dedichi a quelle attività di supporto o collaterali in cui l’esperienza risulta oltremodo  preziosa…

    Questo sistema è stato adottato in altri paesi e potrebbe aiutare. Non è un caso infatti se su più di 3.500 casi osservati in dodici anni ci siamo imbattuti in un solo professore universitario che ha presentato una diagnosi di psicopatia. Le molte ore di docenza frontale sono uno dei principali fattori imputati ma certamente non l’unico. Per concludere ritengo che un problema come questo tocchi tutta la comunità. Nessuno si può chiamare fuori in quanto coinvolge le famiglie, i giovani, i docenti con i loro dirigenti e l’opinione pubblica. E proprio quest’ultima andrebbe informata per cancellare quegli stereotipi che possono arrivare persino a uccidere. Infine vanno informati e formati i medici – specialisti, generici, del lavoro e delle commissioni collegiali – sul fatto che quella degli insegnanti è una popolazione cui prestare particolare attenzione.

Gli studi condotti fino ad oggi sono stati possibili grazie all’impegno disinteressato dei ricercatori. Oggi occorrono fondi, istituzionali e non, per continuare la ricerca. La parola dunque passa alle istituzioni e alle parti sociali.

 Ringraziamo il Dottor Vittorio Lodolo D’Oria per la disponibilità 

(intervista a cura di Serafina Gnech - 3 ottobre 2003)