Scuola: merito e gerarchia. Una ricetta vincente?

Che la Confindustria e Cofferati, leader della Cgil,  andassero a braccetto ce n’eravamo accorti tutti.

“Il punto decisivo è l’incentivazione del merito”, scrive Maurizio Sorcioni nel Sole 24 ore del 16 settembre. Decisivo per che cosa? Per migliorare la qualità della nostra scuola, che registra, egli precisa, un’ampia quota di analfabeti funzionali. E scatta l’equazione, che fa risalire al ridotto tempo di lavoro degli insegnanti italiani, e  soprattutto alla mancanza di prospettive di carriera, mancanza  che sarebbe all’origine di una generale demotivazione, la scarsa preparazione degli studenti.

Ed ecco spuntare  la  richiesta della Cgil: “stanziare risorse complessive da rendere disponibili con l’integrativo in un arco di tempo pluriennale”(La Stampa del 16 settembre). Ora, va chiarito che queste risorse andrebbero  a confluire nell’art. 38 del contratto integrativo, che fa riferimento al 29 del CCNL, relativo agli aumenti per “merito”, ovvero al “concorsaccio” . Non esclude peraltro Cofferati (bontà sua!) la possibilità di dare degli aumenti non collegati al merito, come riconoscimento del contributo professionale degli insegnanti.

Un colpo al cerchio, uno alla botte, dunque. Un contentino per tutti, all’approssimarsi delle elezioni politiche e delle RSU, senza però rinunciare al principio del merito.

Terreno minato, quello del merito, dopo la grande sollevazione degli insegnanti del 17 febbraio, che ha visto Gilda e Cobas protagonisti della protesta. E su questo terreno ora Snals e Cisl, che pure hanno firmato il contratto 26/5/1999 ed hanno partecipato alla stesura dell’integrativo (da cui la Gilda è stata esclusa), fanno un passo indietro: i tempi non sono maturi, sostengono. E Daniela Colturani (Cisl) non esita a definire  mistificatrice la logica “che porta ad affermare come solo il riconoscimento del merito e dell’eccellenza può essere lo strumento per elevare la qualità della scuola”(La Stampa del 16 settembre).

Che si tratti di una logica mistificatrice, ce lo dimostrano i fatti. O meglio i risultati ottenuti (faremmo meglio a dire non ottenuti) nelle scuole inglesi, dove dal 1988 ha fatto il proprio ingresso la  logica aziendalistica, avviata da Margaret Thatcher.

Una ricetta vincente, a detta dell’allora primo ministro, che annovera ora, fra gli ingredienti, un enorme impegno quantitativo dei docenti, la delineazione di una carriera di tipo gerarchico, premi di rendimento per i migliori (vedi il recentissimo avvio della performance pay, che prevede un premio di 6 milioni annui per i migliori), l’attivazione di serrati meccanismi di controllo della produttività dei singoli docenti e delle scuole.

I docenti inglesi hanno un tempo di lavoro che supera le 1265 ore annue, un impegno dunque superiore a quello dei loro colleghi svizzeri e olandesi, in testa alla classifica. All’interno delle scuole c’è una precisa struttura gerarchica, che vede, a fianco dei normali insegnanti di classe (qualified teacher) e degli insegnanti con competenze a livello avanzato (adavanced skills teacher), dei docenti senior (senior teacher), che formano lo staff dirigenziale. Senza parlare ovviamente dei vicari (deputy headteacher) e dei capi d’istituto (headteacher). Dal 1993 vengono effettuate ispezioni in tutte le scuole, e dal 1996 vengono assegnati agli insegnanti dei voti in una scala da uno a sette. Meritocrazia e controlli a tutto campo, dunque.

Eppure non funziona.

Il Guardian del mese di marzo 2000 riportava la preoccupazione di Tony Blair e del ministro dell’istruzione David Blunkett per il bassissimo livello di preparazione degli studenti delle scuole pubbliche inglesi, preoccupazione che ha poi dato il via all’ultima gara: quella per la performance pay,  per l’appunto.

L’analisi sui motivi di questo fallimento sarebbe lunga e complessa e non può certo essere condotta in questa sede. L’eclissi dell’educativo, ovvero la progressiva abdicazione degli adulti dal loro ruolo di educatori, la distruzione di ogni meccanismo di selezione-orientativa all’interno della scuola, il disfacimento del concetto di dovere, che nel processo educativo tradizionalmente si coniugava a quello di  diritto, sono solo alcuni degli elementi che andrebbero seriamente analizzati.

Quel che è certo comunque è che ricondurre la scarsità dei risultati al tempo lavoro dei docenti ed alla mancanza di prospettive di “carriera” (nelle scuole tedesche ed austriache, notoriamente di ottimo livello, il tempo lavoro dei docenti è pari, e forse inferiore, a quello dei docenti italiani) può risultare politicamente utile ma è senz’altro intellettualmente scorretto.

Un invito a Cofferati e al Preside Panini:  si ragioni sulla scuola e sui docenti partendo dalla scuola e dai docenti;  perlomeno non si mascherino con belle parole obiettivi di tutt’altra natura, che poco o  nulla hanno a che vedere con la qualità della scuola. Ma molto hanno a che vedere con il gioco politico della gestione del potere

 

Serafina Gnech

18/09/2000