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Scuola: Lucio Russo e Mario Pirani a Venezia

 
 

DUE “LETTURE”, UN UNICO NO A QUESTA RIFORMA

 
 

Lucio Russo e Mario Pirani sono stati i  principali relatori del Convegno “Il dibattito proibito”, tenutosi a Venezia il 3 aprile 2001, presso il Salone della Scuola Grande di San Giovanni Evangelista.

L’iniziativa, promossa dal Liceo Ginnasio Statale “Marco Polo”, ha visto presenti docenti veneziani e non, tutti attratti dal tema e dalla simpatia che circonda l’ormai famoso autore di Segmenti e bastoncini e l’illustre editorialista del 7 in condotta.

Il loro è un linguaggio dalle risonanze umane profonde, un linguaggio che viene dalla cultura, ma si rivolge soprattutto alla sensibilità, al sentire d’ogni giorno, al vivere quotidiano nella scuola.

Con un grande rispetto, in entrambi, per il valore intrinseco del pensiero. Quasi un culto.

Ed è questo che li ha spinti a porsi dei perché e a cercare una risposta.

 
 

Lucio Russo: una riforma che toglie alla scuola ogni possibilità di essere strumento di mobilità sociale

Preso atto che la riforma della scuola, alla quale ci si accinge a dare l’avvio, va nella direzione dello svuotamento dei contenuti e che questo processo riveste innegabilmente un carattere sovranazionale, ne vanno cercate le cause - premette Lucio Russo

Il fenomeno è indipendente dalla contrapposizione politica. Se vogliamo metterci nella logica di cercare le “colpe”,  ebbene, dobbiamo dire che esse non vanno tanto ricercate nelle sedi dei partiti o dei ministeri vari, quanto nell’indifferenza della “classe intellettuale” italiana.

Ma , a prescindere da questo, su quale base si innesta questa  discussa riforma?

E’ in atto una crisi della cultura disinteressata o, se vogliamo, della cultura non immediatamente utile, crisi che trascende la scuola perché è  la società, prima ancora della scuola, che pone per prima al proprio centro il criterio dell’utile. E’ altrettanto evidente che si sono verificate delle trasformazioni nel mondo dell’economia che tendono a polarizzare le conoscenze ed a renderne irrilevante ed inutile la larga diffusione.

Sembra che questa riforma sferri un attacco rivolto in particolare alla cultura classica, allo studio del latino, del greco e della filosofia e che la cultura scientifica venga esaltata o perlomeno salvaguardata. Non è così, in realtà. Anche la cultura scientifica viene colpita, salvo salvaguardarne l’etichetta. Ma di pura etichetta si tratta in realtà: in matematica siamo di fronte alla strisciante scomparsa del metodo dimostrativo... ciò equivale a colpire non tanto e non solo le discipline scientifiche quanto la scienza tout court.

Se non si può parlare di una eclisse della scienza, non si può però ignorare un suo appannamento. E’ una congettura naturalmente, ma ho l’impressione che ci troviamo in una fase storica in cui le conoscenze hanno raggiunto un livello tale da essere considerate sufficienti per la tecnologia di cui abbisogniamo.

Si potrebbe parlare di una eclisse parziale della scienza a favore della tecnologia, se anche quest’ultima non sbiadisse di fronte al mercato. Ciò che ha rilievo ora sono le tecniche di vendita, ciò che conta è l’essere buoni venditori e buoni consumatori.

Insomma, come asserisce qualche pedagogista, il saper leggere il conto corrente della banca o le istruzioni per la lavatrice o il  ferro da stiro conta di più di tanta matematica.

Quelli che ci appaiono come abbandoni, sono in realtà scelte.  Pensiamo all’abbandono della retorica classica di tipo argomentativo. Essa lascia il posto alla nuova retorica di cui si servono le scienze della comunicazione. E’ una retorica di basso livello, funzionale ai meccanismi del mercato.

  La contrazione dei contenuti culturali si coniuga in questo progetto all’aziendalizzazione, tipica delle scuole anglosassoni. Da noi, però, l’aziendalizzazione si innesta su di una realtà fortemente burocratizzata. Una miscela esplosiva, che non ritroviamo nelle scuole statunitensi.

Alla base c’è  senz’altro una spinta democratica o democraticistica che tende a rifiutare quella che viene considerata come la cultura della classe dirigente. In realtà non ci si accorge  che è la cultura della ex classe dirigente.

Ci sono poi un sacco di confusioni. Pensiamo alla centralità dello studente. Non è l’ovvia centralità dello studente in senso socratico: dalla confusa commistione fra l’idea democratica e quella della scuola-mercato, nasce l’idea della centralità dello studente come cliente, che ha primariamente il diritto alla scelta ed al benessere immediato.

Un altro elemento di confusione è quello relativo alla meritocrazia ed alla selezione.

Se è vero che la scuola è stata finora uno strumento molto imperfetto di mobilità sociale e che gli studenti delle classi sociali meno favorite non sempre riuscivano a colmare lo scarto iniziale (in questo senso le critiche di Don Milani avevano un fondamento) è anche vero che decretare la fine della selezione significa togliere alla scuola ogni possibilità di essere strumento di mobilità sociale.

Basta che ci guardiamo intorno per accorgerci che si va nella direzione dell’irrigidimento sociale e che si stanno sempre più formando delle caste ben consolidate.

Ci sono dei motivi di speranza?

Ritengo di sì.

E’ innegabile un generale aumento della consapevolezza. E’ qualcosa di molto trasversale che interessa docenti, intellettuali e uomini di cultura in genere. Anche una parte delle famiglie, direi.

C’è d’altronde, anche fra gli stessi fautori della riforma, la coscienza che l’ignoranza è destinata ad aumentare. Perché altrimenti Umberto Eco avrebbe ipotizzato – come ha fatto – la necessità di una laurea di quarto livello per i ricercatori, dopo il dottorato? Significa riconoscere il generale abbassamento del livello degli studi.

Un segnale confortante mi è giunto in questi giorni. Pare che l’ipotesi, che pareva vincente, di disegnare  per i futuri docenti, un percorso di studi “breve” – laurea triennale, più biennio di preparazione pedagogico-didattica presso le SSIS (scuole di specializzazione) sia stata abbandonata. Si parla ora – ma si tratta ancora di notizie informali – della possibilità di prevedere un percorso di tipo diverso per i docenti della scuola di base e per i docenti della scuola secondaria. Per i docenti della scuola di base è prevista la laurea triennale, per gli altri la laurea specialistica (3+2). Per  entrambi è prevista poi la frequenza, molto probabilmente annuale, di una SSIS.

 

Mario Pirani: docenti schiacciati dalla milizia di Mao e dalle guardie rosse

Premetto che più cerco di addentrarmi nel mondo della scuola, meno ne capisco, esordisce Mario Pirani. Perciò vi dirò, come Berthold Brecht, che, non sapendo dove mettermi, mi metto dalla parte del torto.

 

Mi collego a quello che diceva il professore Lucio Russo, circa le “colpe” di questa operazione sulla scuola.

Personalmente non solo non considero la politica estranea, ma non vedo nessuna innocenza nella classe politica.

Non possiamo far finta di non vedere che la rete pedagogica che avvolge il Ministero è di estrazione para-sindacale o para-politica. Non possiamo nemmeno far finta di non vedere che la volontà di destrutturazione della scuola pubblica è equamente condivisa e che risulta difficile stabilire  a chi dare il brutto voto, tanto per restare in tema.

Voglio partire dall’abolizione degli esami di settembre, ad opera del Ministro D’Onofrio. Mi sono chiesto all’epoca se stesse per nascere una nuova matematica. Sì, perché il 6 poteva essere 6 ma poteva anche essere un 6 rosso, che era poi la stessa cosa, ma era anche una cosa diversa. Perché un 6 rosso sanciva  un debito formativo di fatto inesistente, restando quasi sempre e senza conseguenze fino all’università.

  Sembra il teorema della composizione dei contrari. Io, da vecchio ebreo, mi rivolgo alla cabala e scopro così che Berlinguer e Berlusconi guarda caso iniziano con le stesse lettere ed un bel giorno scopro anche di essere un fascista... Me lo dice il Ministro Tullio De Mauro, dopo la pubblicazione del mio articolo sul 7 in condotta.

In realtà, parliamoci chiaro, il 7 in condotta non veniva poi usato più di tanto, ma era un buon deterrente. Ci pone comunque di fronte alla necessità di interrogarci sul tema della disciplina, come hanno fatto alla Conferenza mondiale dell’Unesco[1], tenuta a Parigi dal 5 al 7 marzo e alla quale ho fatto cenno in uno dei miei articoli.

Non è possibile però scindere disciplina ed impegno. Va rilevato che la fine della disciplina va di pari passo con l’automatismo del titolo di studio, che genera la rincorsa ad altri titoli e ad un generale prolungamento del periodo d’istruzione.

Disciplina... la sinistra, nella sua orgia riformistica di ispirazione maoista, non ha esitato ad usare lo strumento dell’esaltazione acritica della gioventù, sorretta in questo da un sociologismo d’accatto, che si è poi  coniugato al modello aziendalistico della scuola anglosassone, con i vari POF a farsi concorrenza tra loro per attrarre i clienti.

Ci si chiede, se si guarda alla scuola e si guarda poi alla vita e alla società, come si possa arrivare qui alla composizione dei contrari.

Sì perché, se guardiamo al ’68, da cui nasce certo equalitarismo che si esprimeva allora nelle richiesta del voto politico, vi scorgiamo una visione in qualche modo organica. C’era il voto politico nella scuola, ma c’era anche la difesa dell’equalitarismo sociale... c’era la contingenza, la tendenza al livellamento retributivo.

Ora questo equilibrio è assente: l’idea del “siamo tutti uguali” pare essere rimasta solo nella scuola, laddove si coniuga all’instaurarsi di un rapporto di tipo contrattualistico, che sfocia nei sempre più numerosi ricorsi al TAR e che inserisce il rapporto in una dinamica giurisprudenziale.

La società è ora altamente competitiva e non tanto sul piano delle classi, quanto sul piano individuale. Come possono i giovani comporre questi due contrari: scuola e vita? Io credo che si stia compiendo una vera e propria azione criminosa nei confronti dei giovani. Il 6 rosso non si porta nella vita ed approdare ad una società  fluida ed altamente, ferocemente competitiva – e che, come tale, richiede una solida preparazione generale -  dopo avere trascorso anni in un ambiente non competitivo, genera l’idea che il modo di agire non generi conseguenze. Con i risultati che vediamo.

E di fronte a tutto questo, si ripropone la domanda. Perché?

Non mi soffermo a parlare del percorso ideologico della sinistra. Altri l’hanno fatto e sarebbe in ogni caso un discorso molto lungo.

Vorrei fare solo alcune osservazioni.

Con la scomparsa dei grandi partiti, è scomparsa anche una cultura coerente, quella cultura per cui ogni partito si faceva portavoce di una storia e di un progetto ideologico.

Questo ha lasciato ampi spazi ad innumerevoli corpi auto-referenziali, che hanno agito per conto loro e che hanno gradualmente assunto un potere inquisitorio e di controllo sempre più forte.

Non esiterei a parlare di una casta di potere che si è impadronita di una pseudo-scienza. Questa casta ha innumerevoli strumenti, solo apparentemente innocui: pensiamo alle circolari, al linguaggio burocratico, alla stessa docimologia, ossia a quella parte della didattica preposta a studiare i criteri della votazione scolastica e ad elaborare tecniche di valutazione.

Come non considerarla uno strumento di controllo e di oppressione, considerate le acrobazie e le lungaggini spesso inutili  per lo scopo che si prefiggono o che fingono di prefiggersi?

Fa il paio con il meccanismo dei crediti che – ci dice Claudio Magris in un recentissimo articolo – sta mostrando all’università il suo aspetto più mostruoso e riducendo i professori a dei contabili tesi a difendere gli innumerevoli interessi in gioco, a tutto scapito della cultura, naturalmente.

Dentro il gioco i docenti, schiacciati dalla milizia di Mao e dalle armate rosse.

 A questi docenti io dico: quando andate a votare, fatelo senza guardare  alla scuola. Perché su questo terreno ce n’è per il centro  sinistra come per il centro destra.

C’è molto, moltissimo per il centro destra.

Quando Guido Barilla della Confindustria ci dice che va superato il “triste” primato della scuola pubblica non  ignoriamo che si profila all’orizzonte la concorrenza spietata, innescata sulla pura ottica aziendale del rapporto costi-benefici.

E non nascondiamoci nemmeno che  il “no” al centralismo ministeriale equivale per la destra ad un “sì” al federalismo ad oltranza, alle storie anziché alla storia, alle lingue anziché alla lingua, alla divisione anziché all’unità.

E ancora: che cosa sono i buoni scuola alle famiglie di Formigoni o altri se non la sottrazione di denaro alla scuola pubblica?

Quale destino per la scuola pubblica se non quello di diventare una scuola povera per gente povera?

 

a cura di Serafina Gnech 

Al Convegno hanno relazionato anche: Fernanda Malvestio, docente di Lettere del Liceo ginnasio “Marco Polo” ed organizzatrice del Convegno, Angela Pisciotta, Preside del Liceo ginnasio “Marco Polo” e Franco Bontempelli, Preside del Liceo Scientifico “Benedetti”.


[1] La conferenza, dal titolo “Violenze a scuola e politiche pubbliche” ha riunito 400 specialisti e responsabili politici di una ventina di paesi diversi.

Il fenomeno della violenza ha raggiunto la soglia d’allarme, si è detto. Perché assenteismo, abbassamento dell’età della violenza, bande, manifestazioni tribali sono ormai entrati nel panorama internazionale. 

Il ministro dell’educazione francese, Jack Lang, non ha esitato a parlare di una responsabilità collettiva, che investe tanto i mass-media quanto le politiche urbanistiche; ha messo in discussione la scelta di abbandonare la “belle notion d’autorité”, e giudicato necessaria una revisione della “carte scolaire” (l’equivalente francese dello Statuto degli Studenti”). La situazione è molto più grave di 8 anni fa ed il recupero del concetto di autorità si rende necessario anche per la famiglia, oltre che per la scuola, hanno ribadito altri ministri.

“Certi allievi hanno ormai una sensazione di impunità” perché i docenti sono privi di armi, ha sostenuto il professore di un liceo in cui un insegnante è stato accoltellato nel mese di gennaio