Uno dei problemi principali che si pone nel progettare un sistema di
valutazione è quello delle fonti da cui deve esso attingere nelle sue varie
articolazioni (input) e quello della destinazione e dell’uso del suo lavoro
(output). A questo va aggiunto il problema dell’uso degli input, inclusi
quelli che il sistema di valutazione costruisce con il suo stesso lavoro. Al
riguardo non condivido l’idea diffusa secondo cui «la scelta e la
definizione delle prove spetta all’autonomia scientifica dell’Istituto» (in
buona sostanza, all’Invalsi). Essa è corretta in termini stretti, ma ritengo
che non ci si possa esimere da una definizione precisa dei metodi che
debbono essere applicati dall’Istituto (altrettanto dicasi per la componente
esterna di valutazione, ovvero per il sistema di ispezione). Altrimenti si
rischia di costruire una struttura di cui non è chiara l’utilità e che può
benissimo risolversi nella creazione di un gigantesco e dispendioso
carrozzone che non assolve alcuna funzione utile nella valutazione del
sistema dell’istruzione, acquisendo dati di scarsa utilità, elaborando
valutazioni inattendibili e, in fin dei conti, fornendo elementi che
rischiano di essere persino fuorvianti.
Un esempio di carattere generale è rappresentato dal dato della dispersione
scolastica, degli abbandoni o delle “bocciature”. A mio avviso, tale dato
viene usato in alcune procedure di valutazione in modo assolutamente
superficiale e poco responsabile, poiché esso non ha soltanto una fortissima
dipendenza sociale e territoriale che rende i dati spesso non omogenei e
inconfrontabili. Ma, soprattutto, è banale che la consapevolezza di essere
valutati mediante il fattore “abbandoni” o “insuccessi scolastici” produca
un effetto immediato, che è quello di abbassare l’asticella della
valutazione, promuovendo tutti. Ho potuto sperimentare in modo diretto
questo effetto all’università, dove l’introduzione del parametro “laurea in
tempo” ha immediatamente prodotto un effetto di promozione di massa.
Pertanto, trovo necessario che sulla questione delle informazioni di tipo
amministrativo si diano indicazioni generali che escludano parametri che
interferiscano con la qualità dell’insegnamento.
Tipi di test e limiti connessi
Vorrei tuttavia soffermarmi su una questione più di merito che riguarda i
test, ovvero il tipo di test da usare e i limiti che ci possiamo
generalmente attendere da test a risposta chiusa, gli unici che possono
essere adatti a una valutazione quantitativa, poiché nel caso di risposte
aperte è evidente che la valutazione non può andare oltre la classica scala
del voto.
Qui sono costretto a tornare su una questione che ho sollevato più volte,
ovvero che non bisogna farsi troppe illusioni circa la possibilità di
raggiungere valutazioni “standard”, “oggettive”, “esatte”, basate su
“misurazioni di prestazioni qualitative”, ecc. Prego di riflettere
sul fatto che non si tratta di una diatriba accademica o ideologica, ma di
una questione che ha implicazioni pratiche estremamente concrete, come
cercherò di mostrare con qualche esempio. Ritengo che non si possa
passare sopra le modalità della valutazione, finendo con l’ignorare che -
come dicevo prima - rischiamo di avere in mano risultati privi di qualsiasi
utilità.
Uno dei pochi casi in cui si può parlare di una valutazione “oggettiva”
e grossolanamente quantificabile delle capacità dell’alunno, è quello
dell’ortografia e della grammatica e, entro certi limiti, anche della
sintassi. Non appena si va oltre, ovvero sul terreno della capacità
espressiva e dello stile, il ventaglio delle capacità si allarga a un punto
tale che è difficile costruire una scala di merito esente da giudizi
qualitativi con forti componenti soggettive.
Ho raccolto scetticismo riguardo la mia tesi secondo cui anche nel caso
della matematica
le indicazioni fornite dai test sono estremamente limitate. Voglio motivare
con alcuni esempi questa affermazione: le implicazioni sono rilevanti,
perché mostrano a cosa possono servire i test.
Chiunque abbia una sufficiente esperienza di insegnamento della matematica
sa che
la risoluzione corretta di un problema proposto (ottenimento del risultato
esatto con procedure corrette) è una componente di base minima nella
valutazione. Diciamo che essa rappresenta niente più che la “sufficienza”.
Al di là di questo livello minimo, vi sono molti fattori: e, in
particolare, la scelta della metodologia più adeguata ed efficace. Questa
efficacia è quella che in matematica viene spesso chiamata “eleganza”
nella procedura che non è affatto un fattore meramente estetico, bensì
espressione delle capacità di uso autonomo e persino originale delle
conoscenze acquisite e riflette la creatività e autonomia dello studente
(proprio quel livello generalmente incluso nelle “competenze”). Il ventaglio
di queste capacità può essere molto ampio. Sarebbe un grave errore
ritenere che ciò si manifesti soltanto a livelli superiori. Al
contrario, esso si manifesta fin dai primi contatti con l’apprendimento
della matematica. Due esempi e alcune osservazioni.
Esempio 1.
- Un problema posto a un gruppo di bambini della scuola elementare (quarta):
un sommozzatore è sceso 8 metri sott’acqua; scende ancora di 4 metri e poi
risale di 9; a quanti metri sott’acqua si trova dopo queste manovre? Un
problema del genere può ovviamente essere dato come test a risposta chiusa.
La risposta esatta è stata conseguita dalla maggioranza dei bambini con
procedure assai diverse: c’è chi ha semplicemente tradotto il problema in
somme e sottrazioni; c’è chi addirittura ha ragionato in termini di numeri
negativi, avendo evidentemente acquisito tale conoscenza in altra sede; c’è
chi ha invece fatto ricorso a una rappresentazione grafica, del tipo
ordinata cartesiana, pur non avendone esplicita consapevolezza, il che è
ancor più significativo. Tralascio altre soluzioni. In generale, osservo che
in molti casi, semplicissimi problemi danno luogo a un numero impressionante
di risposte diverse. La valutazione della risposta al problemino precedente
in termini di correttezza numerica dice certamente qualcosa circa
l’esistenza di conoscenze di base tali da portare alla soluzione esatta, ma
poco assai circa le capacità (o “competenze”) nella risoluzione del
problema. Personalmente considererei il procedimento migliore quello
geometrico-intuitivo perché dimostra capacità autonome e un’inventiva
notevole da parte del bambino, e porrei al secondo livello il secondo e
all’ultimo il primo. È probabile che altri insegnanti la pensino,
legittimamente, in modo diverso. Ma quel che è certo è che una
“somministrazione” (come si dice con linguaggio lassativo) del
problema sotto forma di test, occulta in modo completo gran parte degli
aspetti che vengono fatti rientrare comunemente sotto la voce “competenze”,
perché ignora il modo con cui si è giunti al risultato corretto, e produce
una valutazione sommaria, elementare e appiattita sulla voce “conoscenze di
base” e capacità elementari di applicarle. Potrei produrre molti altri
esempi di questo tipo ma mi limito a questo tanto per dare un’idea.
Esempio 2.
- Nel corso di una procedura di valutazione sui “fondamenti e didattica
della matematica” per un’abilitazione di insegnanti della scuola primaria
che, dato il numero molto elevato di concorrenti, si è dovuto svolgere con
test a risposta chiusa, si è svolta una approfondita discussione circa le
modalità da seguire; discussione che ha visto la partecipazione di docenti
universitari specialisti di tecniche docimologiche. Pur ammettendo la
necessità inevitabile di ricorrere ai test chiusi, il parere unanime è che
essi non potevano fornire altro che indicazioni estremamente rozze e di base
tali da non accertare altro che il possesso di conoscenze elementari e di
capacità elementari di farne uso, tali da non poter garantire altro che il
futuro maestro conoscesse i concetti elementari della matematica e non
commettesse errori di ragionamento clamorosi. Un esempio di test del genere:
si consideri l’insieme dei numeri pari e l’insieme A dei numeri {1, 2, 3, 4,
5, 6}. Qual è l’intersezione? Risposte possibili: A, 2, {2, 4, 6}, l’insieme
vuoto. Lascio a voi giudicare quale livello di conoscenza del sistema dei
numeri interi si ricavi da un simile test, salvo la verifica indiretta che
il maestro sappia cosa sia un numero pari.
Osservazione.
- Nel corso di una discussione approfondita con esperti di valutazione a
livello istituzionale si è concordemente ammesso che i test a risposta
chiusa in matematica forniscono indicazioni estremamente limitate. Tali
indicazioni si riducono, ai vari livelli scolastici, nella rilevazione di un
possesso elementare delle nozioni richieste dai “programmi” e da una loro
capacità basilare di applicarle. Es: nelle elementari, le tabelline, la
conoscenza delle operazioni numeriche e le loro regole fondamentali, la
conoscenza di alcune definizioni geometriche, di alcune formule delle aree o
dei perimetri, ecc. Ma non riflettono in alcun modo le capacità autonome e
quindi quei livelli che sono significativi per individuare una significativa
qualità degli apprendimenti. Peraltro, non appena si sale a livelli
superiori (licei) un problema matematico può essere risolto in moltissimi
modi diversi difficili da collocare in una scala di qualità, se non con un
giudizio qualitativo la cui traduzione quantitativa (rozza) non va oltre il
voto. È superfluo inoltre dire che, se la valutazione del test può essere
standardizzata in modo completo, la scelta dei test contiene un elemento
soggettivo fortissimo, come mostra l’esempio 2 (siamo tutti d’accordo che un
livello del genere e una simile domanda sia utile a stabilire la adeguatezza
a insegnare la matematica nelle primarie?).
Una discussione analoga sul sistema dei test per altre materie molto più
“qualitative” mostrerebbe criticità ancor più evidenti.
Tutto ciò per concludere che il sistema dei test
non è da proscrivere ma bisogna essere perfettamente consapevoli che esso
non può andar oltre il rilevamento di un livello di “literacy” e “numeracy”
minimale. Esso può consentirci di verificare se il sistema scolastico forma
dei giovani al di sopra di una soglia minima sul piano soprattutto delle
“conoscenze”, molto meno sul piano delle “competenze” - adotto questa
distinzione che non mi appassiona affatto, e quanto precede può far intuire
perché. Sarebbe un grave errore attendersi qualcosa di più.
L’ Invalsi e la valutazione dei docenti
Nello specifico ritengo che l’Invalsi si sia mosso recentemente in modo
accettabilmente “moderato”, utilizzando il sistema dei test cum grano salis.
Ho anche apprezzato l’approccio ragionevole dei tecnici che vi lavorano e,
in particolare, il non attribuire un valore salvifico e assoluto alle
statistiche su un tema così intriso di aspetti soggettivi e qualitativi qual
è il sistema dell’istruzione. L’auspicabile potenziamento dell’Invalsi, che
può consentirgli di estendere la rilevazione mediante test all’intero
sistema, non deve - a mio avviso - modificare la struttura istituzionale e
l’approccio metodologico seguito. Anzi, è bene che contenga qualsiasi
propensione ad ambizioni totalizzanti.
Se quanto precede è vero nel caso della valutazione degli apprendimenti
degli allievi, esso è ancor più vero nel caso della valutazione dei docenti,
come già osservato nel contesto dell’Esempio 2. Per quel che riguarda i
compiti dell’Invalsi, ritengo che esso debba restare rigorosamente fuori da
una valutazione dei docenti, se non, al limite, anche qui con test di base
volti a individuare la presenza di elementi di minima decenza. Può
fornire invece elementi di valutazione delle scuole nel loro complesso,
integrando i test di base (nei limiti anzidetti) con tutte le informazioni
provenienti dal livello amministrativo, ma con rigorosa esclusione di
parametri fasulli e fuorvianti come abbandoni scolastici e “insuccessi”
formativi.
Proposta sulla valutazione dei docenti.
Da quanto precede deriva una conseguenza concreta: la valutazione dei
docenti - elemento di grave criticità e di notevole urgenza, come osservato
nel documento - deve essere affidata alle ispezioni.
Queste ultime non debbono avere soltanto il compito di valutare il singolo
istituto scolastico e il suo dirigente, ma anche i singoli insegnanti.
Anche qui occorre liberarsi di alcune scorciatoie illusorie che possono
rendere il sistema di valutazione semplice quanto inefficace e fonte di veri
e propri errori. Alludo, in particolare, all’idea circolante di fare degli
“utenti” - studenti e famiglie - i principali attori della valutazione della
scuola e dei docenti. È, ripeto, una soluzione facile: basta distribuire
schede di valutazione. Lo si fa già da tempo in diverse università, per
fortuna senza effetti pratici ovvero a scopo puramente sperimentale, con
risultati tra l’inquietante e il grottesco; soprattutto se tale sistema
viene fatto in regime di anonimato. Non intendo soffermarmi sui
numerosissimi esempi negativi che è facile immaginare. Vale qui la
considerazione generale che ci troviamo in un contesto che favorisce quella
mentalità secondo cui troppi genitori si fanno “sindacalisti” dei figli e
hanno come principale intento ottenere il massimo della valutazione in
cambio del minimo impegno, costringendo talora a cedimenti i dirigenti
scolastici soggetti a maggiori pressioni. Potrei produrre un’ampia
documentazione di lettere di insegnanti e anche di dirigenti oppressi da
questa situazione. Essa deriva da un’idea banalmente sbagliata e cioè che la
scuola sia un’azienda fornitrice di beni e servizi e studenti e famiglia
l’utenza. Ma il processo di formazione che la scuola realizza non è né un
bene né un servizio che possa essere valutato in termini di “customer
satisfaction” come si giudica il barattolo di conserva fornito dal
supermercato o la qualità del servizio fornito da uno sportello bancario.
Se la conserva è deteriorata è mio diritto chiedere il risarcimento, ma la
bocciatura non equivale a una conserva deteriorata: può anzi riflettere
un’attività formativa rigorosa e valida.
Pertanto, il sistema migliore di valutazione dell’istituto scolastico e
dell’insegnante è quello condotto dai competenti in materia, non da chi può
aver interesse a ottimizzare una funzione di utilità che mira a ottenere il
massimo risultato col minimo sforzo. Come è stato giustamente osservato da
un imprenditore a un recente convegno confindustriale cui sono intervenuto,
una buona scuola è quella che stimola il bravo studente a studiare di più e
quindi a trovare nel successo motivi per andare avanti e non quella che
stabilisce “benchmark” standardizzati e persegue in tal modo
l’appiattimento, magari verso il basso, per ottenere il successo formativo
garantito. Questa non è una scuola meritocratica e risponde a criteri
caratteristici di una società non liberale.
Siamo pertanto ricondotti al sistema delle ispezioni. Da quanto precede,
discende anche una risposta alla questione se occorra seguire il modello
Ofsted oppure no. Ritengo che il corpo degli ispettori non debba essere
un’autorità indipendente a quella maniera, se pure deve godere di
caratteristiche di indipendenza indiscusse. Penso che il modello migliore
sia quello di un corpo composto da ispettori e dagli stessi insegnanti
(beninteso quelli qualificati allo scopo), e da altre eventuali figure come
insegnanti pensionati, universitari, ecc. - anche se molte questioni sono
aperte e da discutere in dettaglio: come conferire il “patentino”, chi lo
deve conferire, come costituire le commissioni d’ispezione, ecc.
Poiché la funzione delle ispezioni deve assolvere proprio a quei compiti non
facilmente standardizzabili mediante test, questionari ed altre procedure
del genere è bene che essi siano definiti in modo preciso, ma non mediante
griglie meccaniche che riproducano surrettiziamente la procedura dei test. È
necessario che venga definito in modo preciso e analitico l’insieme di tutti
gli aspetti che l’ispezione deve esaminare, che venga fatto un elenco
preciso ed analitico delle risposte che essa deve dare, ma non è affatto
opportuno che il tipo di risposte sia standardizzato, altrimenti ci priviamo
ancora una volta della possibilità di ottenere un giudizio autenticamente di
merito. In altri termini, penso ad una relazione dettagliata e “libera”
nello stile e nei contenuti, anche se, evidentemente, rispondente a un
insieme di quesiti che si ritengono necessari per avere tutti gli elementi
che sono stati stabiliti come significativi per una valutazione completa. È
esattamente il tipo di procedura che viene seguito, per esempio, da una
commissione di valutazione di un’università di tecnologia francese, di cui
faccio parte e che ha iniziato i suoi lavori in questi giorni, e non vedo
alcun motivo per cui una procedura del genere non possa essere applicata a
un istituto scolastico.
Quanto ai destinatari del processo di valutazione - espresso quindi in
relazioni d’ispezione dettagliata, prevalentemente verbali e di contenuto -
penso che i referenti debbano essere: a) scuole stesse; b) Ministero; c)
assessorati regionali. Trovo anche ragionevole l’idea della costituzione di
una Direzione generale per la valutazione che però non abbia né composizione
meramente burocratico-amministrativa né di “esperti” non meglio
qualificati. In un sistema dell’istruzione come il nostro soltanto in
questo contesto può prendere forma un sistema di premialità del merito.
Tuttavia, anche questo è un aspetto estremamente delicato da approfondire.
Quel che mi sembra fondamentale assumere come punto di vista è che il
processo di valutazione deve essere inteso come un processo culturale e non
come un processo manageriale. Il secondo prevede la definizione di
standard o obbiettivi predeterminati su cui gli “esperti” misurano i
comportamenti virtuosi o meno del sistema. È persino da discutere se un
processo del genere sia davvero efficiente persino nel caso di un’azienda:
anzi, è ben noto che molti esperti del settore lo considerino del tutto
inefficiente anche dal punto di vista aziendale, con buona pace degli
ex-ingegneri McKinsey. Ma quel che è certo è che esso è totalmente
inadeguato in un sistema i cui contenuti sono culturali, non misurabili, non
passibili di una definizione oggettiva affidabile alla gestione di “esperti”
esterni. D’altra parte, perché sia realmente efficiente, e non una
foglia di fico, la valutazione deve investire con la massima energia e il
massimo rigore l’intero sistema in un processo di feed-back di giudizi che,
a loro volta, rimettano continuamente in discussione i criteri stessi di
valutazione e permettano il loro continuo raffinamento. Un processo aperto,
dunque, che rivitalizzi l’intero sistema sottraendolo ad ogni forma di
gestione burocratica e standardizzata che, in questo specifico contesto,
rischia di andare incontro a un rapida sclerotizzazione.
Valutazione e formazione in servizio
Viene ora la questione del terzo pilastro del sistema di valutazione
prospettato in varie proposte, ovvero la formazione in servizio. Su questo
per ora non mi soffermo perché mi pare che vi sia già abbastanza carne al
fuoco. Come unico elemento generale mi sentirei di sottolineare il principio
che, anche in questo caso, è da evitare la concentrazione dell’intero
processo nelle mani di un organismo autoreferenziale. Esso dovrebbe avere
piuttosto una funzione di coordinamento, questa sì necessaria, dei soggetti
inevitabilmente coinvolti nel processo di formazione in servizio e che sono,
in primo luogo, il mondo stesso della scuola e l’università. Al riguardo,
osservo che il fatto che l’università non si sia comportata bene
manifestando scarso interesse per questa tematica, non è un buon motivo per
escluderla da una funzione che deve essere inclusa nei suoi compiti
istituzionali. L’università è una sede elettiva per contribuire al processo
di aggiornamento agli sviluppi più recenti e significativi. Non si vede, del
resto, perché il ruolo dell’università debba essere considerato ovvio e
scontato sul terreno metodologico - con la partecipazione finora massiccia
di pedagogisti e cultori di didattica disciplinare - e debba invece essere
esclusa sugli altri piani (con una divisione di piani ancora una volta
sbagliata).
A me pare che la funzione di un ente come quello prospettato debba essere
soprattutto quella di selezionare e garantire la qualità dei contributi alla
formazione in servizio, il loro livello culturale. Non si vede perché debba
esistere - com’è giusto - una forma di accreditamento delle commissioni di
ispezione, e invece i contributi alla formazione in servizio siano fuori
controllo. Posso ben comprendere tutte le legittime diffidenze nei confronti
di una gestione statalista. Ma sarebbe bene prendere atto del fatto che la
sbilenca autonomia di cui gode la scuola - troppa su certi terreni, nulla su
altri - ha già aperto la strada a esperienze di aggiornamento selvagge che
esprimono i peggiori difetti di una situazione del tutto fuori controllo.
Anche qui non voglio affliggere con esempi, che potrei produrre a iosa. Ma è
sufficiente un esame anche superficiale per constatare che molte scuole
consigliano assai insistentemente - per la pressione congiunta di alcune
associazioni sindacali e professionali - la “consulenza” di certi “esperti”
o gruppi di “esperti” che vanno per tutta Italia a tenere corsi di
aggiornamento a pagamento. Si dà il caso di corsi di aggiornamento di
matematica - mi scuso per l’esempio, ma è il campo che conosco meglio -
tenuti al costo di 15-20 euro per partecipante e un ciclo di 6-8 lezioni i
cui programmi e contenuti costituiscono un autentico scandalo e un
contributo massiccio all’opera di degrado culturale della nostra scuola. È
evidente che le persone che gestiscono queste iniziative sono anche le più
attive nel promuoverle. Riuscire a contenerne gli effetti negativi è
estremamente faticoso e difficile.
È quindi necessario che l’autorità prospettata abbia una funzione di
coordinamento e accreditamento garantita da commissioni di alta e indiscussa
qualità scientifica e culturale, soggette a rinnovamento periodico e che non
siano mera espressione di gruppi d’interesse. A mio avviso, il principio che
deve essere seguito - e che è costantemente capovolto nella nostra sbilenca
autonomia - è: massima libertà metodologica e minima licenza sul piano dei
contenuti. Non vedo perché un istituto scolastico non debba poter scegliere
liberamente entro la più vasta offerta di contributi all’aggiornamento e
formazione in servizio, ispirata alle metodologie e alle impostazioni
culturali preferite - e poi sui risultati si valuterà l’opportunità della
sua scelta. La condizione minima è che l’“offerta” sia sempre di qualità
accertata e indiscussa sul terreno di quei requisiti di serietà, conoscenza
che sono richiesti a qualsiasi studente per procedere nei suoi studi o a
qualsiasi insegnante per abilitarsi ed esercitare la professione. |