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Numero 10 - Dicembre 2012
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Choosy o precarizzati strutturali?

Argomentando sulla inefficienza del sistema formativo del Paese, si vuol negare una delle essenze del capitalismo, ossia la disoccupazione strutturale, colpevolizzando gli stessi disoccupati per la loro ''inadeguatezza''. Bamboccioni o choosy, per l'appunto


02 Dicembre 2012 | di Sergio Torcinovich

Choosy o precarizzati strutturali?
Si sente spesso dire da parte confindustriale che le imprese sono carenti di personale con specifiche professionalità che si faticano a reperire nel mercato. Ciò porta a concludere che lavoro ce ne sarebbe, ma nessuno è in grado di svolgerlo. Ergo, sono i nostri giovani, a suo tempo bamboccioni, oggi choosy, la causa della (loro) disoccupazione. Nè più nè meno, come ritenevano cent'anni fa i marginalisti, la disoccupazione non esisterebbe se non ci fosse qualche problema, di volontà o di preparazione, da parte di chi dovrebbe essere occupato. E vai con i ditirambi sulla scuola che non forma adeguatamente le nuove generazioni e sull'università sempre in ritardo rispetto alle esigenze del ''mondo del lavoro''.

Io penso, al contrario, che la scuola non possa e non deva piegarsi a supposte esigenze della produzione. Non può, perchè le trasformazioni della sfera produttiva sono talmente rapide, incessanti e imprevedibili da rendere impossibile qualsiasi reale adeguamento della formazione alle necessità dei settori produttivi; non debba, perchè scopo primo dell'istruzione è innanzitutto la promozione umana, la formazione cioè di cittadini istruiti e consapevoli e per ciò stesso capaci, con duttilità e intelligenza, di inserirsi in contesti lavorativi sempre in evoluzione. Parimenti, l'università deve sì produrre intelligenze utili allo sviluppo del Paese, senza però appiattirsi sulle pretese industriali, perchè ciò costerebbe troppo in termini di autonomia e libertà della ricerca, soprattutto considerando la rapida obsolescenza dei paradigmi tecnici nei vari settori economici.

Il punto forse è un altro. Argomentando sulla inefficienza del sistema formativo del Paese, si vuol negare una delle essenze del capitalismo, ossia la disoccupazione strutturale, colpevolizzando gli stessi disoccupati per la loro ''inadeguatezza''. Bamboccioni o choosy, per l'appunto. In secondo luogo, è importante rilevare un altro aspetto della questione: fino agli anni Settanta del secolo scorso, era onere delle imprese formare quadri e competenze e questa funzione richiedeva risorse materiali e prospettive temporali almeno di medio periodo. Il lavoratore veniva a far parte di un progetto di sviluppo i cui costi ricadevano sull'impresa stessa. Oggi non è più così: l'estrazione del pluslavoro sociale impone che il lavoratore sia altrimenti professionalizzato, a spese sue e / o della collettività ma a vantaggio delle imprese, che così possono attingere a un serbatoio di conoscenze individuali secondo le loro esigenze e, soprattutto, con rapporti di breve termine. Il periodo di disoccupazione potrà essere utilizzato per conseguire una nuova professionalità magari a spese di enti pubblici, sollevando le imprese da un costo non irrilevante. Anche per questa via passa la redistribuzione del reddito dai salari alle rendite e ai profitti registrata negli ultimi decenni.

Questo sistema però non funziona. Mi pare che mai le giovani generazioni siano state così ''professionalizzate'' e flessibili, collezioniste di certificazioni, diplomi, dottorati e master; parimenti, mai, almeno dal dopoguerra, così spaesate e precarizzate, non solo nel lavoro ma anche nello spirito. Non funziona e i fatti lo dimostrano: l'ingordigia di ristretti gruppi di potere disgrega società facendole piombare nel disastro. Saremo in grado di porre almeno un freno a questa lucida follia, magari provando, come insegnanti, a discutere sull'impossibilità di subordinare la scuola al sistema produttivo?


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