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Numero 1 - Gennaio 2020
Numero 1 Gennaio 2020

A margine di una discussione sull’importanza di insegnare la storia

Quale storia bisogna insegnare agli studenti stranieri o ai figli di genitori stranieri che popolano ormai le aule delle scuole italiane? Il che vuol dire: che italiani vogliamo fare di questi italiani di tipo nuovo che a partire dalla metà degli anni Novanta sono comparsi tra noi? E in che modo pensiamo si debba declinare poi l’identità di quegli italiani che sono i figli di chi è nato e cresciuto in Italia?


29 Dicembre 2019 | di Adolfo Scotto di Luzio

A margine di una discussione sull’importanza di insegnare la storia Di solito si sente la necessità di rispondere alla domanda perché è opportuno insegnare la storia. Molto più rara è l’altra questione, che riguarda il significato di questa stessa storia per noi: cosa vale per noi la storia che si insegna? Sembrano uguali, ma si tratta in realtà di interrogativi molto diversi. Diverse sono, in particolare, le conseguenze che se ne possono ricavare. Domandarsi infatti perché la storia è importante ha un senso solo se questa storia è la nostra storia, altrimenti non si capirebbe perché dovremmo farne oggetto di ricerca o in relazione a cosa si definisca il suo valore, appunto la sua importanza. L’idea che si possa affrontare lo studio del passato come si studiano, ad esempio, le scienze della natura è, nella sua pretesa maturità, ingenua. La storia è il campo dell’azione umana e l’oggetto specifico della sua conoscenza sono i valori, gli ideali, le passioni che hanno spinto gli uomini ad agire. È fatale allora che questi valori, questi ideali, queste passioni interpellino a distanza dei secoli e degli anni i valori, gli ideali e le passioni di chi si accinge al loro studio. Se dunque la storia come conoscenza è inevitabilmente la storia del nostro rapporto con l’oggetto di questa conoscenza, la domanda cosa vale la storia per noi è innanzitutto la domanda: chi siamo noi? o per meglio dire cos’è questo noi, cosa intendiamo per noi quando ci chiediamo che cosa valga per noi lo studio della storia?
 
Dire noi significa delimitare l’ambito di una relazione e dunque il perimetro di un’appartenenza. Senza questa operazione sui confini non è infatti pensabile nemmeno il rapporto con l’altro. In che cosa consisterebbe infatti l’alterità dell’ altro senza la definizione preliminare di una identità? Eccola, allora, la grande questione in gioco nella domanda circa il significato della storia, di una determinata storia, per noi: l’identità. Grande, perché grandi sono ovviamente le implicazioni in gioco di una parola che non si può pronunciare se non con molte cautele, e che molti pronunciano solo per maledirla.
 
Identità in termini storici non vuol dire altro che porsi la questione del soggetto. Chi è che agisce nella storia? Nel corso del diciannovesimo secolo e per buona parte del ventesimo, la risposta a questa domanda è stata: lo Stato. Anche il soggetto antagonista per eccellenza, il proletariato, era tale perché portava con sé l’aspirazione a farsi ordine nuovo. Ad assumere cioè il controllo degli strumenti del comando politico per trasformare la società e, a lungo andare, per abolire lo Stato. Dal canto suo, tutto il movimento anticoloniale nel corso del ventesimo secolo ha espresso un’analoga aspirazione dei popoli oppressi a diventare soggetto storico consapevole di sé, a costituirsi in nazione, che voleva dire Stato-nazione.
 
All’emersione del soggetto nella storia è andata fortemente connessa una pretesa parallela a definire una certa storia in termini di verità. La storia nazionale si è costituita in canone. Date, eventi, protagonisti. A partire dagli anni Sessanta questa pretesa è diventata oggetto di critiche sempre più drastiche, con un’operazione intellettuale che è consistita nello spostare il punto di interesse nella conoscenza del passato dalle élite al potere all’insieme degli elementi comuni, infinitamente piccoli, che muovono le masse. Il grande successo intellettuale conseguito dalla storia sociale nella seconda metà del Novecento ha permesso di esprimere tutta la nuova serie di rapporti politico ideologici in cui l’insegnamento della storia si è venuto a trovare dopo la rottura degli anni Sessanta e della contestazione giovanile. Non solo la verità della vecchia storia nazionale è andata in frantumi, ma tra le molte possibili versioni della storia che a questo punto diventavano disponibili la strada che è venuta delineandosi è consistita nell’affidarsi al prestigio morale del povero come al criterio più certo sul quale fare affidamento. Se la battaglia, per evocare il celebre argomento formulato da Tolstoj in Guerra e Pace, si dissolve nella serie delle versioni dei soldati che vi prendono parte, l’impossibilità di mettersi in cerca di tutte le più piccole testimonianze viene risolta scegliendo in ogni caso il punto di vista del più piccolo e del più umile dei testimoni contrapposto al più grande e al più violento. Il soldato contro il generale, i contadini contro nobili e re.
 
In questo modo accade pure che il problema dell’identità, rifiutato come identità della nazione, ricompaia come identità dei subalterni, come insieme di identità particolari fatalmente irriducibili le une alle altre. Con quali implicazioni dal punto di vista pedagogico? Il problema acquista urgenza politica e civile nel momento in cui l’altro diventa il prossimo nel senso, innanzitutto, della sua prossimità spaziale. Quale storia infatti bisogna insegnare agli studenti stranieri o ai figli di genitori stranieri che popolano ormai le aule delle scuole italiane? Il che vuol dire: che italiani vogliamo fare di questi italiani di tipo nuovo che a partire dalla metà degli anni Novanta sono comparsi tra noi? E in che modo pensiamo si debba declinare poi l’identità di quegli italiani che sono i figli di chi è nato e cresciuto in Italia? I due aspetti sono strettamente connessi evidentemente. Non è possibile fare dello straniero un cittadino se non si ha un’idea chiara riguardo all’identità del cittadino stesso. Intorno a quale complesso di valori costruire questa identità? La proposta che la scuola attualmente avanza si lascia ricondurre  ad un’idea piuttosto vaga di democrazia come metodologia della convivenza tra diversi. Ad ispirare questa arte della mediazione si vuole sia la Costituzione che tuttavia non è riguardata come un oggetto storico concreto (di cui bisognerebbe individuare matrici culturali, condizioni e limiti) bensì come “spirito” della Costituzione. In questa prospettiva, la Costituzione non è un ordinamento concreto, un determinato assetto dei poteri, ma una tavola dei principi, che come tali fluttuano in una dimensione metastorica, senza un contesto preciso di elaborazione, senza attori politici sottostanti, validi sempre e comunque.
 
Appare evidente come sia impossibile pensare sulla base di simili presupposti una proposta di insegnamento della storia nella scuola italiana, che non sia la stracca esecuzione di contenuti ministeriali già di per sé formulati nei modi più vaghi e generici. La comprensione del passato in nessun caso potrebbe contraddire la serie degli assunti che stanno alla base di una nozione di democrazia intesa in termini così fortemente prescrittivi. L’orizzonte morale all’interno del quale una comprensione del genere si produce è dato una volta per tutte e la conoscenza della storia non può che confermarlo.
 
Esiste un’altra possibilità? Al riguardo, il punto di partenza non può che essere un impegno assunto collettivamente attorno alla definizione dell’identità comune. Assumersi la responsabilità del proprio passato, di tutto il passato, sarebbe un buon modo per rimettere mano alla grande questione del suo insegnamento.
 
 
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Adolfo Scotto di Luzio insegna Storia della pedagogia, Storia delle istituzioni scolastiche ed educative e Letteratura per l'infanzia nell'Università di Bergamo. Si è occupato a lungo di storia del fascismo e, in particolare, della costruzione del suo apparato culturale e anche di storia delle istituzioni culturali e della scuola (con un'attenzione mai smessa per l'editoria e la stampa).
Ha pubblicato diversi volumi, tra cui ricordiamo, per il Mulino, «Il liceo classico» (1999), «La scuola degli italiani» (2007) e «Napoli dei molti tradimenti» (2008), «Senza Educazione. I rischi della scuola 2.0» (2016); per Bruno Mondadori «La scuola che vorrei» (2014).
 
 

 
 
 
 


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Direttore Responsabile: FRANCO ROSSO
Responsabile di Redazione: RENZA BERTUZZI
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