di
Giuseppe Del Re
- Premessa:
una lettera a “La Repubblica”
- Antefatto: da Rousseau a Dewey
- Situazione odierna: ignoranza e violenza nelle scuole
- Cultura e selezione per salvare la scuola americana: raccomandazioni di un uomo di scienza
-
Per un recupero della cultura in America: le preoccupazioni degli
economisti
- Conclusione: come si aggira la Costituzione
-
Bibliografia.
Premessa: una lettera a “ La Repubblica”
Il contenuto di questa relazione è riassunto in una lettera al giornale “La
Repubblica” inviata dal relatore a sostegno di due articoli dell'illustre
editorialista Mario Pirani, in cui si faceva notare il carattere distruttivo
della “riforma dei cicli” imposta agli italiani da un decreto legislativo
che sottraeva l'attuazione della legge perfino al controllo costituzionale.
Prima di entrare in maggiori particolari desidero perciò riportare la lettera
in questione.
“Gli articoli di Mario Pirani sulla “riforma” della scuola meritano la
gratitudine di tutti gli italiani. La loro pubblicazione lascia sperare che la
vera sinistra non s'identifichi con l'idea di cultura che ha ispirato quella
riforma. I maoisti della lobby psico-pedagogica italiana hanno copiato
servilmente una riforma della scuola fatta circa cinquant'anni fa negli Stati
Uniti, ove tra l'altro non esiste il diritto allo studio, e la scuola pubblica
è un servizio sociale per chi non si può pagare di meglio. Il fallimento
totale del sistema è documentato da decine
di rapporti annuali del ministero della pubblica istruzione USA (Internet,
all'indirizzo NCES.ed.gov). Nel 1999 molti degli studenti di diciassette anni
hanno fallito i test di lettura (dico: lettura!); nel quinquennio 1988-1993 il
57% delle scuole aveva denunziato atti di violenza durante le lezioni; il “gap
razziale” fra bianchi e negri è andato aumentando, e gli Stati Uniti hanno
aumentato le quote di immigrazione per i pakistani, onde occupare posti
d'insegnamento nelle facoltà scientifiche delle università!
“Mentre da oltre oceano si moltiplicano gli appelli a ritrovare la cultura
classica e a favorire i capaci e volenterosi, qui si dà del fascista a chi si
permette di pensarla come Gramsci, che raccomandava: “studiare,
studiare, studiare”.
“Se la sinistra è ridotta a sostenere i rigurgiti maoisti di certi miei
colleghi, stia pur certa che perderà ogni credito. Pur con il beneficio della
buona fede, il collega De Mauro deve rendersi conto che la sua riforma è
razzista e classista, al punto da violare la costituzione (art. 3, 33, 34). È
classista, perché consente solo ai ricchi di istruire sul serio i figli; è
razzista, perché gli extracomunitari, che a casa non
imparano nemmeno l'italiano, non potranno in nessun modo integrarsi nelle
tradizioni e nella cultura del Paese in cui hanno scelto di vivere. Se anche
vincerà queste elezioni, la sinistra che avrà sostenuto De Mauro
dovrà confrontarsi con questi problemi e con le famiglie, quando queste si
accorgeranno sulla pelle dei figli che la scuola pubblica è stata trasformata
in un centro sociale.”
Vediamo ora più in dettaglio l'origine e i problemi della scuola d'oltreoceano,
dando un cenno alle imitazioni tentate (in forma ben più cauta che non la
riforma `titanica' (sic!) dell'on. Berlinguer) da alcuni paesi d'Europa. Mi
fonderò quasi esclusivamente su fonti americane, se non altro per evitare
l'accusa di pregiudizi verso quel grande Paese.
Sottolineo che vi ho lavorato come residente intorno al 1960, e ho dovuto
conoscere direttamente il loro sistema scolastico perché all'epoca avevo dei
figli che si avvicinavano all'età scolare. Aggiungo anche che la gente
era preoccupatissima, perché prevedeva quello che poi è avvenuto, ma, come in
Italia oggi, i mezzi di comunicazione di massa erano convinti che la scuola non
“facesse notizia”. Per di più, incombevano la crisi di Cuba e la corsa allo
spazio, e il tenore di vita continuava a salire, cosicché chi si rendeva conto
del disastro culturale cui si andava incontro contava - semplicisticamente -
sulla scuola privata. Quest'ultima, invece, mancando la concorrenza della scuola
pubblica ed essendosi deteriorata in generale la qualità dell'espressione, finì
gradualmente per abbassare il livello.
Antefatto: da Rousseau a Dewey
Il "modello americano" di sistema scolastico circola da molto tempo.
Già nel 1987, prendendo spunto dall'esperienza fatta in Perù nel quadro della
Cooperazione universitaria, l'autore di queste note scriveva:
È stato osservato da molte parti che nei paesi in via di sviluppo il problema
più grave è quello della scuola primaria e secondaria: la quale è scadente
per la combinazione di due fattori. Il primo è la scarsità d'insegnanti
preparati; il secondo, forse ancora più grave, è l'adozione di modelli
ispirati dalla pedagogia di Rousseau e Dewey. Le conseguenze dell'applicazione
superficiale di quelle teorie pedagogiche, che esercitano ancora un grande
fascino sui politici di ogni colore, si vedono già nei paesi industrializzati.
Gli Stati Uniti, dove si applicano integralmente fin dagli anni '50 le teorie di
Dewey, hanno oggi ventuno milioni di analfabeti di ritorno; le scuole private,
frequentate da tutti quelli che se lo possono permettere, danno a diciotto anni
una preparazione pari alla nostra seconda media. In Europa, di fronte alle ansie
riformatrici della nostra classe politica, le famiglie si difendono come
possono; ma è facile prevedere lo stesso iter nel giro di vent'anni.(1)
Perché i teorici del modello americano sono Rousseau e Dewey? Perché le loro
idee fanno da base teorica a riformatori che si dicono progressisti o liberisti
oltre atlantico e qui si dicono addirittura di sinistra, quando
poi la sinistra vanta una tradizione di rispetto per la cultura che solo il
maoismo - e in Cina per pochi anni - osò interrompere? E perché tanta
venerazione per la scuola anglo-sassone?
L'illuminista Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) viene adottato perché con il
suo Émile propose un'educazione in cui l'insegnante si limita a favorire ed
eventualmente orientare l'allievo, che deve seguire la sua naturale
curiosità, senza obblighi né controlli di sorta. Come tutti sanno, Rousseau
stesso ammetteva di non aver mai fatto esperienza didattica se non per qualche
insegnamento privato, anzi diceva che non ne aveva avuto bisogno perché come
campione d'umanità aveva se stesso - e cioè nientemeno che un genio solitario
in omni historia curiosus (2). Questo lascerebbe perplessi molti
pedagogisti, se non fosse che le tesi pedagogiche del nostro filosofo sembrano
adattarsi a due principi: primo, l'uomo è naturalmente buono, e ogni forma di
disciplina o di obbligo (e, ovviamente, di sanzione) è da combattere; secondo,
il sapere è importante solo in quanto soddisfa un bisogno spontaneo.
Lo strumentalista-evoluzionista americano John Dewey (1859-1952), famosissimo
quand'era vivente e ispiratore diretto del "modello americano", è
individuato bene da una citazione, fornita da un suo ammiratore: the brain is
primarily an organ of a certain kind of behavior, not of knowing the world -
"il cervello [a cui Dewey assimila la mente] è un organo di un certo tipo
di comportamento, non della conoscenza del mondo."(3) Così giustificò
l'idea che la scuola non serve a preparare un giovane alla vita, ma a fargli
sviluppare le sue capacità naturali, che in ultima analisi si riducono al
"comportamento", cioè alla socializzazione. Come si vede,
queste idee danno un sostegno teorico a chi ritiene che i giovani si realizzino
solo nelle discoteche e nei centri sociali, cioè dove si possono "sentire
liberi" confondendosi nella massa.
La venerazione per tutto ciò che si associa con la cultura inglese, poi, è un
dato storico dell'Italia che ha ragioni storiche e sociopolitiche, ma si fonda
su un quadro del mondo anglosassone che non è realistico. Per quel
che ci interessa qui, basta per capirlo porsi la domanda: come è stato
possibile che gli Stati Uniti, paese nato con il mito dell'individualismo,
abbiano adottato una scuola di massa scandalosamente anti-individualista?
La risposta si trova nel fatto che i paesi anglosassoni hanno bensì recepito
l'illuminismo, ispiratore della diffusione della cultura fra la ricca borghesia
inglese del '700 nonché della costituzione americana, ma
non hanno mai recepito la rivoluzione francese, i cui principi, esportati in
tutta Europa dalle armate napoleoniche, furono invece rispettati dalla
restaurazione. L'impero britannico e la Confederazione americana non conobbero
mai né un codice di tipo romano-germanico (4) né il diritto allo studio - nel
senso di diritto all'educazione migliore indipendentemente dal censo. Per quanto
riguarda la scuola, questo vuol dire che nei due grandi paesi anglo-sassoni la
scuola pubblica è un servizio sociale per i poveri, e l'istruzione di buon
livello è un bene che si deve comprare,(5) mentre in Europa continentale,
invece, lo studio è un diritto-dovere del cittadino (v. l'ultimo paragrafo di
questa relazione).
Su questo retroscena si spiega non solo la condizione della scuola americana, ma
il tracollo della cultura nglese: in un paese che ormai ha un tenore di vita
nettamente inferiore a quello italiano le buone scuole sono di nuovo riservate
all'alta borghesia, giacché una prima elementare che garantisca un minimo di
qualità richiede un esame di ammissione e costa oltre un milione al mese; le
borse di studio per le grammar schools (gli analoghi inglesi dei licei)
furono soppresse per ragioni di bilancio già dal governo Thatcher. (Da notizie
non controllate, sembra che, avendo recuperato (da poche decenni) la sua piena
autonomia dall'Inghilterra, la Scozia stia procedendo a riqualificare le scuole,
reintroducendo addirittura lo studio del latino e del greco.)
Il governo federale degli Stati Uniti impose la riforma "dei cicli" ai
singoli Stati, ufficialmente autonomi in materia di istruzione, ponendola come
condizione per le sovvenzioni federali. Furono riformate non solo la
scuola, che acquistò il nomignolo di national babysitter, ma la
formazione degli insegnanti, che in conformità ai dettami di Dewey, dovevano
imparare solo how to teach, "come insegnare", non cosa
insegnare, seguendo corsi di colleges ad hoc. Questo ultimi altro non
sono che istituti magistrali di qualità mediocre, in cui ancor oggi, quando la
filosofia di Dewey è praticamente dimenticata, si seguono le sue idee
pedagogiche.(6)
Quali sono stati i risultati di quella riforma, che conta ormai quasi mezzo
secolo?
Situazione odierna: ignoranza e violenza nelle scuole
Presentiamo anzitutto i risultati di una ricerca ufficiale sulla violenza
nelle scuole pubbliche americane nel biennio 1996-97, eseguita dal National
Center for Education Statistics del Ministero dell'Istruzione degli Stati Uniti.
(7)
Più della metà delle scuole pubbliche degli Stati Uniti hanno riferito di aver
sperimentato almeno un incidente delittuoso nell'anno scolastico 1996-97 e una
ogni dieci ha riferito almeno un reato di violenza serio durante quell'anno.
Il 57% dei direttori delle scuole pubbliche elementari e secondarie hanno
riferito che erano avvenuti nella loro scuola durante l'anno scolastico 1996-97
uno o più incidenti di reato/violenza. Il 10% di tutte le scuole pubbliche
hanno sperimentato uno o più atti di violenza seri (definiti come omicidio,
stupro o altro tipo di violenza sessuale, suicidio, attacco fisico o
combattimento con un'arma, o rapina) denunciati durante quell'anno. Attacchi
fisici o combattimenti senza arma sono stati i reati più frequenti e ammontano
a 190.000. Sono stati riportati 116.000 incidenti di furto e simili, nonché
98.000 casi di vandalismo. Sono stati denunciati circa 4.000 casi di stupro o
altro tipo di violenza sessuale, 7.000 rapine e 11.000 casi di attacchi fisici o
risse con uso di armi. 43% delle scuole pubbliche non hanno denunciato
incidenti, il 37% ha denunciato da 1 a 5 reati e il 20% ha riferito sei o più
reati. I reati e la violenza sono stati il problema più serio nelle scuole
medie superiori che non nelle scuole elementari. Il 45% delle scuole elementari
ha denunciato 1 o più casi di violenza contro 74% delle scuole medie e 77%
delle scuole superiori.Il 4% delle scuole elementari ha denunciato uno o più
reati di
violenza seri da confrontare con il 19% della scuola media e il 21% della scuola
superiore. Dei reati minori o non violenti (attacchi fisici o risse senza arma,
furti e simili, vandalismo) il maggior numero di casi per
100.000 studenti si è avuto nelle scuole medie e superiori. Le scuole
elementari hanno denunciato in proporzione meno casi di reati di violenza seri.
Tuttavia, mentre hanno denunciato rapine in minor proporzione
rispetto alle scuole superiori, non risultano significativamente diverse dalle
scuole medie.
Su questo sfondo si può immaginare quale sia il livello di apprendimento.
Ci limitiamo a segnalare che nel 1999 il presidente Clinton, non sospetto di
conservatorismo, fece un appello per la fine della "promozione
sociale", in cui gli studenti si licenziano dalle scuole
"superiori" [high schools, con programmi del livello di una
nostra seconda media, che terminano quando i ragazzi hanno 16-17 anni] qualunque
sia il loro livello di preparazione], e allo stesso tempo (...) proponeva
iniziative contro i docenti e le scuole che rendevano poco. (8)
Clinton non fu contraddetto nella valutazione della situazione, ma nel poco
realismo della sua idea di poter istituire controlli sulle scuole. Recentemente,
il presidente Bush ha parlato di ripristinare gli esami di... terza elementare.
Non può sorprendere chi insegna sul serio che in scuole del genere anche gli
insegnanti più volenterosi rinuncino
a insegnare e la violenza dilaghi; perché i ragazzi, specialmente i maschi, non
sono certo disposti a seguire docilmente le preghiere di un insegnante. Ma c'è
anche una conseguenza umanamente penosa, che mi è stata riferita a proposito
delle scuole francesi, dove gli insegnanti insegnano e la disciplina viene
mantenuta, ma
non esistono bocciature (per una riforma voluta da Giscard, presidente di
destra!). Gli studenti che non imparano vengono obbligati a proseguire lo stesso
gli studi; e ce ne sono alcuni che a dodici anni piangono di
umiliazione, perché non sanno leggere come i loro compagni. Non è difficile
immaginare che si tratta dei figli d'immigrati. Anche in Germania si è avuta la
soppressione degli esami di transizione, attenuata però dalla validità delle
pagelle di fine anno da parte degli insegnanti. C'è stato poi, negli anni '70
nei due Länder dello Hessen e della Bassa Sassonia un tentativo di riforma
all'americana, con l'introduzione di una scuola unica invece delle alternative
standard (Realschule, scuola di avviamento, e Gymnasium, Liceo).
Fortunatamente, si trattò di un'offerta opzionale alle famiglie, che, dopo un
picco del 30-40 %, perse progressivamente iscritti, estinguendosi spontaneamente
dopo una decina d'anni. (9)
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Cultura e selezione per salvare la scuola americana: raccomandazioni di un
uomo di scienza
Abbiamo già accennato alle iniziative dei presidenti. Queste sono rese
estremamente difficili dal fatto che, dopo quasi cinquant'anni di scuola
riformata, non vi sono neppure persone che abbiano il livello culturale
necessario per formare una classe di insegnanti con la quale condurre avanti una
riqualificazione del sistema. La situazione emerge da un appello che l'illustre
fisico americano Frederick Seitz, che tutti i fisici dei solidi conoscono non
fosse altro che per le cosiddette “celle di Wigner-Seitz”, ha lanciato dalla
rivista Nature, un settimanale per
ricercatori scientifici di grande prestigio e diffusione (10).
L'articolo s'intitola "Il declino del generalista", intendo con ciò
il trionfo della specializzazione estrema in tutti i campi del sapere. Dopo aver
accennato al fatto che, durante una vita professionale iniziata prima del 1930,
è stato testimone non solo dell'aumento della barriera fra le scienze e le
lettere, ma di una di frammentazione progressiva che è andata estendendosi
anche in quelli che una volta erano campi ben integrati.
Pochi ricercatori al di sotto dei cinquant'anni, scrive Seitz, hanno familiarità
o esprimono molto interesse per aree di ricerca al di fuori delle loro
preoccupazioni professionali. La specializzazione nelle scienze umane è
diventata così pronunciata che concezioni aberranti -- come la teoria
dell'Atena Nera, fondata sulle tesi che le realizzazioni della Grecia classica
ebbero origine in Africa, fioriscono
come strutture intellettuali essenzialmente indipendenti che galleggiano
liberamente.
Dopo aver riconosciuto che questo andamento si spiega in parte con la crescente
complessità in molti campi di ricerca e con le condizioni di intensa
concorrenza, egli mette il dito su quella che considera la piaga principale, le
scelte compiute nel campo dell'istruzione, che, anziché offrire agli allievi
vari livelli e iter di istruzione, producono numeri sempre più grandi di
studenti che hanno campi di interesse molto ristretti.
E, traendo le conclusioni da cinquant'anni di esercizio di quel "modello
americano" che qui si ammira tanto, aggiunge:
Per la maggior parte gli allievi non vengono preparati a divenire dirigenti
aperti, esperti in un campo altamente professionale, e aspirano perciò a
trovare un posto in strutture sovraccariche che sempre meno hanno bisogno
di operai relativamente poco qualificati. Si combinano con questo fattore le
distrazioni di una cultura popolare altamente intrusiva che penetra ovunque,
divorando il tempo che in altre condizioni uno studente potrebbe
dedicare a lavorare per scopi intellettuali più elevati. Negli Stati Uniti la
formazione in matematica è stata degradata così come gli altri contenuti
essenziali, come le lingue o i corsi “essenziali” che erano standard quando
io ero studente e furono d'importanza capitale nel mio sviluppo.
Seitz risponde poi a una domanda che a noi sembrerebbe superflua: occorrono
uomini con una vasta base culturale - quelli che egli chiama “generalisti”?
Pur ammettendo che, almeno nella scienza (che è il campo che più lo
interessa), possano essere utili anche specialisti senza una visione più ampia,
egli risponde decisamente di sì, e ricorda che da sempre lo sviluppo
di tutti i campi dello scibile è stato guidato da un'oligarchia di esperti che
avevano una visione delle cose più ampia della media. Anche concedendo che per
lo più i progressi più importanti prendono spunto dall'opera di un singolo
eccezionalmente dotato, l'opinione collettiva del gruppo dei suoi pari, i cui
membri hanno invariabilmente dato contributi di primo piano al campo nel suo
insieme, danno all'impresa
un senso di unità, nonché di guida alla maggioranza di coloro che ci lavorano.
Uomini come Albert Einstein, Niels Bohr, Arnold Sommerfield, Erwin Schrödinger,
Werner Heisenberg, Wolfgang Pauli, Paul Dirac, Eugene
Wigner ed Enrico Fermi, agendo pur senza diretti rapporti come gruppo, guidarono
la comunità della fisica nell'età della meccanica quantistica. Gruppi simili
di leaders hanno avuto parti analoghe in aree del tutto
diverse fuori della scienza, come le arti, la storia, l'archeologia, l'economia
e le scienze sociali.
Ci vuole dunque una leadership altamente motivata e ampia con un'ampia
base culturale, per evitare che, come sta infatti avvenendo, i campi di sviluppo
culturale scivolino verso una piatta mediocrità o degenerino “in
isole non coordinate governate da individui di statura inferiore che hanno punti
di vista ristretta e diosincratica”. Qui Seitz stesso avrebbe potuto segnalare
che lo spirito delle riforme dell'istruzione del tipo americano da noi importato
ha precisamente questo risultato, di affidare completamente il governo
dell'istruzione stessa a quelli che da noi, quando ancora si sapeva in che modo
si ebbe il tramonto della repubblica romana, si chiamavano “tribuni della
plebe”. Difende poi la sua analisi dall'accusa di esaltare una cultura
affidata ai “baroni” universitari, osservando che il pericolo di un
conservatorismo che rallenti o addirittura blocchi certi processi evolutivi
fisiologici non si realizza quando la base culturale e la selezione sono molto
efficienti, perché in condizioni del genere le tensioni all'interno della
comunità professionale portano a un mutamento dell'autorità riconosciuta; e
cita per dimostrarlo il processo che condusse al riconoscimento della pittura
impressionista.
A questo punto, forse senza neppur rendersi conto di stare indicando i
responsabili della situazione, Seitz accenna a quella che in Italia si chiama la
lobby psicopedagogica:
Quale può essere il rimedio per il grado di specializzazione sempre crescente?
Ai livelli dell'istruzione più alta, le forze correntemente al lavoro, sia
interne che esterne, favoriscono la specializzazione. Per di più, molti gruppi
di scienze sociali e umanistiche nelle università sono in mano a movimenti
raccolti sotto la bandiera della political correctness, che rifiuta in
tutto o in maggior parte i criteri di autorevolezza e competenza che avevano
guidato i professori nel passato. Penso che la riforma e il rinnovamento debbano
cominciare ai livelli di istruzione elementare e secondaria.
Ed ecco infine la conclusione, che suona, se non tragica, almeno deprimente in
un paese come il nostro, dove si sta procedendo a distruggere un sistema
scolastico che è quello che Seitz propone agli Stati Uniti, riconoscendo un
principio che, come si vedrà più sotto, è proprio quello portato dalla
rivoluzione francese in tutta Europa e sancito esplicitamente dalla nostra
costituzione:
Le scuole devono riconoscere che gli studenti di “élite” possono assorbire
un programma di materiale di gran lunga più diversificato che non lo studente
medio. Qui si ha che fare con menti flessibili e aperte capaci di
attraversare a volontà i confini delle discipline e con la libertà di farlo.
La guida degli insegnanti e dei genitori ad uno stadio precoce può favorire il
processo. Molti generalisti del futuro potrebbero emergere in questo modo. I
docenti coinvolti devono essere professionalmente preparati nei campi che devono
coprire e appassionati alla loro missione. In genere meriteranno un compenso
economico speciale.
Per un recupero della cultura in America: le preoccupazioni degli economisti
Non è solo da parte dei vecchi artefici del rigoglio scientifico del secolo
XX che vengono analisi preoccupate. Esse vengono anche dagli economisti.
William Pfaff, in un articolo sull' International Herald Tribune,
giornale molto serio, ma chiaramente favorevole a posizioni che in Italia si
chiamerebbero genericamente “di sinistra” (fra l'altro non esprime molta
simpatia per il neopresidente Bush) -, lancia un appello per il recupero della
cultura in nome del progresso economico, recensendo il libro ``La cultura conta:
come i valori foggiano il progresso umano'' di David Landes
dell'Università di Harvard, uscito poco tempo fa.
Egli osserva che i principi ideologici prevalenti in ogni società cambiano col
tempo, fra l'altro per l'estendersi delle conoscenze. Giustamente fa notare che
la recentissima dimostrazione che l'uomo, geneticamente
parlando, è complicato solo il doppio della drosofila, e tra loro condividono
il 99.9\% dei geni è stato un gran colpo per il determinismo genetico. Forse
avrebbe dovuto specificare che il determinismo in questione non è quello
moderato e specifico della scienza, ma quel determinismo ideologico che pretende
di giustificarsi con una scienza conosciuta molto superficialmente. Comunque
sia, Pfaff prosegue osservando che, contro una concezione della scuola che non dà
alcuna importanza a cultura e formazione umana, sembra che si debba ammettere
che cultura e educazione contano nel renderci ciò che siamo. “Questo”,
scrive, “è un po' come una riscoperta della ruota, giacché prima che il
positivismo si impadronisse ampiamente delle scienze sociali, nelle università
americane negli anni 50, sia i professori che i profani prendevano per scontato
in generale che la cultura aveva molto a che fare con il modo in cui si
sviluppava la civiltà materiale”. Anche lui, come Seitz, attribuisce la
guerra contro questa convinzione tradizionale ai gruppi di pressione scarsamente
preparati ma politicamente molto attivi che si sono serviti dell'università e
dei mass-media per imporre idee di fondo che hanno portato alla situazione
odierna. Sia pure senza polemiche, parla chiaramente delle responsabilità dello
scientismo e del femminismo radicale. Quella convinzione, in verità, dipendeva
dai documenti e dalla critica
storiografica, e la storia aveva finito per esser considerata conoscenza `soft'
-- non scientifica, aneddotica, legata essa stessa alla cultura, anzi, ancor più
recentemente, era vista una favola costruita dai patriarchi
bianchi maschi come strumento per opprimere gli altri. Suggerire che la civiltà
liberale, la scienza e la tecnologia moderne sono emerse nell'Europa occidentale
a causa di uno sviluppo culturale particolare,
legato alle idee, ai valori e alla filosofia del mondo classico, alle religioni
giudaica e cristiana e alle idee del rinascimento e dell'illuminismo europei era
ritenuto una denigrazione di altre civiltà, ove tale sviluppo non aveva avuto
luogo.
Landes [nel suo libro] dice invece che “se c'è qualcosa da imparare dalla
storia dello sviluppo economico è che la cultura fa quasi tutta la
differenza”. E un rapporto del New York Times su questo argomento fa
notare che quest'idea, “popolare ai primi del ventesimo secolo”, sta ora
“mettendo a disagio studiosi e strateghi”, perché “essa costituisce una
sfida per le ipotesi di partenza degli economisti di mercato e dei
pensatori liberali e marxisti”. Questi ultimi sono quasi tutti, in qualche
misura, deterministi economici.
A questo punto, anche se è marginale per la nostra preoccupazione immediata,
vale la pena di riferire anche la coraggiosa denunzia che l'articolo di Pfaff fa
delle responsabilità delle lobbies intellettuali anti-culturali nei
confronti dell'Africa.
La questione, scrive Pfaff, è di interesse pratico per le scelte di strategia
politica ed economica. Prendiamo il caso peggiore: il problema dell'Africa
contemporanea.
Fino agli anni '50, l'Africa era considerata una regione di culture pre-moderne,
sviluppate tra vari popoli che originariamente praticavano una agricoltura
essenziale, la pastorizia, oppure la caccia e la raccolta.
Alcune culture avevano un'arte molto elaborata; tutte avevano codici di valore e
rituali complessi; alcune erano abbastanza progredite politicamente, giacché
somigliavano in molti aspetti al feudalismo europeo;
ma tutte mancavano di lingue scritte o di conoscenza scritta.
La conquista imperiale dell'Africa dal XV secolo, seguita da colonialismo,
schiavitù, sfruttamento e tentativo di imporre idee, valori e istituzioni
europee, aveva certamente demolito in larga misura questi sistemi culturali,
minando i modi di vita e di sussistenza africani.
Poi, nei tardi anni 50 e nei primi anni '60, un'ondata di sentimento
anti-coloniale spazzò non solo l'Africa ma le stesse società coloniali
europee. La teoria accademica e politica dominante dichiarò che l'arretratezza
dell'Africa era stata prodotta dal colonialismo. L'idea di fondo era che le
istituzioni democratiche e l'aiuto estero alle economie africane avrebbe
permesso al continente di sorpassare altre nazioni in via di sviluppo e di
giungere ad avere un prestigio da uguale nella società internazionale. Si
diceva che con la giusta quantità di aiuto finanziario, la velocità di
``decollo'' economico sarebbe aumentata e ne sarebbe seguito uno sviluppo
economico autonomo. Il cambiamento economico avrebbe generato un cambiamento
sociale e un progresso politico. Gli economisti di mercato liberali e i marxisti
erano tutti convinti di questo. Nessuno parlava di cultura. Ciò sarebbe stato
``razzista''. Inascoltati, i ``vecchi lupi d'Africa'' dell'epoca predissero
esattamente ciò che è avvenuto in molta parte dell'Africa di oggi: conflitti e
violenza etnica sociale e politica in una condizione di completa anarchia;
governo demagogico incompetente e sfruttatore; declino o addirittura collasso
dell'economia, dell'istruzione e della salute pubblica. L'Africa fu liberata dal
colonialismo, ma per diventare un deserto culturale. La vecchia società
dell'Africa era stata culturalmente devastata, e non c'era stato tempo perché
qualcosa di serio la sostituisse.
Ecco dove siamo oggi. Gli africani stanno morendo di AIDS non curata e di
malattie endemiche, dei resti degli interventi della guerra fredda, la rovina
dell'agricoltura di sussistenza imposta dal mercato, commercio di
armi incontrollato e l'indifferenza della società internazionale. Al fondo di
tutto questo c'è stata l'insistenza dell'agire in base a teorie sull'Africa
piuttosto che in base alle realtà evidenti.
Le “teorie sull'Africa” sono in realtà un'applicazione delle teorie
sociopolitiche e psicopedagogiche campate in aria di cui abbiamo indicato sopra
le origini e le giustificazioni, e denunciate da Seitz e Pfaff in base a
esperienze concrete pluridecennali: stolte teorie che si riconducono al
principio che la cultura, cioè la tradizione e i valori, non abbiano alcuna
importanza. Si riducono, insomma, al rifiuto radicale dell'umanesimo.
Conclusione: come si aggira la costituzione
Riassumo qui i punti precisi su cui si fonda l'affermazione che il modello
americano non funziona e inoltre non è compatibile con la nostra costituzione.
Si tratta di estratti di un documento fatto pervenire alla commissione cultura
della camera e, a quanto risulta, messo agli atti senza alcuna discussione.
I testi costituzionali che ci interessano sono:Art. 3, 2° comma: È compito
della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che,
limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il
pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i
lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Art. 33, 1° e 2° comma: l'arte e la scienza sono libere e libero ne è
l'insegnamento.
La repubblica detta le norme generali dell'istruzione ed istituisce scuole
statali per tutti gli ordini e gradi.
Art. 34, 3° comma. I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno
diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.
Il documento proseguiva come segue:
“La riforma portata avanti dall'ex ministro Berlinguer è una fedele copia
della riforma condotta negli Stati Uniti negli anni '50. Tale riforma ha avuto
effetti disastrosi, e so per certo che né l'on.le Berlinguer né il suo
successore hanno avuto notizia e tanto meno preso in considerazione la
documentazione ufficiale in materia (v. note). La nuova scuola fu battezzata a
suo tempo "babysitter nazionale" dalla gente comune negli USA.
“A parte questi dati "sperimentali", la struttura della scuola
americana non è ammissibile in Italia perché non è compatibile con le norme
costituzionali (art. 3, 2o comma, art. 33, art. 34 V. nota in calce).
Infatti, a parte lo spirito dello strumentalismo evoluzionista da cui fu
ispirata, essa è prevista per un sistema in cui la costituzione non riconosce
il diritto allo studio; negli Stati Uniti la scuola pubblica è un servizio
sociale per i poveri che non possono permettersi di pagare scuole normali
(private). Questo spiega che negli USA si abbia (a), l'insistenza sui minimi
essenziali per le materie considerate utili (escludendo storia, letteratura,
ecc.),
(b), l'assenza di ogni stimolo per gli studenti capaci, (c) l'impiego di
insegnanti che hanno soltanto una formazione quadriennale in pedagogia per
insegnare qualunque materia.
“Si può obbiettare che si può rispettare la costituzione giocando sui
contenuti. In realtà, se i cicli elementare e secondario inferiore sono
unificati e strutturati in modo che gli allievi siano uniformemente istruiti nei
limiti di quello che può accettare spontaneamente anche l'allievo meno
volenteroso e interessato, si può raggiungere al pi. (in otto o nove anni) il
livello d'istruzione di una buona quarta elementare.
Lo provano le statistiche USA. Non è pertanto concepibile che si possa fornire
la cultura prevista da un buon liceo o da un buon istituto tecnico in un ciclo
"secondario" di tre o quattro anni. Si può obbiettare che, sia
pur con ritardo, l'Università potrebbe assumersi il compito di colmare i vuoti
rispetto all'attuale scuola secondaria. A parte l'inopportuno spostamento in
avanti dell'età d'ingresso nelle professioni, questo non è
pensabile, perché a causa della recente riforma dell'università con l'obbligo
della laurea breve già è difficilissimo tenere corsi di base di respiro
sufficiente per formare gli studenti che vogliono seguire un corso
completo di studi nelle singole discipline.
(a), docenti che siano non solo ben pagati, ma abbiano il prestigio che deriva,
come sanno coloro che studiarono fino a trent'anni fa, soprattutto dal fatto che
hanno tempo di studiare e un minimo di competitività;
(b) condizioni perché sia possibile creare in classe un'atmosfera d'interesse e
di emulazione fra gli allievi.
“Da notare che ambedue queste esigenze erano soddisfatte prima del 1970 dalle
numerose verifiche intermedie nonché dall'esistenza dei voti.”
Bibliografia
(1) G. Del Re: Uno stile italiano di cooperazione, Universitas (Roma)
VIII-24(1987) pp. 61-65.
(2) Wilhelm Weischedel (1905-1975):
Die Philosophische Hintertreppe: die grossen Philosophen im Alltag und Denken -
La scala di servizio della filosofia (Monaco di Baviera: Deutsche Taschenbuch
Verlag 1977. Esiste in trad. italiana).
(3) W. Durant:The story of
philosophy (New York, Pocket Books 1934), da Creative intelligence (1917) di
John Dewey. A proposito di Dewey, si veda anche il Grande dizionario
delle opere della filosofia, a cura di Franco
Volpi, publicato in tedesco (Stoccarda: Alfred Kröner 1999) e annunciato in
edizione italiana.
(4) Cf. P. Brunori, "Il nuovo che avanza," Punti critici (Firenze)
no.4, Febbraio 2001, pp. 9-16.
(5) La condizione della scuola inglese fu oggetto duuna denuncia famosa,
presentata in forma di romanzo (dal titolo Nicholas Nickleby) dal grande Charles
Dickens nella seconda metà dell'Ottocento, quando già in Europa
fiorivano i licei. Per quanto riguarda la nostra costituzione, v. l'ultimo
paragrafo di questa relazione.
(6) Robert Audi (ed.): The
Cambridge Dictionary of Philosophy (Cambridge: Cambridge U. Press 1995), s.v.
"Dewey".
(7) Indirizzo Internet www.NCES.ed.gov.
(8) Servizio di Richard Wolffe sul Financial Times del 21 gennaio 1999.
(9) Notizie gentilmente fornite da Joachim Schummer dell'Università di
Karlsruhe, direttore della rivista di filosofia della scienza Hyle.
(10) Frederick Seitz, "Decline of the Generalist," Nature vol. 403,
February 2000, pp. 483-4.
(11) William Pfaff, “La cultura conta -- e in Africa oggi conta moltissimo”,
International Herald Tribune, 17-18 febbraio 2001, pag. 6.
UNA SOLUZIONE DIVERSA A PROBLEMI REALI:
PROPOSTA PER UNA RIQUALIFICAZIONE DEL SISTEMA SCOLASTICO*
di Luciana Lepri
La Fondazione Internazionale Nova Spes, insieme con il
Centro Studi Gilda, l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, il Prisma e
Lucio Russo[1] ha lavorato per circa due
anni ad un’ipotesi di riforma della scuola alternativa a quella del Ministero
della Pubblica Istruzione. La proposta - che si può consultare sul sito internet www.novaspes.org -
nasce, dunque, come alternativa alla riforma Berlinguer-De Mauro che, nella
nostra interpretazione, rischia di ridurre ulteriormente le potenzialità
culturali del sistema scolastico italiano.
La chiave di volta per comprendere la logica del progetto
Berlinguer è negli aggettivi integrato e
flessibile apposti al sostantivo “sistema”.
Con il primo attributo si intende un processo di educazione,
di istruzione e di formazione che annulla, sul piano teorico e su quello più
concreto della architettura e della organizzazione dei contenuti, ogni
distinzione tra cultura “speculativa” e cultura “operativa” cancellando
la tradizionale impostazione delle scuole articolate in istituti ad indirizzo
scientifico e umanistico ed istituti tecnici e professionali. Nel disegno
Berlinguer si può passare da un’area e/o da un indirizzo ad un altro e dalla
scuola “formale” alla
formazione professionale e viceversa.
Ciò è possibile perché i contenuti e i percorsi sono
articolati in moduli completamente autosufficienti, decontestualizzati, con
scarsa o nulla caratterizzazione culturale, cumulabili
(si possono assommare moduli di aree e/o indirizzi diversi, afferenti al
percorso scolastico o a quello della formazione professionale), valutati con un
metro quantitativo (n° x punti) e che danno diritto
a “crediti” spendibili in ogni segmento dell’iter formativo.
Questo secondo aspetto della riforma ne caratterizza la flessibilità
e assicura a tutto il sistema una pervasiva mobilità. A queste
considerazioni occorre aggiungere:
1 - L’organizzazione del ciclo di base, della durata di
sette anni, che non opera alcuna distinzione, né per gli alunni, né per i
docenti, tra scuole elementari e
medie (o secondarie di primo grado).
2 - La trasformazione della scuola secondaria superiore in
istituti denominati tutti, indifferentemente, licei e la cui durata,
teoricamente di cinque anni, di fatto è di tre anni poiché il biennio iniziale
è incorporato nell’obbligo scolastico e lo conclude.
3 - La riduzione di un anno dell’intero percorso
scolastico pre-universitario (12 anni, anziché i 13 finora previsti).
In sintesi l’analisi della Riforma Berlinguer/De Mauro
permette di evidenziare alcuni elementi portanti.
.
Obiettivi:
1)
Portare il massimo numero possibile di giovani a concludere il corso di
studi o nel sistema della scuola “formale” e/o nel canale della formazione
professionale.
2)
Instaurare una stretta relazione tra esperienza scolastica ed esperienza
lavorativa.
3)
Dotare, in conseguenza, di ciò il sistema della massima mobilità e
flessibilità.
. Strategie:
a)
Decontestualizzare i contenuti disciplinari disarticolando, di fatto, le
discipline stesse (moduli e crediti).
b)
Attenuare, se non addirittura abolire, gli elementi caratterizzanti le
aree e, si ipotizza, anche quelli specifici degli indirizzi (passarelle tra aree
e indirizzi).
c)
Garantire allo studente il successo formativo attraverso un’ampia gamma
di opzioni che arrivano fino alla possibilità di costruirsi il proprio percorso
di studio.
d)
Emarginare la formazione linguistica tradizionale attraverso
l’introduzione delle nuove tecnologie infotelematiche in funzione di linguaggi
alternativi.
.
Mezzi:
1)
Impianto organizzativo modulare.
2)
Impianto disciplinare modulare.
Questo
per quanto attiene il profilo della riforma ministeriale; a quanto già detto
dobbiamo aggiungere alcune osservazioni che riguardano il metodo e le strategie
di attuazione. Si tratta di una riforma fatta a piccoli passi con norme
disseminate in una pluralità di provvedimenti legislativi: è stato perciò
difficile - per molti addirittura impossibile - avere chiare il progetto nella
sua globalità e poterne fare una valutazione.
L’assetto organizzativo ha preceduto l’indicazione
dell’idea di scuola e delle sue finalità, nonché quella dei contenuti ed ha
finito per condizionare questi ultimi. Un esempio è il curricolo di storia per
il ciclo di base che ha scavalcato il settennio ed ha invaso i primi due anni
della secondaria ed essendo questi ultimi terminali, per quanto riguarda
l’obbligo scolastico, ed iniziali per il ciclo superiore si può ipotizzare
che problemi analoghi si presenteranno anche per altri curricoli.
Nel corso delle nostre riflessioni abbiamo seguito una linea del tutto diversa.
Riteniamo, infatti, che ogni progetto di riforma debba innanzitutto indicare esplicitamente che idea di scuola intende attuare, quali sono le finalità e gli obiettivi che caratterizzano la scuola in quanto tale e la differenziano, in ragione della propria identità, da sistemi con essa confinanti: la famiglia, il mondo economico produttivo, il mondo del lavoro.
Solo a questo punto se ne può tratteggiare l’architettura che è il modello organizzativo che permette di inverare e di concretizzare tanto l’idea di scuola quanto quella delle sue finalità. A ciò deve seguire l’indicazione dei contenuti in modo tale che la loro scelta e la loro articolazione permetta una precisa valutazione della loro funzione all’interno del progetto di educazione e di istruzione e del loro contributo nel raggiungimento degli obiettivi e delle finalità del sistema educativo nel suo complesso.
Per quanto concerne la natura e le finalità della scuola questi sono, in sintesi, i concetti fondamentali espressi nella nostra Proposta:
- la scuola è un’istituzione attraverso la quale la collettività assicura la continuità culturale tra le generazioni ed educa alla libertà nella responsabilità.
- In quanto istituzione essa deve perseguire finalità ed interessi generali: essa deve, pertanto, coniugare la centralità della persona umana nel processo educativo con le finalità generali e gli interessi della società.
Il sottolineare l’esigenza della continuità culturale tra le generazioni chiarisce il rapporto che deve esserci tra tradizione e innovazione; l’educare alla libertà nella responsabilità nega che il successo formativo sia di per sé un diritto, concetto più volte dichiarato ed ultimamente ribadito dall’on.le Berlinguer nei suoi scritti. A questo proposito noi pensiamo che la scuola debba mettere in atto le strategie più efficaci e debba creare tutte le condizioni affinché gli alunni concludano con successo i loro studi, ma questo senza prescindere dal loro coinvolgimento e dal loro impegno. In altre parole al diritto allo studio deve corrispondere il dovere di studiare.
Successivamente abbiamo individuato i parametri sui quali costruire un tipo di organizzazione scolastica. Essi sono: identità, specificità e differenziazione.
L’identità del sistema è il principio che lo distingue da altri sistemi con cui, lo abbiamo già detto, la scuola confina e interagisce: essa perciò, cerca la collaborazione con le famiglie ma senza la pretesa di sostituirle, ha presenti le esigenze del mondo del lavoro e dell’economia, ma senza assoggettarsi supinamente alle loro richieste.
L’identità deve inoltre salvaguardare la professionalità dei docenti, gravemente compromessa dall’ipotesi del docente unico e quella degli alunni che, nel settennio unico, vedono misconosciute le pur marcate diversità dell’età evolutiva.
La specificità riguarda il riconoscimento del valore formativo ed educativo delle discipline che non possono essere sostituite da vaghi ed evanescenti saperi.
La differenziazione, infine, è necessaria per individuare correttamente i gradi e gli ordini di scuola, le aree e gli indirizzi. Tanto per fare un esempio, noi non accettiamo la generica dizione “Licei” per tutta la secondaria superiore.
Chiariti questi concetti fondamentali ci sembra opportuno parlare più a lungo di alcuni elementi che riteniamo positivamente innovativi, mentre per i dettagli dell’articolazione dei cicli rimandiamo al testo della Proposta.
Per coniugare la scolarizzazione di massa con un’accettabile qualità culturale ed educativa del sistema scolastico e per contenerne la dispersione in limiti fisiologici riteniamo sia essenziale introdurre meccanismi efficienti di selezione-orientamento all’interno della scuola. La scuola selettiva di un tempo - che espelleva dal sistema formativo chi riportava insuccessi scolastici - assicurava spesso un buon livello di studi ad una minoranza ma si disinteressava degli espulsi. La generalizzazione dell’obbligo scolastico e di quello formativo deve evitare espulsioni dal sistema ma non può, in senso assoluto, evitare gli insuccessi. La scelta di fingere di eliminarli con provvedimenti amministrativi è, a nostro parere, disastrosa.
L’analisi delle dinamiche degli insuccessi scolastici rende plausibile l’ipotesi che nella stragrande maggioranza dei casi essi dipendano o da scelte sbagliate (che non rispettano, cioè, le inclinazioni e il tipo di intelligenza del soggetto) o dal proporre allo studente traguardi troppo al di sopra o troppo al di sotto delle sue capacità e possibilità (di intelligenza, di applicazione allo studio etc.). Ci sono poi i casi di ragazzi provenienti da situazioni emotivo-affettive e ambientali disagiate se non disastrose: nei confronti di questi ultimi la scuola ha il dovere di mettere in atto tutte le sue strategie e le sue risorse ma non può, almeno a nostro avviso, chiedere ai docenti interventi di tipo psicoterapeutico né proporre loro di sostituirsi alle figure genitoriali.
Capacità di scelta e possibilità di confrontarsi con traguardi congruenti diventano, allora, i due termini di riferimento per raggiungere gli obiettivi più sopra indicati.
La selezione-orientativa è lo strumento (o la strategia, se vogliamo) che permette di realizzarli.
Il criterio generale di questa strategia è di organizzare le discipline (e per la secondaria superiore, anche i curricoli) secondo gradi di crescente complessità.
Essa si attua a partire dalla scuola media che manteniamo come punto di riferimento, in quanto riteniamo che i suoi debbano essere i caratteri del triennio conclusivo del ciclo di base.
Per la scuola media si ipotizza una articolazione delle materie in livelli di crescente complessità e difficoltà, mantenendo integra l’unità della classe. Tali livelli - se ne possono indicare tre per ogni disciplina - non sono da confondersi con i moduli previsti nel progetto di riforma, perché - a differenza di questi ultimi - si configurano all’interno di una disciplina mantenendone intatta l’identità, la specificità e la coerenza.
Le verifiche devono essere di diversa complessità per gli studenti inseriti nei diversi livelli di ogni disciplina e si attuano in alcune ore differenziate. Il livello di inserimento è periodicamente rivedibile in base ai risultati raggiunti. Al termine del triennio, superato l’esame di licenza media, lo studente riceve un elenco degli indirizzi del ciclo successivo consigliati nel suo caso. L’iscrizione alla scuola secondaria è automatica per gli indirizzi consigliati, mentre per gli altri è subordinata al superamento di una prova d’ingresso organizzata dalla scuola prescelta.
Selezione
orientativa e livelli per il ciclo secondario
Fermo restando il criterio in base al quale si costruiscono i livelli, la situazione si presenta più articolata nella scuola secondaria superiore perché essa si suddivide in aree e indirizzi diversi tra loro per discipline e per obiettivi specifici.
Preliminarmente occorre chiarire che riteniamo non possa essere lasciato ad ogni singola scuola il compito di inventare “progetti” più o meno fantasiosi o, peggio ancora, al singolo studente di montarsi da sé i percorsi di studio che risulterebbero, il più delle volte, incoerenti, ma è necessario, in primo luogo, prevedere una vasta scelta di curricoli coerenti raggruppati in poche aree. Ogni istituto dovrebbe avere, a nostro parere, una propria identità culturale articolata e precisata grazie alle scelte lasciate all’autonomia scolastica, che comprenderebbero:
-
La scelta dei curricoli da attivare tra quelli previsti per la propria
area (non mescolandoli all’interno della stessa classe);
- l’utilizzazione di una parte dell’orario curricolare (che a nostro parere non deve superare il 15% del monte ore complessivo) per l’offerta di moduli integrativi opzionali e per attività extracurricolari.
All’interno di un curricolo alcune discipline verrebbero trattate a livelli di differente complessità e difficoltà; l’intero stesso curricolo, inoltre, risulterebbe, per l’inserimento, l’esclusione o il parziale trattamento di un certo numero di materie, più o meno impegnativo.
I moduli opzionali permetterebbero all’alunno (se è il caso, insieme con le attività extracurricolari) di impadronirsi dei prerequisiti per il passaggio da un indirizzo o da un’area ad un’altra (sempre previa verifica della scuola che accoglie) o di approfondire aspetti laterali o terminali di alcune discipline.
Problemi
aperti
La proposta di introdurre la selezione orientativa, per evidenti limiti del nostro gruppo di ricerca, relativi sia ai mezzi materiali che alle competenze tecniche necessarie, non può entrare nel dettaglio di percorsi di apprendimento organizzati per materie e curricoli di diversa complessità e difficoltà.
I problemi da affrontare, in sede tecnica, sono, essenzialmente:
- la scelta delle discipline da inserire nel curricolo per caratterizzarne l’identità;
- la scelta delle combinazioni di materie che è opportuno organizzare per livelli di crescente difficoltà (è evidente, per esempio, che se si individua, in un indirizzo, matematica essa debba accompagnarsi alla fisica);
- una accettabile soglia di tollerabilità al di sotto o al di sopra della quale si richiede il passaggio ad altro livello o indirizzo o area;
- l’individuazione di moduli opzionali che, combinati con un determinato curricolo, diano all’alunno la possibilità di passaggio ad altro indirizzo e/o area, nonché a livelli diversi per le discipline cui essi si applicano.
Conclusioni
La selezione-orientativa assicura una migliore distribuzione degli alunni all’interno di percorsi di istruzione e di formazione più congeniali; permette alla scuola e agli studenti ragionevoli spazi di libertà e di scelta in grado di rispettare tanto l’autonomia quanto l’indispensabile coprotagonismo nella costruzione, per le scuole, del progetto culturale e, per gli studenti, dei percorsi di apprendimento; infine svolge una preziosa azione orientativa e auto orientativa.
A nostro avviso la selezione-orientativa rappresenta, perciò, il punto di equilibrio tra autonomia e anarchia, tra il protagonismo assoluto del soggetto discente e una sua possibile libertà di iniziativa accompagnata dalla ragionevole guida dei docenti.
Area
classico-scientifica
Rispetto alla riforma attuale la nostra proposta si differenzia, tra l’altro, anche per l’unificazione delle aree “classica” e “scientifica”. Crediamo infatti che un’area “classica”, per essere veramente tale, non possa caratterizzarsi in contrapposizione con lo studio “scientifico”, che rappresenta una porzione importante di quella conoscenza “teorica” che dovrebbe caratterizzare la scuola tipicamente preuniversitaria. Un’area “classica” concepita come una particolare specializzazione finirebbe col negare la propria ragione d’essere. D’altra parte una preparazione preuniversitaria estranea agli studi umanistici assicurerebbe anche minori capacità di riflettere criticamente sulla scienza e sulle sue applicazioni. Per queste ragioni in alcuni scienziati il decadimento degli studi classici desta una grande preoccupazione per lo sviluppo e per il futuro della ricerca scientifica.
Lo studio delle letterature classiche in lingua originale caratterizzerebbe solo alcuni dei curricoli (che non dovrebbero coincidere con quelli in cui lo studio scientifico è meno approfondito), ma bisognerebbe offrire a tutti gli studenti dell’area, sin dal primo anno, seri elementi di cultura classica, che permettano tra l’altro una scelta consapevole del proprio curricolo successivo.
Allo scopo sia di agevolare i passaggi desiderati, sia di diminuire il numero di quelli indesiderati, può essere utile una parziale personalizzazione dei curricoli, ad esempio con delle ore dedicate a recuperi o ad approfondimenti, o permettendo di studiare qualche materia ad un livello diverso da quello previsto nella classe di appartenenza. Le differenze tra i percorsi di studio individuali dovrebbero però essere limitate in modo da salvaguardare la sostanziale omogeneità culturale di ogni classe.
Abbiamo, infine, attentamente studiato e approfondito il problema della formazione professionale. Innanzitutto appare evidente, almeno alla nostra riflessione, che essa richieda una razionalizzazione dello stato esistente. Il canale di formazione professionale dovrebbe avere consistenza sistemica, essere distinto da quello scolastico e garantito nella pari dignità del percorso e degli sbocchi finali. La distinzione dei due sistemi nasce dalla natura dell’intelligenza e delle inclinazioni della persona umana che in taluni è prevalentemente pratico-operativa e in altri prevalentemente teorico-speculativa. Si tratta di accentuazioni, perciò usiamo l’avverbio prevalentemente, ma sono accentuazioni sostanziali che indirizzano il soggetto verso i vari tipi di attività e di studio.
I due tipi di percorso si differenziano, quindi, non tanto e non soltanto per i contenuti, quanto per gli obiettivi, per l’approccio metodologico-didattico e organizzativo, per la tipologia di relazioni interpersonali tra docenti e discenti e fra gli stessi studenti.
Per la formazione professionale si propone una struttura compatta, ma dotata di flessibilità, articolata in una serie di percorsi formativi - certificabili e al termine dei quali si consegue una qualifica - che, gradualmente, portino dai livelli inferiori fino ai superiori. Tale struttura dovrebbe essere autonoma rispetto al sistema scolastico nel senso che non richiede la necessità di rientri in quest’ultimo e neppure in quello universitario pur prevedendone, a determinate condizioni, la possibilità.
I due sistemi, scolastico e professionale, dovrebbero distinguersi con l’inizio della scuola secondaria e in ambedue dovrebbe essere possibile soddisfare l’obbligo formativo.
A livello nazionale dovrebbero essere stabilite le norme generali di indirizzo, gli obiettivi da raggiungere e le modalità di controllo sui titoli certificabili.
Le Ragioni dovrebbero provvedere alla programmazione e al controllo delle attività di formazione professionale promosse e gestite dalle Agenzie formative, dai centri di formazione, dagli enti privati senza scopo di lucro.
Siamo convinti che dare agli studenti la possibilità di una scelta chiara e qualificata sin dall’inizio delle scuole secondarie salvaguarderà tanto la qualità della scuola quanto quella della formazione professionale e si rivelerà un mezzo più efficace del successo “garantito” per contenere entro limiti fisiologici la dispersione scolastica.
Luciana Lepri
11/05/01
*
L’intervento contiene alcune parti già pubblicate nella Proposta
di riqualificazione del sistema scolastico.
[1] Detti soggetti - che hanno costituito il Comitato di coordinamento - provengono da aree culturali ed ideologiche diverse. Ciò non è casuale: la Fondazione e i suoi partner ritengono, infatti, che la scuola sia di tutti e una riflessione sul suo ruolo e sulle sue finalità deve rispecchiare il pluralismo culturale e assiologico della nostra società. La stessa ispirazione ha guidato il Comitato di coordinamento nella composizione della Commissione alla quale hanno preso parte i proff: Marco Somalvico, Giovanni Stelli, Vittorio Mathieu, Stefano Zamagni, Ledo Stefanini, Giuseppe Del Re, Giuseppe Geraci, Maria Luisa Sasso, Maria Vittoria Cavallari, Antonio La Penna, Maria Teresa Lupidi Sciolla, Salvatore Troisi, Giovanni Salgarelli, Claudia Montedoro, Luciana Lepri, Angela Martini, Serafina Gnech, Laura Paoletti