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Una bellezza nuova ma antica: la pratica dell’insegnare.

 

di Paola Cavallari Marcon

 
 

Poiché non hai domandato

 né ricchezze, né beni, né gloria, né la vita dei tuoi nemici,

ma hai domandato piuttosto saggezza e scienza

 per governare il mio popolo, su cui ti ho costituito re,

saggezza e scienza ti saranno concesse”

2Cr 1,11-12

 

“Ogni educazione si fonda su questo …noi stiamo costantemente dentro a

delle tradizioni e questo è sempre qualcosa che sentiamo come nostro…

Riconoscendoci nelle quali,  il successivo giudizio storico non vedrà  solo una conoscenza,

ma un appropriarsi di una tradizione…

così come si verifica nelle scienze dello spirito in cui la comprensione del passato tramandato

è (…vissuta] come qualcosa che interpella.

(Gadamer).

 

Franz Rosenzweig,  in un articolo apparso nel ’26 dal titolo “Bildung e nessuna fine”, esprimeva il suo profondo  rammarico poiché non si interveniva  con la fermezza dovuta a proposito di una  riforma sulla Bildung (formazione) nelle scuole ebraiche. E, lamentando che le cose andassero per le lunghe,ad un certo punto scriveva:

 “L’emergenza richiede l’azione. Più imperiosamente che mai. E non basta spargere il seme che, forse in un futuro remoto, si schiuderà e porterà frutto. Oggi si fa sentire il bisogno, oggi deve essere trovato il rimedio. Una terapia di artificiose vie traverse è inopportuna. Chi vuole aiutare deve spicciarsi altrimenti non trova più il paziente in vita”.  

Chi di noi non sottoscriverebbe – per la scuola italiana- quest’ appello, così appassionato,  di R. anche oggi?

Quale parlamento non voterebbe unanime una tale perorazione? Eppure è su quel  “le vie traverse” che ci si dividerebbe inesorabilmente. Perché si sa, la prognosi è: “il paziente è in fin di vita”. Ma l’anamnesi metterebbe a fuoco  eziologie assai dissimili,  e non solo non ci si accorderebbe sui rimedi, ma nemmeno – temo- si aprirebbero spazi per un “dialogo costruttivo” . 

E, nella consapevolezza di una tale urgenza educativa,ma anche nella bonaccia che caratterizza l’attuale  dibattito all’interno del mondo della scuola,  la Gilda  non rinuncia a farsi espressione di  una speranza: che si difenda:

1 una scuola del “sapere”; libera dall’ossessione avalutativa, ma che assuma il sapere come  fonte di significato per la vita, non deprivato, quindi, da un ordine di preferenze che lo alimenti.

2 una specificità del  ruolo dell’insegnante;

3 il  principio della Bildung o formazione, che è il valore cardine dell’insegnare.

Vuole difendere questo valore senza impaludarsi in “artificiose vie traverse”, ma affrontandone coraggiosamente il cuore: che è per noi rappresentato dall’idea di responsabilità etica, ovvero l’assunzione consapevole dell’opera di  formazione ai giovani. Tale formazione si articola i due momenti: 

 1  trasmissione della tradizione -l’“antico”- ,

2  attenzione per l’apparizione del “nuovo”: cioè dei nuovi soggetti e nuove ermeneutiche.

Sia salvaguardando che ridisegnando  ruoli e contenuti.  

1 Salvaguardando: perché nella tradizione, nella memoria conserviamo le nostre radici, nella tradizione si radica l’identità;  nel passato può prodursi l’humus per l’accoglienza del nuovo.

2 rinnovando, perché il presente deve trovare spazio, deve essere accolto e ospitato nella sua implicita ma pur germinante domanda di esistenza. 

Questo  mio contributo vuole affronterà un aspetto  parziale  nelle questioni che il convegno è chiamato ad indagare.

Io mi occuperò della dimensione  esistenziale del nostro lavoro. Ma per farlo prenderò come riferimento centrale un’autrice. Questa donna non è certo un’ “esperta”  in ambito educativo, ma – stando alle sue parole -più propriamente   è  teorica della politica:  è H. Arendt. 

Se  abbiamo bisogno di fare incontri giusti in relazione alla pratica dell’insegnamento, quello con H. Arendt  lo è come lo è il rintocco della campana a mezzogiorno: che è invito alla pausa e alla ri/creazione. Io  credo che il pensiero di H. Arendt su  i 2 aspetti che prima ho richiamato - modernità e tradizione nella formazione-  dentro la cornice di una società di massa, sia di grande aiuto. 

Recentemente, con l’apertura dell’anno scolastico, abbiamo potuto sentire come i media  si siano occupati delle vicissitudini della scuola, in Italia e all’estero. Un solo dato riferirò.  Abbiamo appreso, in verità senza molto stupore- ma comunque lo registriamo come un  altro segno dei tempi- che in Francia  si sono adottati nelle aule manuali di autodifesa dell’insegnante – “come difendersi dalla violenza”-   distribuiti dal ministero.  (La  Stampa di lun. 11 sett). Un segno, appunto.

Più in generale, oltre a statistiche, interviste a celebrità ed a esperti,   siamo per lo più  alla lamentela, alla cronaca del malessere.

Pochi sono i segni indicatori che l’affaire- educazione venga preso sul serio.

O meglio: dal lato giusto.  Che non è quello, per dirla con uno slogan: “nuove tecnologie e nuovi metodi”!!!

I tecnocrati infatti continuano a proporre  tecnologie avanzate, continuano a chiedere di inchinarsi di fronte alle neuroscienze, i cui ultimi ritrovati non verrebbero conosciuti dagli operatori della scuola, ma le  cui risorse e scoperte sarebbero risolutive, o certamente facilitatici...

E poi si suggerisce di  ampliare  gli spazi fisici, cioè gli ambienti dell’apprendimento: uscire dalle aule…. E  riformare le facoltà universitarie che sfornano docenti: svecchiare!! svecchiare  contenuti  e metodi;   e allestire nuovi corsi per impartire nuovi metodi,  dare avvio a nuove docenze per i nuovi corsi per nuovi metodi….

Metodologie, strumenti, strategie. Corsi e ricorsi  compulsivamente stregati dal richiamo sempre della stessa Sirena:  la Tecnica.  

Ma avverto –in modo un po’ rabdomantico- che  in qualche modo  sta germinando, ancora in sordina, ancore con forme sussurrate, balbettate,  un’altra domanda: sta spuntando una fame di beni immateriali, di senso.  

Spesso accade – come tutti sanno- che questa nostra civiltà trasformi vampiristicamente bisogni ontologici, vitali,  in domande di  prodotti, di merci, o in richieste di servizi o di “trattamenti” appositi, gestiti da personale “competente” appositamente creato ed offerto dall’Istituzione o da astuti enti privati. Di fronte all’offerta di rimedi dall’aspetto così “scientifico”, l’effetto è quello di reclamarne la presenza; tranne il fatto che poi, dopo la fruizione (costosa per le casse pubbliche) se ne  rimane  inappagati. e l’effetto finale è quasi sempre quello di non sapersene che fare. 

È invece un altro il punto  decisivo,  essenziale,  che va affrontato,  illuminato,  messo a tema: la consapevolezza nel proprio ruolo.

Nella cultura contemporanea  il nostro ruolo non  ha affatto  prestigio. Ma soprattutto  non ha nemmeno chiarezza; ha obliato, smarrito l’“idea”.  

Ciò a causa di vari motivi, tra i primi sono gli orientamenti tecnicistici, che ne hanno  oscurato, se non rimosso la  fenomenologia.

Ma la tensione, il desiderio di ri-conoscere  e stabilizzare dentro di noi  i confini di tale funzione, per guadagnare consapevolezza,  rimane un desiderio potentemente presente.  

E quindi indugiare a ragionare, interrogarsi sulle  forme (al plurale) del nostro ”ubi consistam”, sulla  consistenza ontologica della figura “insegnante”, oggi,  è uno snodo fondamentale di quell’urgenza di cui sopra dicevamo.

È viva  la necessità – credo-  di ricerche e studi, nonchè elaborazioni politiche, che si oppongano  con determinazione  a quelle che Rosenzweig ha definito “vie traverse”;  che vadano in direzione contraria  a quelle da cui siamo inondati . Ci occorrono ordini del discorso che ci aiutino ad autocomprenderci, riconoscerci in una “gravitas” - è H. Arendt ad evocare l’aura che detiene la gravitas per l’uomo dell’età passate-.

E non per guadagnarne un potere obsoleto,  un teacher- pride venato dalle ombre della frustrazione che reclama  un  riscatto.  Tutt’altro:  queste parole vanno invece  nella direzione di un cercare insieme, animato da serenità, misura, convincimento e ascolto reciproco.

Lo sforzo deve essere quello di mettere a tema quel senso essenziale, quel fondamento costitutivo al mestiere dell’insegnante, quel perno capace di portarne il peso, quella pietra testata d’angolo che funzioni  da baricentro, come la zavorra di una nave che mantiene tutto nell’esatto equilibrio.  

Che tale ricerca di senso sia da associare al concetto di autorità  è per Arendt evidente.

Nel saggio sulla crisi dell’educazione, (Die Krise in der Erziehung in Between Past and Future) un saggio del ‘54 che prenderemo in esame per la sua stupefacente attualità e profezia,  la crisi dell’insegnamento è assai  strettamente  imparentata  con la crisi del senso di autorità e contemporaneamente  con l’idolatria per la modernità.   

Nel saggio precedente sull’autorità, A. aveva delineato il cammino che il concetto d’autorità aveva percorso nell’occidente, ne aveva sottolineato il tramonto e il passaggio del testimone al valore del “nuovo”.  

Nel saggio sull’educazione, dopo l’analisi sui presupposti su cui si fonda la contemporanea crisi dell’istruzione delle scuole americane,  si approda al centro del  tema: il  senso profondo della scuola in ogni civiltà.

Esso si compone sostanzialmente di 2 questioni:

1 il nuovo e il vecchio: il bambino/ragazzo e il vecchio mondo in cui egli si inserirà.

2 la figura dell’adulto - genitore o insegnante- come essenziale  mediatore tra questi due mondi. 

Punto  1    L’allievo è un bambino/ragazzo che è venuto al mondo, in quel mondo dove noi adulti cresciuti, da tempo già siamo abitatori. Tale mondo  possiamo chiamarlo  il “vecchio”.  Il bambino /ragazzo è invece “apparso” al/nel mondo. Ed quindi  “il nuovo”.

I due poli della relazione : bambino / mondo sono in un rapporto dialettico, così come vecchio/nuovo  e così come pubblico/privato .  

Arendt  dice: il bambino, il nuovo,  va protetto dal  mondo. Ma reciprocamente anche il mondo va difeso dal nuovo, che è rappresentato dal bambino, che questo vecchio potrebbe offendere, deturpare, dissipare.

Entrambe la aree hanno qualcosa che deve essere salvaguardato perché potrebbe essere distrutto, ma entrambe hanno un potenziale nucleo  aggressivo ed ostile verso l’altra, e questo nucleo potrebbe ferire e nuocere all’altro polo.

Il bambino deve essere protetto nella sua sfera privata e non entrare in una dimensione pubblica.

Quest’ultima a sua volta non  può non essere identificata con quella comunità civile che ci ospita,  e in cui il mondo si fa attraverso noi. 

Il mondo ha una sua durevolezza/continuità  che non va considerata come un qualcosa di scontato, di “naturale”: il mondo dura/permane se noi sappiamo farlo durare. 

Occorre quindi comprendere il mondo sotto uno sguardo che non è quello della “naturalità” della quotidianità, ma  è quello del dono e della Festa. Arendt dice “prendersi cura del mondo”. Sento qui gli echi di  quell’atteggiamento tipicamente ebraico che indica “la santificazione della vita” come uno dei primi precetti. Per chi conosce Martin Buber, e la sua epica narrazione sui detti dei Chassidim, sa a cosa mi riferisco.  

Ma nello stesso tempo il mondo - lo spazio pubblico- rappresenta la dimensione degli scambi sociali pubblici, e questi si fondano su criteri inadeguati per chi è ancora in fase di crescita, la loro è una personalità non ancora formata, stabile,  e quindi assai vulnerabile.  Il bambino ragazzo non va esposto irresponsabilmente nello spazio pubblico. 

Spazi pubblici e spazi privati : un tema su cui Arendt ha insistito in molte sue pagine, soprattutto in Vita activa, dove la questione è messa in luce in parallelo all’analisi degli spazi  e soggetti della politica, partendo dall’epoca della Grecia classica.

Ma anche in questo saggio A. riprende un tema così prezioso per lei: “la società più completamente moderna  ha abolito ogni distinzione tra  il privato e  il pubblico”.

Pensate quanta preveggenza,  quanto acume profetico c’è in queste riflessioni!   La filosofa tedesca scriveva queste cose nel ’54.  E cosa   si direbbe    di  questo nostro tempo attuale, dove gran parte degli spettacoli televisivi di maggiore audience, i cosiddetti reality, hanno come architrave della loro impalcatura la messa in  scena, in  mostra di materia squisitamente privata: drammi,  conflitti, tormenti e ogni sorta di questioni  morbose   tra mariti e mogli, genitori e figli,  in cui gran parte dei protagonisti sono proprio adolescenti?   La spettacolarizzazione del privato è veramente il grande idolo dell’età in cui viviamo; ma se gli effetti sono patetici e/o nauseabondi per un adulto, per un bambini/ragazzo quegli effetti sono molto di più: sono spietatamente infausti. E non per una questione  morale, ma perché espongono il   giovane ad una confusione: raccontano di una realtà dove manca l’idea di separatezza, di contenimento tra  ambiti privati – dove ci si può affidare - e quelli pubblici -   dove è bene non affidarsi senza garanzie.  

 Punto  2   La scuola è il luogo dove  il bambino viene, in tempi delimitati, separato dal nido familiare per vivere a contatto con altre persone, che assumono un ruolo di riferimento, e quindi è luogo per eccellenza in cui il bambino    è introdotto nel mondo. “È l’istituzione che abbiamo inserito tra l’ambito domestico e il mondo, con lo scopo di permettere il passaggio dalla famiglia alla società”.

La novità che il bambino ha  manifestato nel suo apparire al mondo,  deve trovare  ospitalità e dimora.  Il fatto che egli sia “nuovo” nel linguaggio arendtiano significa che egli è un “unico”, perché l’Unicità distingue ciascun essere umano da tutti gli altri esseri umani, essendo ciò che è costitutivo della novità.

Sono gli educatori adulti ad assumere il ruolo di custodia di tale “novità”, ma non si tratta solo di custodia passiva. Saranno loro, - a mo’ di una ostetrica, seguendo la celebre metafora  socratica - a farla crescere e fiorire. “È  qualcosa che non c’è mai stato prima d’ora” : basta questo enunciato per farci cogliere quanta preziosa sia considerata da H. Arendt  quella vita in formazione qual è quella di un bambini. L’educatore è chiamato a stimolare lo sviluppo di qualità e talenti peculiari a ciascuno. E in ciò si è omogenei a tutto il sapere della paideia.

Ma  gli educatori sono le figure che , oltre a  presentare il mondo che si dischiude agli occhi, ne danno senso. E ancor di più, e qui sta il punto decisivo , non possono presentarglielo come qualcosa in cui essi  non sono affatto implicati, o per cui provano completo distacco o totale indifferenza.   “ (essi) rappresentano di fronte al giovane un mondo del quale devono dichiararsi responsabili, anche se non l’hanno fatto loro, e anche se, in segreto o apertamente, lo desiderano diverso. Questa responsabilità non è imposta d’arbitrio agli educatori: è implicita nel fatto che gli adulti introducono i giovani in un mondo (…) Chi rifiuta di assumersi la responsabilità in solido,-dice A.- non dovrebbe avere figli, né costituirsi parte attiva nell’educare i giovani”.  

“Assumersi responsabilità” è, qui, elemento di paideia distinto dall’altro, quello della conoscenza della propria disciplina.  Quest’ultima, che lei chiama “Qualifica”, è la qualità attraverso la quale si è in grado di istruire i giovani. Ma è la prima  quella per cui siamo chiamati a dire “respondeo”: non solo rispondo di ciò che insegno, ma anche rispondo del fatto che le cose del mondo siano così.  Questa è la  forte marcatura etica del pensiero di Arendt. “ Di fronte al fanciullo (l’educatore) è una sorta di rappresentante di tutti i cittadini adulti della terra, (che  dice ) <<ecco il nostro mondo!>>” 

È  come una sorta di giudice che nell’aula di giustizia  rappresenta la Legge:  anche se nel merito il contenuto di quella legge  specifica che dovrà applicare non gli dovesse  apparire perfettamente corretto (in relazione al caso giudiziario su cui si sta attuando il processo)  egli non si sottrarrà comunque, non abdicherà alla  funzione che la società gli ha assegnato. Quella legge che  lui impersona  è segno del cammino verso il Bene Comune che gli uomini intraprendono, che è il frutto dei  tentativi che essi sono riusciti a esprimere avvicinandosi il più possibile alla Idea di Giustezza.    

A questo punto, qualcuno di voi  potrebbe avanzare obiezioni e sentirsi irritato  in merito a questa  opzione politica, un’opzione che poterebbe sembrare un acritico ed ingenuo schierarsi dalla parte delle istituzioni, quasi un appello fondamentalista.

Queste affermazioni potrebbero apparire una nota stonata nell’orizzonte di un pensiero politicamente adulto e  democratico; e sembrare  scaturite  da un fervente estimatore dello “stato etico”,  piuttosto che  dalla filosofa che ha elaborato uno studio critico sulla nascita dei totalitarismi in Europa.

Ma Arendt non  ci invita a schierarci con le istituzioni, né con la comunità cui apparteniamo sempre e comunque. Negli scambi o relazioni col mondo adulto  queste considerazioni non sarebbero ammissibili. Nelle relazioni col mondo infantile c’è una asimmetria che non trova corrispettivo  nel mondo degli adulti e che non deve mai essere sottovalutata.  “C’è una superiorità assoluta degli adulti sui bambini – dice Arendt. Tale superiorità  non può e non deve esserci tra adulti. Là la superiorità  è temporanea; tra adulti invece – come per es. tra governanti e governati -  i rapporti sono stabili”.  Le 2 sfere vanno tenute presenti come universi diversi. 

In questo spazio asimmetrico che l’istituzione scolastica, se gli adulti si sottraggono all’autorità che  loro  spetta è quasi come dicessero : “In questo mondo anche noi non ci sentiamo a casa nostra: anche per noi è un  mistero come ci si debba muovere, che cosa si debba sapere, quali talenti possedere. Dovete  cercare di arrangiarvi alla meglio, e in ogni modo non siete autorizzati a chiederci conto di nulla. Siamo innocenti, ci laviamo le mani di voi”.

Se non ci assumiamo la autorità a cui siamo chiamati, il “tribunale della ragione” a cui A. si rifà, sembra chiamarci in correo.

Anche il “conservare” muta in relazione agli ambiti. Se in politica il conservare confluisce e slitta spesso nel conservatorismo (lo status quo),  con effetti  deleteri - perché il mondo è soggetto all’ irrevocabile distruzione del tempo, a meno che gli uomini non intervengano rimettendolo in sesto -, nell’educazione invece il conservare consente il dischiudersi di  quella novità irriducibile costituita dall’unicità dell’individuo. 

Questo mio contributo è  un  semplice spunto, un frammento  per incamminarci verso un itinerario che – nel solco tracciato da figure significative -  faccia un po’ di ordine nella matassa aggrovigliata del nostri bisogni.

Rosenzweig diceva che non basta spargere il seme. Ma noi no,  siamo meno ambiziosi. Vorremmo però che questo seme giungesse ad elaborare un Pensiero autorevole, un pensiero che, nutrito dalla riflessione sulla pratica e mai dimentico di essa, conferisca una forma evidente  e una stabilità  alla nostra pratica educativa: come premessa all’inveramento  di 2 speranze: quella di formare creature

1        assolutamente uniche,  capaci di responsabilità e di libertà, o meglio:  di libertà quindi – kantianamente-  di responsabilità.

2         capaci di cogliere la bellezza nuova e insieme antica che è depositata nel sapere, e di viverlo come un dono.   

 
 
 
 
 

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