LINEE ESSENZIALI
DELLA RIFORMA
Principi fondamentali
del federalismo fiscale (legge n.42 del 5 maggio 2009) sono
- da una parte - il coordinamento dei centri di spesa con i centri di
prelievo, che comporterà automaticamente maggiore responsabilità da parte degli
enti nel gestire le risorse. Dall'altra parte, la sostituzione della
spesa storica, basata sulla continuità dei livelli di spesa raggiunti l'anno
precedente, con la spesa standard.
Il federalismo fiscale per
diventare operativo necessita di una serie di provvedimenti che si snodano
nell'arco di 7 anni: 2 anni per l'attuazione e 5 di regime transitorio. Il
finanziamento delle funzioni trasferite alle regioni, attraverso l’attuazione
del federalismo fiscale, comporterà la cancellazione dei relativi stanziamenti
di spesa, comprensivi dei costi del personale e di funzionamento, nel bilancio
dello Stato. A favore delle regioni con minore capacità fiscale - così come
prevede l'art.119 della Costituzione - interverrà un fondo perequativo,
assegnato senza vincolo di destinazione.
Il federalismo fiscale
introduce un sistema premiante nei confronti degli enti che assicurano elevata
qualità dei servizi e livello di pressione fiscale inferiore alla media degli
altri enti del proprio livello di governo a parità di servizi offerti.
Viceversa, nei confronti degli enti meno virtuosi è previsto un sistema
sanzionatorio che consiste nel divieto di fare assunzioni e di procedere a spese
per attività discrezionali. Contestualmente, questi enti devono risanare il
proprio bilancio anche attraverso l’alienazione di parte del patrimonio
mobiliare ed immobiliare nonché l’attivazione nella misura massima
dell’autonomia impositiva. Sono previsti anche meccanismi automatici
sanzionatori degli organi di governo e amministrativi nel caso di mancato
rispetto degli equilibri e degli obiettivi economico-finanziari assegnati alla
regione e agli enti locali. L’attuazione del federalismo fiscale deve essere
compatibile con gli impegni finanziari assunti con il patto di stabilità e
crescita.
Queste in grande
sintesi le linee essenziali della riforma
che assume nel suo
articolato complesse revisioni delle competenze fiscali a favore degli enti
locali, comprendendo e riconoscendo le città metropolitane e il ruolo di Roma
Capitale.
COSA ACCADRA’ NELLA
SCUOLA?
Non è esplicitato nella
legge alcun rimando al sistema dell’istruzione se non con riferimenti generali
alla riforma del Titolo V della Costituzione con particolare riferimento agli
artt. 117 e 118.
Ricordiamo che per l’art. 117 restano a capo dello Stato le “norme generali
sull’istruzione”, è invece materia di legislazione concorrente Stato-Regioni
“l’istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione
dell’istruzione e della formazione professionale”. Quest’ultima rimarrebbe
quindi competenza esclusiva delle Regioni. La confusa definizione
costituzionale ha aperto numerosi contenziosi tra Regioni e Stato. E’ in questo
contesto importante ricordare la Sentenza della Corte Costituzionale n.13 del
2004 a seguito di una impugnativa della Regione Emilia Romagna con la quale si è
chiarito che alle Regioni spetta la programmazione della rete scolastica e
dell’offerta formativa e alla conseguente gestione delle risorse economiche con
l’esclusione di qualsiasi processo di devoluzione dell’intero sistema e del
personale dipendente statale. Ciò ha portato al recente accordo tra Regione
Lombardia e MIUR in merito alla cogestione dell’istruzione professionale
integrata statale-regionale. Si ricorda inoltre la recente sentenza della Corte
Costituzionale (n.200/2009) che chiarisce ulteriormente che l’organizzazione e
la razionalizzazione della rete scolastica è competenza delle Regioni e non
dello Stato.
I problemi che il
federalismo fiscale accentua nel comparto della scuola e della formazione sono
essenzialmente due:
·
L’introduzione del “costo standard per servizi e prestazioni” nella scuola
dell’autonomia. Su questo punto si gioca molto del futuro della scuola italiana
(come della sanità e di altri servizi essenziali del welfare). Come calcolare il
costo standard? A livello nazionale, macroregionale, regionale o sub regionale?
Poiché i costi nella scuola sono per il 90% costi del personale il rischio è
quello di introdurre surrettiziamente gabbie salariali o differenziazioni
territoriali stipendiali, con particolare riferimento all’accessorio. I costi
per il personale della scuola dello Stato dovrebbe rimanere incardinati nella
spesa statale centrale, fatto che salvaguarderebbe i livelli stipendiali minimi
garantiti dal CCNL, ma c’è sempre la possibilità che nei decreti attuativi
possano essere introdotte norme che consentono la differenziazione stipendiale
in base al costo della vita calcolato territorialmente.
·
Il concetto
di “costo standard” pesa molto sulla gestione patrimoniale delle scuole.
Ricalcolare a costi standard i livelli di manutenzione ordinaria e straordinaria
degli immobili scolastici (scuole dell’infanzia, scuola primaria e secondaria di
primo grado a carico dei Comuni, istituti secondari di secondo grado a carico
delle province o delle città metropolitane) può portare ad una maggiore
efficienza ed efficacia nella spesa, ma si rischia di costringere gli enti
locali delle regioni più o meno sviluppate e ricche di tagliare la spesa
corrente e in conto capitale prevista, fatto accentuato dai meccanismi di
penalizzazione per gli enti e gli amministratori locali in caso di mancato
rispetto dei parametri previsti. Oppure può portare ad una sorta di fiscalità
accessoria finalizzata e funzionale alla copertura di specifici servizi.
PROGETTO APREA E “QUOTE
CAPITARIE”
Insieme agli indirizzi
politici generali previsti dalla riforma bisogna prendere in considerazione le
varie proposte di riforma scolastica che interverrebbero sulla questione
federalista. Si pensi ad esempio al progetto Aprea che prevede che ogni singola
regione e provincia autonoma attribuisca le risorse finanziarie pubbliche
disponibili alle istituzioni scolastiche accreditate, sulla base del criterio
principale della « quota capitaria», individuata in base al numero
effettivo degli alunni iscritti a ogni istituzione scolastica, tenendo conto del
costo medio per alunno, calcolato in relazione al contesto territoriale, alla
tipologia dell’istituto, alle caratteristiche qualitative delle proposte
formative, all’esigenza di garantire stabilità nel tempo ai servizi di
istruzione e di formazione offerti, nonché a criteri di equità e di eccellenza.
Per calcolare le “quote
capitarie” o individuare modelli di costo standard si dovrebbero prendere come
punto di riferimento i dati relativi ai costi storici, depurarli e ponderarli
con nuovi parametri, tutti da definire. Un lavoro che è solo apparentemente
tecnico ma che ha importanti risvolti politici.
Ad esempio se prendiamo in
considerazione i dati delle regioni a statuto ordinario (fonte Un.Bocconi 2008)
saltano agli occhi differenze vistose di spesa. Si va dal Veneto con un costo a
valore annuo di € 5.146 al Lazio con costo di € 8.122 Se poi si fanno i
confronti sui valori pro capite per residente o, più scientificamente per
popolazione in età 3-18, le differenze diventano ancora più percepibili nei
termini di pressione ed equità fiscale generale.
Nella legge sul
federalismo dovrebbero essere garantiti i “livelli essenziali” nel rispetto di
criteri di efficienza della gestione della spesa. Come sta accadendo nella
sanità dovrebbero quindi essere prese come riferimento alcune regioni per
calcolare il costo standard medio degli allievi a seconda della tipologia
scolastica. Su tale costo potranno essere calcolati coefficienti di
compensazione agganciati a specifiche questioni territoriali e sociali. Il
problema politico è che se venissero prese come parametro regioni come il Veneto
o la Lombardia salterebbe probabilmente tutto l’assetto finanziario
dell’istruzione in Lazio o in Calabria.
(27 luglio 2009)
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