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Numero 4 - Settembre 2019
Numero 4 Settembre 2019

Il nuovo reclutamento degli insegnanti

Il nodo della professionalità docente tra merito e servizio. In Italia il merito è un criterio equivoco nella sua definizione, ma anche chi non merita qualcosa può sempre sperare. Prima poi arriva un pas o un concorso speciale. Il prezzo da pa-gare è la lentezza


27 Agosto 2019 | di Adolfo Scotto di Luzio

Il nuovo reclutamento degli insegnanti Poche cose appaiono intricate come la struttura del reclutamento degli insegnanti della scuola secondaria. In essa si incontrano e si complicano da sempre due criteri differenti, il merito e il servizio. In linea di principio, si può dire che al primo appartenga l’ambito della selezione concorsuale, al secondo il riconoscimento dell’esperienza professionale. In linea di principio, perché trattandosi di corposi interessi costituiti nell’arena dei cosiddetti claimants for rights, nella definizione concreta dei meccanismi selettivi contano altri fattori, come la capacità di esercitare una pressione vittoriosa sulle strutture della decisione politica e di prevalere a scapito di altri interessi che pure si muovono nello spazio della competizione sociale ma con minori capacità di ascolto e di imposizione. I vecchi contro i giovani, ad esempio. La generazione che oggi ha tra i quaranta e i cinquant’anni e coloro che sono appena usciti dall’ università.
 
Ma pur ragionando in linea di principio, il quadro appena delineato è ulteriormente complicato. La distinzione tra merito e servizio è tutt’altro che assicurata una volta per tutte. Il servizio infatti preme per veder riconosciuta la sua supremazia sul merito, sulla base di un argomento apparentemente inoppugnabile, la professionalità acquisita. Di qui la via privilegiata che l’accordo siglato lo scorso 11 giugno tra il ministro Bussetti e le organizzazioni sindacali traccia ai cosiddetti «meriti di servizio», una locuzione burocratica che apre le porte ad una procedura selettiva «facile». Ci torneremo tra breve. Fermiamoci intanto su questa nozione di professionalità.
 
Nell’atto stesso della sua istituzione essa è infatti inficiata da due fattori decisivi. Esiste innanzitutto un doppio regime della professionalità, quella ai fini dell’abilitazione e quella ai fini della stabilizzazione. Nel primo caso infatti, è una professionalità in senso largo. Vale indipendentemente dal regime scolastico della sua acquisizione (pubblico, privato, della formazione professionale). Nel secondo, invece, si tratta di una professionalità in senso stretto, in quanto acquisita nel circuito esclusivo della scuola di Stato. L’ una dà accesso ai percorsi abilitanti speciali, l’altra alla procedura selettiva facilitata.
 
La ragione di una tale distinzione è facilmente intuibile, trattandosi della gestione di due questioni molto diverse: la legittimazione degli aventi diritto, in un caso; la stabilizzazione del rapporto di impiego pubblico nell’ altro.
 
E tuttavia, il criterio della professionalità ne risulta fortemente indebolito nella sua pretesa di giustificare senz’altro l’accesso alla carriera docente. L’ esperienza acquisita infatti è subordinata nel quadro della procedura selettiva ad una necessità ben più stringente: ridurre il ricorso a contratti di lavoro a tempo determinato. Possedere esperienza non è un titolo sufficiente per accedere ad una procedura concorsuale privilegiata, mentre lo è possedere un’esperienza maturata nel quadro della scuola di Stato. Perché la scuola statale dà maggiori garanzie di qualità del suo corpo docente rispetto alla scuola paritaria? No (anche perché così si manderebbe all’aria la nozione stessa di sistema scolastico pubblico oggi prevalente, al quale concorrono tanto le scuole di Stato che quelle paritarie). Semplicemente, perché qui il fine non è il riconoscimento del valore della pratica professionale ma, più banalmente, della regolazione del rapporto di impiego pubblico. Il fine della stabilizzazione prevale sul riconoscimento del valore della maestria professionale acquisita con la pratica.
 
Dunque, si invoca un criterio, l’esperienza maturata in servizio, per poi dire che il peso effettivo di questo criterio varia in funzione delle circostanze. Questo dovrebbe farci riflettere sul fatto che la professionalità difficilmente ha un contenuto positivamente determinabile a priori (prima cioè di qualsiasi accertamento) ed è piuttosto funzione della negoziazione tra i pretendenti nell’ arena pubblica.
 
Secondo la logica del sistema prescelto con l’accordo dell’11 giugno, in soldoni, il criterio della valorizzazione dell’sperienza lavorativa serve a salire di graduatoria e poi, dentro limiti molto precisi, a stipulare un contratto a tempo indeterminato con l’amministrazione della scuola. Nel primo caso, la promozione non è gratis; nel secondo, i tempi della stabilizzazione sono estremamente lunghi, non fosse altro perché prevedono l’esaurimento delle graduatorie di merito dei concorsi del 2016 e del 2018. Ma fin dall’inizio, la metà entra per la via breve.
 
Che ne è del merito in tutto questo? Da tempo, il concorso si spartisce equamente il campo del reclutamento con le graduatorie ad esaurimento. Nell’ accordo dell’11 giugno si ipotizza una ulteriore divisione. Esaurite le graduatorie di merito dei due concorsi precedenti, la metà dei posti della nuova procedura selettiva è destinata al percorso facilitato. Qual è la misura di questo facile? Veramente eccessiva, a giudicare da quello che si capisce dal testo: una prova scritta «computer based» (cosa?, una tesina, un test?) e un colloquio non selettivo. E poi, via. Chi passa entra, chi si classifica si abilita e il ciclo ricomincia daccapo.
 
In Italia il merito è un criterio equivoco nella sua definizione, ma anche chi non merita qualcosa può sempre sperare. Prima poi arriva un pas o un concorso speciale. Il prezzo da pagare è la lentezza. L’accordo non risolve il problema del precariato, lo allunga ulteriormente. I 24.250 posti messi a concorso per il 2019 verranno assorbiti nell’ arco di dieci anni. Nel 2028-2029 il 20% dei posti sarà ancora riservato alla procedura Fit, chiusa nel 2018.
 
 
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Adolfo Scotto Di Luzio insegna Storia della pedagogia, Storia delle istituzioni scolastiche ed educative e Letteratura per l'infanzia nell'Università di Bergamo. Si è occupato a lungo di storia del fascismo e, in particolare, della costruzione del suo apparato culturale e anche di storia delle istituzioni culturali e della scuola (con un'attenzione mai smessa per l'editoria e la stampa).
Ha pubblicato diversi volumi, tra cui ricordiamo, per il Mulino, «Il liceo classico» (1999), «La scuola degli italiani» (2007) e «Napoli dei molti tradimenti» (2008), «Senza Educazione. I rischi della scuola 2.0» (2016); per Bruno Mondadori «La scuola che vorrei» (2014).
 
 
 
 
 


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Direttore Responsabile: FRANCO ROSSO
Responsabile di Redazione: RENZA BERTUZZI
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Vicecaporedattore: Gianluigi Dotti.
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Hanno collaborato a questo numero:
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