L’insegnante come professionista. (Un'ipotesi di progressione professionale)

di Fabio Pipitò

 

0. PREMESSA

Dal tema della progressione professionale e delle conseguenti differenziazioni stipendiali non credo che gli insegnanti possano sottrarsi, non solo per evitare che i nostri profili professionali vengano modificati attraverso provvedimenti legislativi prima che ai tavoli di contrattazione sindacale, ma anche per dare dei contenuti alla nostra richiesta dell’area contrattuale separata.

 

Ritengo che il nostro ruolo (dico della Gilda) dovrebbe essere quello di suscitare il dibattito tra tutti i colleghi sulle varie tematiche professionali che attengono al nostro lavoro: insomma, l’obiettivo ultimo, al di là delle varie rivendicazioni e vertenze di tipo sindacale, dovrebbe essere quello di promuovere innanzitutto all’interno della categoria “l’orgoglio professionale”, la consapevolezza del ruolo decisivo degli insegnanti e della scuola all’interno di ogni società che voglia vantarsi di definirsi civile, la determinazione nel contrapporsi a qualunque politica che tenda a svalutare il significato e il ruolo della cultura e dell’istruzione. E in relazione a tutto ciò, ogni insegnante dovrebbe sentire la responsabilità di difendere queste idee, non certo per ottuso e lobbistico “egoismo”, ma nell’interesse generale di tutti, a partire dalle giovani generazioni. Non alimentare questo dibattito, e con questi obiettivi, sarebbe stolto e, credo, il ruolo della Gilda in questa direzione dovrebbe meglio esplicitarsi. Il rischio che corriamo è quello di impantanarci sulle tematiche sindacali, tralasciando quelle professionali, e di dimenticare, o di non comprendere, che le prime discendono dalle seconde e non viceversa.

 

Ho l'impressione, infatti, che si oscilli in modo piuttosto equivoco tra posizioni egualitariste e posizioni "carrieristiche", laddove per "carrierismo" intendo l'aspirazione (umanamente legittima) di vedere un proprio riconoscimento professionale con il passaggio alla docenza universitaria, come se però solo in quei ruoli si possa essere riconosciuti come "luminari" o esperti, come se però solo da professori universitari si sia Professori e non anche in una scuola materna o superiore.

 

Se, come si sosterrà di seguito, esistono dei tratti caratterizzanti del nostro lavoro al di là della comune attività d’insegnamento (che, è bene sottolinearlo subito, dovrà comunque essere esercitata da tutti gli insegnanti e che giustifica di per sé l’equiparazione delle rivendicazioni salariali e dei carichi di lavoro per tutti gli insegnanti di ogni ordine e grado), vi sono senz’altro altri ambiti non direttamente collegati all’attività d’aula che distinguono un insegnante da un altro; e l’esercizio professionale in questi ambiti paralleli, contemporanei e sinergici (non sostitutivi o alternativi) con l’attività d’aula non potrà che prevedere delle differenziazioni stipendiali ed eventuali sviluppi professionali, ferma restando l’appartenenza al medesimo ruolo.

 

Insomma, la tendenza all’egualitarismo è una prigione dalla quale ci si dovrebbe liberare, perché, alla luce dei fatti, la logica dell’indistinzione finisce per penalizzare non solo ciascuno di noi ma anche - e soprattutto - l’essenza stessa del valore professionale del nostro lavoro e del suo ruolo sociale. Ovviamente le logiche demagogiche o la legittima e fondata paura della creazione artificiosa di gerarchie (che, va detto subito e con forza, nella scuola produrrebbero solo esiti contrari alle migliori intenzioni riformatrici – ammesso e non concesso che quelle attuali o del passato recente lo siano o lo siano state -, pena la fine stessa della possibilità di promuovere la già labile “cultura della collaborazione”) contrappongono ad ipotesi di progressione professionale la pari dignità di tutte le discipline e di tutti gli insegnanti nel concorrere alla formazione integrale dell’alunno! E chi dice di no? Ma è altrettanto indiscutibile che, a parità di dignità, vi sia, di fatto, un’evidente disparità già nei carichi di lavoro tra collega e collega (preparazione e correzione di compiti scritti), tra livello primario e livello secondario (25 o 22+2 ore di lezione della scuola primaria, contro le 18 ore della scuola secondaria) e, diciamolo pure, tra docenti più o meno impegnati.

 

In questa sede, le riflessioni e le proposte che si formuleranno, lungi dallo scrivente la pretesa di avere esaurito l’argomento, men che meno di avere proposto un modello condivisibile, vogliono costituire solo uno stimolo all’abbandono di posizioni pregiudiziali che, ancorché fondate su legittime preoccupazioni, rischierebbero di condurci ad uno sterile atteggiamento di chiusura verso forme nuove di ripensamento del nostro lavoro, che pure mi paiono necessarie.

 

Ma prima ancora di entrare nel merito dell’argomento “progressione professionale”, non mi pare inopportuno tentare di definire preliminarmente perché siamo dei professionisti. Lo ripeto: la questione della progressione professionale degli insegnanti è solo uno degli aspetti, e forse neanche il più importante, della più generale e fondamentale questione del sistema di Istruzione e di Educazione del nostro Paese. E, pertanto, ritornare a riflettere su aspetti che si danno per acquisiti, quale è quello che seguirà, potrebbe aprire nuovi orizzonti di proposte di revisione del nostro malconcio sistema scolastico.

 

1. NATURA PROFESSIONALE DELL’ATTIVITÀ DEGLI INSEGNANTI

La differenza sostanziale tra un qualunque lavoro ed un’attività professionale consiste nella diversità della prestazione e nella preparazione specialistica che tale prestazione richiede. Il lavoro del comune prestatore d’opera richiede conoscenza settoriale di uno specifico ambito e si riduce agli aspetti esecutivi e, comunque, applicativi di una progettualità che altrove ha trovato la sua elaborazione e i suoi scopi. Il lavoro professionale, invece, parte sì da una richiesta (la committenza, il servizio da rendere ai singoli e alla comunità), ma a partire da quella richiesta si concretizza in un’elaborazione progettuale, in uno studio di tutte le variabili che intervengono nel processo, in una verifica e in una valutazione del percorso prescelto, per cui risulta evidente che il momento esecutivo è solo una, per quanto importante, delle parti di una prestazione che, in ogni caso, già nella complessità determinata dalle variabili che entrano in gioco, trova il crisma della sua specificità professionale.

 

In altri termini, l’agire di un professionista comporta sempre un’attività di pensiero che precede, accompagna e segue la sua prestazione. Cosa che, per converso, in una comune prestazione manca, là dove essa inizia e si conclude nell’esecuzione di un progetto che altrove è stato concepito e del quale al comune prestatore d’opera si richiede il prodotto finito che di quel progetto costituiva l’obiettivo.

 

Se, dunque, riferiamo questi momenti e questi passaggi alle attività degli insegnanti, ci accorgiamo come essi siano tutti (o comunque dovrebbero essere tutti) specifici della loro formazione e della loro cultura professionale, in chiave teorica, e della loro attività, dal punto di vista pratico.

 

Come, in ambito medico, un bravo infermiere non si sognerebbe di somministrare al paziente un farmaco diverso da quello prescritto dal medico e come un bravo medico non si sognerebbe mai di prescrivere un farmaco se non alla luce di una diagnosi del caso clinico che gli viene sottoposto, o di protrarre tale somministrazione di fronte ad effetti negativi o ininfluenti, così, in ambito scolastico, un bravo dipendente amministrativo si limiterebbe a trovare la forma migliore per una lettera di trasmissione di una certa documentazione, senza comunque stravolgere le indicazioni che gli sono state impartite dal superiore, e così un bravo insegnante studierebbe il modo migliore per far apprendere certi contenuti della sua disciplina o per “suggerire” certi comportamenti ai suoi allievi, senza che comunque altri abbiano in alcun modo predisposto percorsi o impartito istruzioni sul da farsi, dato che è l’insegnante stesso a dover creare questi percorsi e a riflettere sui metodi cui affidarsi per ottenere quel che desidera ottenere.

 

Insomma, non bisognerà certo convincere gli insegnanti del valore professionale del loro lavoro.

Non mi pare, tuttavia, vano affrontare la questione, dal momento che le politiche scolastiche dell’ultimo decennio, e comunque a partire dal contratto del ’95, hanno subdolamente e pericolosamente spostato la riflessione sul problema quantitativo (“la logica dell’aggiuntivo”), allontanandolo da quello più strettamente culturale, professionale e, in definitiva, istituzionale. Non vorrei che anche la Gilda degli Insegnanti, giustamente concentrata sulle questioni sindacali, rischiasse tuttavia di perdere di vista, come colpevolmente le altre Organizzazioni sindacali hanno perso di vista, la più determinante questione del ruolo centrale del Sistema di Istruzione nel nostro Paese.

 

2. LA (STOLTA) LOGICA DELL’AGGIUNTIVO

A costo di approfittare della pazienza di chi legge, cercherò di essere più esplicito al riguardo.

Se, a prima vista, e comunque concedendo il beneficio della buona fede, i firmatari del contratto del ’95 avevano realmente pensato al riconoscimento e alla valorizzazione del carattere professionale della prestazione degli insegnanti (e la successiva legge sull’Autonomia del ’97 avrebbe dovuto in chiave teorica costituire il coronamento di quel riconoscimento), di fatto, quel contratto consacrava - schizofrenicamente - il carattere professionale del nostro lavoro solo ed esclusivamente per tutte le attività di progetto al di fuori della didattica disciplinare da svolgersi all’interno della classe: come se l’attività di ricerca e di progettazione avesse una sua dignità solo nel progetto da finanziare con il Fondo d’Istituto (che allora si chiamava ancora, e non a caso, fondo incentivante!) e non invece, come avrebbe dovuto essere, proprio nelle attività di insegnamento delle conoscenze disciplinari. Come dire: finché sei in classe non sei un professionista (!)  e pertanto il tuo stipendio sarà quello di sempre; quando invece “confezionerai” qualche bel progettino (di qualunque genere e a prescindere dalle ricadute su quelle attività di insegnamento di cui sopra), ecco per te la “ricompensa” più o meno congrua per quel che hai proposto!

 

Se dunque è vera l’interpretazione di quegli eventi, sarà a partire da essi che dovremo iniziare il nostro percorso di ridefinizione del carattere professionale del lavoro d’aula e, più specificamente, sarà necessario ridefinire il quadro all’interno del quale tale lavoro, già nella cornice, veda riconosciuta la sua natura.

 

3. L’INSEGNANTE COME PROFESSIONISTA (SPECIALISTA) DELL’ISTRUZIONE E DELL’EDUCAZIONE: CONSEGUENTI CARICHI DI LAVORO.

Una prima osservazione va fatta in merito all’organizzazione dei tempi del proprio lavoro. Mentre nelle libere professioni e nella dirigenza, il professionista organizza autonomamente i tempi della sua prestazione, nella professione docente tale autonomia non può certo riguardare le attività con gli alunni e pertanto non potrà non indicarsi un quantum di servizio da erogare all’utenza.

 

Ma già questo è un primo punto sul quale cominciare a riflettere: siamo certi che il quantum debba essere calcolato in termini di ore lavorative (modalità tipica del settore impiegatizio) o forse non sarebbe il caso di cominciare a parlare anche da noi, in Italia, come già da tempo si fa in vari paesi d’Europa, di numero di lezioni, al di là della durata di ciascuna di esse, eliminando così una volta per tutte l’insopportabile questione del recupero dei 5 o 10 o 15 minuti di lezione se essa avesse durata inferiore ai 60 minuti? Ogni scuola, nella sua autonomia (e responsabilità), stabilirebbe la durata della lezione e l’obbligo contrattuale si esaurirebbe quando si fossero svolte le lezioni (non le ore) settimanali cui ciascun insegnante è tenuto! Forse qualcuno ha mai chiesto ad un magistrato di far durare un processo un certo numero di ore o a un medico di far durare un’operazione non meno di tre ore?

 

Fissato dunque il numero di lezioni da tenere (18 è un tetto che, a mio avviso, non si può superare; ad esso peraltro dovrebbe essere equiparato anche quello dei colleghi delle scuole materne ed elementari, secondo la nota rivendicazione della Gilda, e, semmai, non mi parrebbe eccessivo abbassare quel tetto nel caso di cattedre o ambiti disciplinari per cui in quel dato ordinamento scolastico un insegnante si trovi ad insegnare più di due discipline), restano da definire i carichi di lavoro e il tipo di attività da svolgere oltre le lezioni. Mi pare che esse si potrebbero individuare nelle seguenti tre:

  • attività di tutoraggio nei confronti di un certo numero di alunni (diciamo dieci per ogni insegnante);

  • riunioni collegiali (quelle comunque strettamente necessarie per le “delibere d’indirizzo” didattico-educativo della Comunità scolastica);

  • rapporti con le famiglie a carattere informativo, “diagnostico” e orientativo (è bene precisare che il tutor non entra nel merito delle scelte didattiche degli altri colleghi);

  • “riunioni di servizio” (o gruppi di lavoro tematici). Per esse si dovrà prevedere una retribuzione aggiuntiva in misura oraria o forfetaria (v. ultra par.7, s.v. “COPERTURA FINANZIARIA”).

Sottintendendo che comunque non si dovrebbero avere più di venti/venticinque alunni per classe (viceversa i rapporti numerici alunni/tutor salterebbero) e rinviando ad altro momento l’approfondimento su ciascuna tipologia di prestazione professionale sopra indicata, ciò che preme dire è che tutto ciò non andrebbe definito in termini numerici o quantitativi, perché il professionista, da solo o in équipe (consigli di classe, gruppi di lavoro a tema), sa quali siano i momenti in cui necessiti una verifica individuale o d’équipe del lavoro in corso. Quanto ai rapporti con le famiglie essi attengono solo al tutor e solo per quegli alunni che ha preso in consegna. Sarà compito del tutor comunicare alle famiglie quale sia la situazione scolastica dell’alunno (cosa che ovviamente non esclude la possibilità di consulti allargati qualora i casi lo richiedano). Tutto ciò ovviamente richiede una capillare, puntuale, chiara circolazione tra i colleghi dei dati necessari all’informazione, che resterebbe comunque atto dovuto.

 

Fino a qui la visibilità del lavoro rispetto all’utenza (e agli obblighi contrattuali). Entriamo ora nello specifico degli altri ambiti che definiscono il senso professionale del nostro lavoro.

 

4. ALTRI AMBITI DISTINTIVI DELLA PROFESSIONALITA’ DEGLI INSEGNANTI

 Alla luce di quanto detto sulla natura professionale del nostro lavoro e delle conseguenze sopra descritte sull’organizzazione del nostro comune lavoro di base, ci si dovrebbe, a mio avviso, concentrare su un dibattito volto a costruire i segmenti di una “rivoluzione” del nostro status giuridico e quindi anche economico. Tali segmenti, infatti, non riguardano soltanto gli aspetti contrattuali (che sono poi quelli che definiscono il cosiddetto “profilo professionale”), ma soprattutto quelli di una nuova configurazione dell’attività di insegnamento che poi nel contratto possa trovare il suo inveramento.Al fine, dunque, di cominciare ad entrare nel merito dell’argomento della “progressione professionale”, mi pare che si possano indicare i seguenti altri ambiti nei quali ciascun insegnante dovrebbe e potrebbe definire (e vedere socialmente, economicamente e culturalmente riconosciuto) il senso della sua professionalità:

 

  1. l’insegnante come professionista (o specialista) della ricerca disciplinare, didattica ed educativa;

  2. l’insegnante come professionista (o specialista) della organizzazione scolastica;

  3. l’insegnante come professionista (o specialista) della promozione della cultura professionale (formazione e aggiornamento).

 

Vediamo, dunque, se e come sia possibile inserire questi tre ambiti in un possibile profilo professionale di tutti gli insegnanti delle scuole di ogni ordine e grado.

 

5. IMPOSTAZIONE METODOLOGICA

Le domande dalle quali sono partito sono state pertanto queste:

 

1. "E' possibile una progressione professionale, pur restando ad operare nelle Scuole e Istituti di ogni ordine e grado?";

2. "Sono compatibili all'interno del medesimo luogo di lavoro la coesistenza di impegni professionali parzialmente differenziati (a partire comunque dalla comune attività d’insegnamento), con relative differenziazioni stipendiali, pur nella coesistenza e collaborazione tra professionisti diversamente retribuiti?"

3. "Esistono modelli organizzativi, in cui persone che appartengono al medesimo ruolo possano svolgere porzioni di lavoro differenziate e con conseguente diversa retribuzione, salvaguardando al tempo stesso il senso (o la promozione) della collegialità e della collaborazione?"

4. "Si può evitare che i riconoscimenti professionali e le conseguenti diverse retribuzioni si trasformino in “rendite di posizione” o diano luogo a rapporti gerarchici?"

 

6. QUESTIONI PRELIMINARI

Cercherò, innanzitutto, di fissare alcuni “paletti” o pregiudiziali che dovrebbero chiarire quale sia il punto di vista di chi scrive.

 

Qualunque ipotesi di progressione professionale non potrà non tenere conto dei seguenti presupposti:

 

a.      l’insegnante è il professionista dell’educazione che si realizza attraverso l’istruzione (il che vuol dire che chi non entra in aula già non è più un insegnante, ma altro);

b.      le scuole sono Comunità educative e di ricerca didattico-pedagogica (il che vuol dire che nessun insegnante si può esimere, in quanto membro di quella Comunità, dal fornire la propria disponibilità e il proprio contributo alla crescita della sua Comunità);

c.      il concetto stesso di “Comunità” e, soprattutto, l’appartenenza al medesimo ruolo, con le connesse, medesime funzioni educative, escludono la possibilità che tra colleghi possano sussistere rapporti gerarchici e che le relazioni professionali ammettano intromissioni vincolanti alla propria libertà e autonomia professionale, garantite del resto dalla Costituzione (il che vuol dire che chi svolga nella propria Comunità anche attività di Coordinamento possa proporre, non imporre, linee di indirizzo didattico o organizzativo alla luce dei bisogni reali di quella Comunità e che ciascun insegnante abbia il diritto di rifiutarle, ma anche il dovere di cercarne – si badi bene  “cercarne”, non “trovarne” - di alternative).

 

Al di fuori di queste pregiudiziali, qualunque discorso sulla progressione professionale, a parere del sottoscritto, non può neanche essere avviato dal momento che la specificità della Scuola e dell’Insegnamento non può ammettere che si mutuino da altri ambiti (aziendali!) logiche gerarchiche che nella Scuola non possono trovare posto: in qualunque attività educativa, il tratto comune è garantito dalla comune ispirazione degli educatori: ciascun educatore sceglierà poi la propria strada, quella più vicina e adeguata al suo temperamento, alla sua personalità e, in definitiva, alla sua coscienza di Uomo e di Donna, per ottenere gli obiettivi che si prefigge.

 

7. ASPETTI CONTRATTUALI

Possiamo ora entrare nel merito delle domande formulate precedentemente.

Premesso che ogni insegnante dovrà continuare a svolgere un certo numero di lezioni - dal momento che chiunque lavori per la scuola, non può vivere lontano da essa, anche per brevi periodi (mai superiori ad un anno!), pena la perdita della visione di una realtà in continua e rapidissima trasformazione -, nella presente proposta, la progressione professionale consisterebbe nella possibilità di impiegare una porzione del proprio orario di servizio in ambiti diversi dall’insegnamento (cfr. par. 4), ma ad esso strettamente legati per le conseguenti ricadute: ricerca, organizzazione, formazione e aggiornamento.

 

Il collega che si dedicasse alla ricerca o all’organizzazione vedrebbe decurtato di un terzo (diciamo da 18 a 12 lezioni) il suo impegno in aula e dedicherebbe l’altra parte del suo tempo professionale al suo ambito di specializzazione. Si badi bene: tempo professionale, non tempo contrattuale. Quest’ultimo definisce gli obblighi di servizio, il primo invece sarebbe autogestito dal professionista in funzione dei carichi di lavoro legati alla ricerca che va conducendo o agli aspetti organizzativi che va curando in relazione alla Comunità di appartenenza!

 

Il collega che invece si dedicasse alla Formazione e all’Aggiornamento vedrebbe decurtata la propria prestazione professionale in aula della metà (ad esempio, nelle scuole elementari, da 22+2 settimanali a 11 lezioni, escluse anche le attività di programmazione –tranne quelle collegiali di cui al par. 3 –, o da 18 lezioni a 9) dal momento che in questo ambito oltre all’organizzazione materiale dei corsi, rientrano anche i momenti della ricerca.

 

ORGANICI: ogni Istituzione Scolastica Autonoma (di seguito I.S.A.), sulla base del numero di alunni e di personale, disporrebbe, nel suo organico di diritto, di un quantitativo di lezioni scoperto da destinare a ciascuna delle tre aree, cosicché ciascuna I.S.A. e ciascun docente saprebbe che nella propria Scuola vi sarebbero, ad esempio, 4 posti di ricercatore (24 lezioni da assegnare ad altro docente), 2 posti di organizzatore (altre 12 lezioni da assegnare), 2 posti di formatore (altre 18 lezioni da assegnare). Insomma in quella data I.S.A. vi sarebbero 54 lezioni da assegnare a tre docenti (3 docenti x 18 lezioni= 54 lezioni).

 

ACCESSO: per soli titoli e per anzianità: dopo 10 anni per ricercatori e organizzatori-coordinatori; dopo 18/20 anni per i responsabili della formazione e dell’aggiornamento. A quest’ultimo ambito si potrebbe accedere solo avendo operato precedentemente come ricercatore e organizzatore, dal momento che la formazione e l’aggiornamento contemplano la maturazione di competenze specifiche in entrambi gli ambiti.

 

MOBILITA’: graduatorie provinciali biennali o triennali (con valutazione titoli: precedenze, continuità, anzianità di servizio, titoli culturali, ecc.)

 

STIPENDIO: maggiorazione (quota fissa uguale a quella degli altri colleghi + una “indennità di specializzazione” ulteriormente maggiorata per il docente-formatore).

 

ULTERIORE PROGRESSIONE PROFESSIONALE: le esperienze maturate e i relativi titoli costituiscono presupposti per l’accesso ai ruoli universitari e, in genere, nell’amministrazione scolastica con incarichi direttivi/dirigenziali.

 

MANTENIMENTO DEL REQUISITO: relazione congiunta del dirigente e del comitato di valutazione (solo docenti di quell’I.S.A., con almeno 25 anni di servizio); pubblicazioni (un certo numero di lavori prodotti nel biennio o nel triennio).

 

COPERTURA FINANZIARIA: i costi potrebbero essere ammortizzati trasferendo una porzione dei fondi destinati alle SSIS (almeno i fondi del 2° anno) e inserendo nelle Scuole, in qualità di docenti-tirocinanti, gli specializzandi: la supervisione del tirocinio e le connesse attività di formazione sarebbero affidate proprio a quei docenti-formatori di quella data Scuola. Altra non indifferente fonte di finanziamento sarebbero i risparmi sui Fondi delle Istituzioni Scolastiche, la cui consistenza sarebbe legata soltanto al pagamento delle prestazioni aggiuntive del personale A.T.A. (attualmente circa 1/4 o 1/5 dell’intero Fondo) e per le riunioni di servizio dei docenti (e questa dovrebbe divenire la parte più consistente del Fondo, perché dovrebbe retribuire i membri della Comunità scientifica ed educativa in cui si trasformerebbe ciascuna scuola). Infine, e forse questa sarebbe la voce di finanziamento più consistente, i Fondi europei: piuttosto che indirizzarli su progetti più o meno cervellotici, si investano sulle attività di ricerca e di aggiornamento degli Insegnanti all’interno delle loro scuole!

E se ancora i costi dovessero essere in esubero, ritengo che l’argomento “Scuola” sia così determinante per il futuro stesso di un Paese, che una Comunità Nazionale non si potrebbe esimere dal sostenere ogni forma di investimento sui suoi Insegnanti. Insomma, se si vuole una Scuola di qualità bisogna investire innanzitutto sui suoi Insegnanti e smetterla una volta e per tutte con gli sprechi e con le manovre di bilancio ipocritamente spacciate per “riforme scolastiche”!

 

PRECARIATO: sia chiaro che un’operazione di questo genere non potrebbe che essere successiva ad una definitiva risoluzione del precariato storico, previa cioè immediata immissione in ruolo dei colleghi che da anni tengono comunque in piedi il sistema della scuola italiana. A regime, solo i docenti-tirocinanti potrebbero vantare titoli per l’accesso ai ruoli dell’insegnamento e il loro numero avrebbe sempre una consistenza legata ad una preventiva programmazione delle esigenze di personale insegnante nella scuola italiana.

 

Possiamo ora entrare nel merito dei tre ambiti di “progressione professionale” di cui s’è detto.

 

8. L’INSEGNANTE COME PROFESSIONISTA (SPECIALISTA) DELLA RICERCA DISCIPLINARE, DIDATTICA ED EDUCATIVA.

L’aspetto che ritengo maggiormente qualificante rispetto alla valorizzazione professionale dell’attività di insegnamento sta proprio nella ricerca.

 

La sola (per quanto fondamentale) professionalità in ambito educativo e didattico-disciplinare di per sé giustifica (e, sottolineo, a ragion veduta) la rivendicazione di maggiorazione retributiva per tutti, ma al tempo stesso risulterebbe penalizzante rispetto alla versatilità di ogni singola professionalità. Fermo restando che il ruolo educativo e didattico è unico e che unica è la funzione docente (ed è quindi a partire da questa base che si calcola la comune base retributiva maggiorata), è altresì vero che tale professionalità si può esplicare anche in ambiti diversi da quello dell’attività didattico-educativa.

 

Da tempo ormai si richiede (la Gilda almeno lo richiede) un agganciamento della scuola all’Università e si richiedono gli anni sabbatici per gli insegnanti dei vari ordini di scuola. Proprio la ricerca potrebbe essere lo strumento per vedere riconosciuta anche giuridicamente la professionalità degli insegnanti. Come all’Università un ricercatore pubblica in un certo arco di tempo il frutto delle sue ricerche, così anche per gli insegnanti si potrebbero stabilire delle misure e si potrebbe a ragion veduta rivendicare l’agganciamento stipendiale a quello dei professori associati e ordinari.

 

Forse la ricerca (con relative pubblicazioni) di un insegnante fornirebbe contributi inferiori alla comunità scientifica rispetto all’attività di un docente universitario? L’unico vincolo che questo genere di ricerca dovrebbe avere, ricadrebbe sulla sua spendibilità, utilizzabilità ai fini dell’arricchimento della qualità della proposta culturale o organizzativa dell’Istituzione Scolastica cui l’insegnante-ricercatore appartiene. I titoli acquisiti dall’insegnante costituirebbero il presupposto per un prolungamento del suo incarico o per il passaggio alle funzioni di insegnante-formatore o, in ultima analisi, per il conferimento di incarichi nelle Università o negli IFTS.

 

Si badi bene, però: le Università o gli IFTS non rappresenterebbero più un miraggio irraggiungibile, perché finalmente anche nei vari ordini di scuola vi sarebbero le condizioni per lo svolgimento delle attività di ricerca con i relativi incrementi retributivi, evitando così al tempo stesso che le professionalità più versatili si allontanino dalla Scuola e dai propri alunni! E tutto ciò, fra l’altro, fondato su automatismi contrattuali, non certo su concorsi o concorsacci di recente memoria!

 

9. L’INSEGNANTE COME PROFESSIONISTA (SPECIALISTA) DELL’ORGANIZZAZIONE

La complessità delle varie attività in cui si concretizza il servizio di istruzione e di educazione in ogni Istituzione Scolastica Autonoma, ha richiesto sin dagli esordi della Legge sull’Autonomia la presenza di figure professionali che il Contratto del ’99 aveva individuato nelle cosiddette Funzioni-Obiettivo, oggi divenute Funzioni Strumentali all’Offerta Formativa. La stessa dicitura la dice lunga sullo svuotamento professionale che essa sottende: che un insegnante debba dire di sé “sono una Funzione” e non, come logica vorrebbe, “ho una Funzione” è indice di uno svuotamento della stessa identità personale, prima ancora che professionale, di un insegnante. E qui, sia detto appena per inciso, si riconosce in pieno l’idea della nostra professione, ma sarebbe meglio dire impiego, di cui è intrisa la cultura, ma sarebbe meglio dire sottocultura, di tutti i sindacati diversi dalla GILDA.

 

Il Contratto del ’99, se da un lato aveva intuito quale sarebbe stata la mole di lavoro aggiuntiva che si sarebbe riversata nelle Scuole dell’Autonomia, anche a seguito della riorganizzazione della rete scolastica, al punto da dover prevedere la creazione di nuove figure necessarie per il buon funzionamento di una scuola, dall’altro si contraddiceva nel pensare che queste nuove figure potessero sobbarcarsi a quella stessa mole in spazi ulteriori da ritagliarsi in una giornata lavorativa. Quel che cioè è continuato a sfuggire all’attenzione dei Sindacati firmatari è che di ulteriori spazi nella giornata di lavoro di un insegnante - sempreché voglia svolgere seriamente il suo lavoro -, non ve ne sono. Ed ecco come e perché un’idea interessante sia fallita, e continuerà a fallire, fino a quando il presupposto errato - la fuorviante cultura dell’aggiuntivo - non verrà al più presto spazzato via. Se si continua a partire dal presupposto che gli insegnanti possano lavorare più di quanto già lavorino, nessuna differenziazione di ruoli e funzioni, nessuna definizione di carriere e compensi differenziati potrà mai attecchire. E nessun miglioramento qualitativo del servizio di istruzione potrà mai derivare da queste sconsiderate alchimie.

 

Ogni Scuola, in ragione della sua complessità e delle sue esigenze, e nella misura del numero di alunni e di personale, individuerà gli ambiti o i settori nei quali necessitano delle specifiche professionalità di coordinamento e avrà a disposizione tali professionalità. Insomma, le attuali nomine di collaboratori del Dirigente o di suoi delegati di fiducia, potrebbero bene essere sostituite da figure di insegnanti specialisti dell’organizzazione della scuola, appositamente retribuiti con maggiorazioni del loro stipendio e che continuano però ad insegnare, lasciando al Dirigente Scolastico tutte le questioni amministrative, gestionali e di rappresentanza legale (ma anche questo ruolo e queste funzioni col tempo potrebbero essere superati, con ulteriori significativi risparmi). In definitiva, ai Colleghi Coordinatori spetterebbe di garantire il migliore funzionamento di tutte le attività della Scuola sulla base di un costante lavoro di ricerca di modelli organizzativi, anche sperimentali e quindi che coinvolgano anche settori limitati della Scuola, volti al sostegno delle esigenze dei colleghi e di tutti i membri della Comunità Scolastica, alla luce delle “delibere d’indirizzo” del Collegio dei Docenti.

 

10. L’INSEGNANTE COME PROFESSIONISTA (SPECIALISTA) della PROMOZIONE della  CULTURA PROFESSIONALE (FORMAZIONE E AGGIORNAMENTO).

E’ chiaro a tutti che nella Formazione e nell’Aggiornamento risiede la possibilità di qualunque attività professionale di potersi ridefinire per mantenere la sua significatività all’interno della comunità in cui essa si esercita e fornisce il suo contributo alla comunità stessa. La crisi profonda che la Scuola degli ultimi vent’anni, non solo in Italia, ma in tutto il mondo ad alta tecnologia, sta tuttora attraversando, ha le sue radici proprio nel fatto che essa non ha saputo ridefinire il suo ruolo rispetto alle trasformazioni radicali della società e alle trasformazioni antropologiche della stessa umanità.

 

La Formazione e l’Aggiornamento degli Insegnanti sono infatti gli ambiti in cui l’Istituzione accorcia i tempi di assestamento al variare della realtà storica, sociale ed economica, anche se, utopisticamente, verrebbe voglia di dire che dovrebbe essere essa a dettare i tempi e le modalità di questi cambiamenti! Come dire: un Mondo a misura d’Uomo e non, come purtroppo avviene, un Uomo a misura del Mondo Economico!

 

Delle attività di formazione si è già detto a proposito della formazione dei giovani colleghi-tirocinanti provenienti dalle SSIS. Resta da dire come i colleghi formatori di una data Scuola dovrebbero operare nell’ambito dell’aggiornamento. Le loro competenze specialistiche saranno limitate ovviamente alle loro discipline e pertanto nelle attività di aggiornamento della propria scuola essi potranno intervenire in qualità di relatori solo negli ambiti di loro competenza. Oltre a ciò essi dovranno coordinare tutte le attività di aggiornamento professionale sulla base delle esigenze dei colleghi della Scuola di appartenenza, secondo le “delibere d’indirizzo” formulate in seno agli organi collegiali, curando dall’inizio alla fine tutte le fasi legate all’organizzazione dell’aggiornamento nella loro scuola e selezionando i relatori più adatti alle esigenze concrete (attingendo prioritariamente tra i colleghi della medesima Scuola).

 

Ovviamente, l’aggiornamento non esclude l’autoaggiornamento, purché quest’ultimo esca una volta e per tutte dall’autoreferenzialità e diventi finalmente lo strumento della promozione della “cultura professionale del lavoro di squadra”. Esso, cioè, attiene più agli aspetti deontologici che a quelli della progressione professionale (non si dimentichi quanto si diceva al punto b. del par. 6 “questioni preliminari”).

 

11. CONCLUSIONI

Immaginiamo infine quale sarebbe l’effetto psicologico e di promozione dell’emulazione (non della competizione) che su tutti gli insegnanti avrebbe la compresenza negli stessi spazi di lavoro di insegnanti che svolgono la stessa professione, ma con funzioni (e retribuzioni) parzialmente diversificate: le “torri d’avorio” della cultura accademica scomparirebbero ed ogni istituzione scolastica autonoma si trasformerebbe in una piccola comunità scientifica (ed educativa), in cui gli àristoi e il démos si troverebbero fianco a fianco in un rapporto sinergico di fattiva collaborazione, in cui l’àristos non sarebbe l’invidiato (e privilegiato) collega e il démos la plebaglia degli esecutori di chissà quali direttive, ma tutti si ritroverebbero a contribuire ad offrire alle nuove generazioni dei modelli culturali e comportamentali tutti tesi ad una laicizzazione (in senso etimologico, laòs è il popolo in contrapposizione agli olìgoi, “i pochi privilegiati”) e democratizzazione della cultura, sulla base di un concorde riconoscimento del merito.

 

Utopie? Può darsi. Credo però che la “volgarità” dei nostri tempi non debba impedirci di avviare un serio ripensamento delle politiche scolastiche attuali o del recente passato (che tale “volgarità” assecondano o avrebbero voluto assecondare). La semplice gestione dell’esistente, se si dovesse perseverare nella svalutazione del ruolo istituzionale della scuola pubblica statale e del ruolo sociale degli Insegnanti, non solo non riuscirà ad evitare le spaventose conseguenze culturali e comportamentali che già produce sulle giovani generazioni, ma fra non molto renderà più difficile, se non impossibile, invertire la rotta.

 

Fabio Pipitò

 


 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

 

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