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Numero 1 - Gennaio 2020
Numero 1 Gennaio 2020

“Non lasciare indietro nessuno”: due modi d’intenderla

La gestione degli studenti DSA e BES, oggi, passa per molti occhi chiusi, qualche pacca sulle spalle e un sostanziale depauperamento del percorso di apprendimento. A mio parere, invece, dovremmo esigere da loro e dalle loro famiglie uno sforzo supplementare, perché la costanza e l’esercizio premiano sempre


29 Dicembre 2019 | di Alberto Dainese

“Non lasciare indietro nessuno”: due modi d’intenderla La mia maestra elementare era una sostenitrice di un principio che definirei donmilaniano: quello di non lasciare indietro nessuno. Oggi parliamo, con lemma alquanto bruttino, di “inclusione”. Esiste una differenza abissale tra i modi in cui la maestra non lasciava indietro nessuno e le modalità che perlopiù adottiamo oggi per includere (talora forzando persino i refrattari che inclusi non vogliono esserlo affatto).


Per lei si trattava di profondere ogni sforzo acciocché gli allievi che arrancavano riuscissero a farcela. Le cose venivano fatte e rifatte fino allo sfinimento. Le prime domande delle interrogazioni spettavano sempre a loro. Molte mi sono rimaste impresse nella memoria, tanto erano martellanti: indicare l’est o l’ovest, deducendoli dalla posizione del Sole; recitare le tabelline del 6, 7 o 8; il significato di ‘maniero’, ‘pàmpino’, ‘avvezzo’ e altre parole che credo oggi non conosca neppure un buon liceale.
 
Tipico e proprio del procedere didattico erano l’insistenza e la ripetizione. Era come se la maestra non si volesse mai e poi mai arrendere; ci provava e riprovava in continuazione; a quei compagni venivano offerte sempre nuove chance. Erano i primi cui venivano controllati i cómpiti, cui venivano posti quesiti, cui si chiedeva di leggere a voce alta benché la sillabazione restasse stentata fino in quinta. Ma piccoli, lenti passi in avanti c’erano. In quei momenti, la maestra scriveva a casa annotazioni sibilline: “Vedo spiragli di luce, a buon intenditor poche parole”. Anche nei colloqui coi genitori la maestra chiedeva alle famiglie di perseverare nel seguire i figli per molte ore al pomeriggio; di farli leggere molte volte lo stesso brano; di aiutarli a scrivere, copiare, calcolare, risolvere.  
 
Era, questa modalità, se vogliamo pre-moderna e pre-scientifica. Infatti, all’epoca nulla si sapeva della dislessia e della discalculia. Molte di queste procedure possiamo quindi serenamente liquidarle come animate da un mare di buone intenzioni ma sostanzialmente prive di senso e forse persino controproducenti, in quanto non basate sulla solida conoscenza degli specifici deficit della letto-scrittura o del calcolo.


Ciò non toglie che i miglioramenti ci fossero. E soprattutto c’era, in quell’approccio, un fondamento più pedagogicamente autentico di quello che c’è oggi al fondo delle quasi infinite strategie compensative, dispensative e inclusive elaborate da esperti psicologi che si accordano agli studenti in difficoltà. L’idea da salvare, di quell’impostazione, era la fede – se si vuole ingenua e quasi ottusa – nella perfettibilità e redimibilità inscritte in ognuno. L’idea, cioè, che chiunque – in assenza di un deficit cognitivo conclamato – potesse partire dal livello x e arrivare al livello minimo previsto per l’intera classe, magari con più tempo, a forza provarci e riprovarci. A questi compagni veniva richiesto un impegno aggiuntivo rispetto agli altri: dovevano studiare di più, lavorare di più, conquistarsi la vetta (o il pianoro a mezza costa) a suon d’esercizi, copiature, domande a mitraglia. Non era tanto che tutti ce la si poteva fare: era quasi che tutti ce la si doveva fare.


Certo, le condizioni di lavoro erano molto diverse. In classe non “si doveva sentir volare una mosca”. La maestra era unica, perciò poteva progettare in modo molto ampio le attività, riprendendo e ricollegando ogni cosa molte volte. Ricordo che ogni nuovo argomento di storia o di scienze veniva prima spiegato, poi dettato sotto forma di testo, poi rispiegato; a casa si riassumeva tramite questionario e la maestra poi interrogava. Era un modo di fare scuola molto routinario, dove la varietà la davano i contenuti stessi, non i metodi funambolici. Il numero di alunni per classe era quello corretto, intorno ai 16-18. Ultimo particolare: le famiglie collaboravano, nel senso che non s’impicciavano: accettavano ed eseguivano. Senza mettere in discussione. Mai.
 
Oggi, grazie a Dio, siamo più smaliziati. Disponiamo di conoscenze scientifiche abbastanza avanzate su alcuni disturbi, come la dislessia, e gli psicologi ci forniscono molte indicazioni (a volte troppe...) su come gestire i BES e altre situazioni. E allora, dove sta il problema?
 
Il problema principale, al di là di altri ben noti a tutti noi (la burocratizzazione, la ricattabilità dei docenti, l’eccessiva patologizzazione delle situazioni, la variabilità tra consigli di classe nelle scelte etc.) è che abbiamo adottato un atteggiamento di tipo categorizzante e strategie principalmente di tipo evitante.  
Mi spiego. Gli studenti vengono cristallizzati in etichette al punto che vi si identificano completamente. Non più Mario, Jennifer, Nicoletta, ma il dislessico, l’adottata, la BES. Una volta fossilizzati in una forma pirandelliana, gli studenti – che per primi di essa si fanno scudo – subiscono persino un rallentamento o addirittura un arretramento dei loro progressi, in quanto adagiati dentro una comoda categoria che dispensa ed esenta, che spiega e giustifica. Una volta che l’alunno è certificato dislessico, ad esempio, scatta la macchina da guerra delle famiglie, che esigono l’applicazione delle misure di legge. La scuola risponde con l’elefantiaca burocrazia e le pletoriche riunioni che conosciamo. I docenti, a quel punto, sono vincolati ad applicare misure ad hoc. Alcune consistono nel dispensare da determinate richieste; altre nel fornire ausili di vario tipo; altre ancora nel ritarare strumenti di verifica e valutazione. Difficilmente ci se ne discosta, quantunque sarebbe utilissimo per stimolare gli studenti.
 
Le misure di cui sopra hanno in comune il fatto che esonerano lo studente dallo sforzo di mettere in campo tutti i suoi sforzi per riuscire. Ad esempio, viene spesso prevista la riduzione del carico dei cómpiti per casa o delle richieste nelle prove. A volte si esclude la memorizzazione di formule, paradigmi, date. Di frequente si adottano misure in eccesso anziché in difetto, per paura che le famiglie abbiano a recriminare: vige il principio melius abundare, ed è comprensibile. Ho assistito anche a casi di colleghi confusi, che adottano strategie del tutto irrilevanti col disturbo in questione: ad esempio la dispensa dalla lettura a voce alta per uno studente con pregressa – e ormai risolta! – fobia scolastica.
 
Da un lato si evita di mettere lo studente troppo sotto pressione: è una strategia del minus, non del plus. Chi insiste troppo rischia grosso. Una mia collega, specchiatissima, ha rischiato un richiamo perché la famiglia sosteneva che “vessasse” la propria figlia BES con “domande petulanti”, mentre l’intenzione era solo quella di dare alla ragazza ogni occasione per riscattarsi.
 
Dall’altro lato, questi studenti rimangono spesso congelati nel loro stato. Entrano nel sistema al livello x e da lì non si smuovono. Nessuno glielo può imporre, nessuno può sollecitarli più del dovuto. Se migliorano ex se, bene, altrimenti li si deve lasciare in pace, o i rischi sono sempre in agguato.  Io stesso una volta ho tentato di spiegare a una famiglia che – lungi dal ridursi i cómpiti per casa – lo studente avrebbe dovuto fare più di quanto assegnato, e citavo tra l’altro un esperto, Michele Dalosio, che parla per questi studenti della necessità di fare di più rispetto agli altri: più esercizi, più ore di studio. Non c’è stato nulla da fare: sùbito la famiglia ha prodotto l’elenco delle misure previste o prevedibili e ci ha tamburellato sopra, e tanto è bastato, a mo’ di memento (o minaccia).
 
La gestione degli studenti DSA e BES, oggi, passa per molti occhi chiusi, qualche pacca sulle spalle e un sostanziale depauperamento del percorso di apprendimento. A mio parere, invece, dovremmo esigere da loro e dalle loro famiglie uno sforzo supplementare, perché la costanza e l’esercizio premiano sempre e dànno risultati, prima o poi. La semplificazione, la riduzione delle attese, la protezione estrema invece non portano grandi frutti, se non la promozione garantita.
 
Non lasciare indietro nessuno non dovrebbe significare – come invece di fatto significa oggi – rassegnarsi e accettare i limiti di ciascuno scusandolo per ogni mancanza senza pretendere uno slancio aggiuntivo per superare gli ostacoli. Dovrebbe invece implicare un surplus di attenzione, d’impegno, di lavoro: da parte degli studenti stessi, in primis.
 
 
 
 


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Direttore Responsabile: FRANCO ROSSO
Responsabile di Redazione: RENZA BERTUZZI
Comitato di Redazione:
Vicecaporedattore: Gianluigi Dotti.
Antonio Antonazzo, Piero Morpurgo, Fabrizio Reberschegg, Massimo Quintiliani.
Hanno collaborato a questo numero:
Valeria Ammenti, Ave Bolletta, Giovanni Carosotti, Rosario Cutrupia, Alberto Dainese, Giovanni De Luna, Danilo Falsoni, Marco Morini, Rocco Antonio Nucera, Adolfo Scotto di Luzio, Fabrizio Tonello, Sergio Torcinovich, Ester Trevisan, Maurizio Viroli.