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Numero 4 - Settembre 2017
Numero 4 Settembre 2017

L'insegnamento concepito a moduli, protocolli e verifiche a test? Una mostruosità. Intervista a Ermanno Bencivenga

"S’impara sempre e soltanto facendo, e imitando altri che fanno. Quindi un insegnante può educare al ragionamento solo ragionando con i suoi studenti"...


22 Agosto 2017 | di Renza Bertuzzi

L'insegnamento concepito a moduli, protocolli e verifiche a test? Una mostruosità. Intervista a Ermanno Bencivenga ► Professore, i suoi recenti testi Prendiamola con filosofia e La scomparsa del pensiero si richiamano, pur in modi diversi, al logos. Lei afferma - e noi siamo con lei - che nel discorso pubblico, e in quello politico in particolare, il logos oggi sia debole, sopraffatto dal pathos che agisce sulle emozioni e non sul ragionamento. Che legame c’è tra filosofia e pensiero?
 
L’amore per la saggezza si realizza attraverso il pensiero, cioè attraverso i collegamenti che tracciamo fra un contenuto e un altro. Non c’è pensiero in un contenuto singolo, quindi non ce n’è in un’affermazione o in uno slogan. Quando si enunciano semplicemente le proprie opinioni la filosofia tace; quindi non compete alla filosofia offrire ricette o sentenze. Quel che conta, in filosofia, è il tessuto argomentativo che lega un’opinione a un’altra, un fatto a un altro; ed è questo tessuto che si sta sempre più lacerando.


► Ne La scomparsa del pensiero, lei sostiene che la contemporaneità, in senso lato, ha molto inficiato le capacità deduttive. Perché?
 
Abbiamo vissuto per millenni in un’epoca di carenza informativa. Avevamo a disposizione pochi dati e dovevamo compiere la magia di ricavarne altri, ragionando. Riuscivamo a misurare la larghezza di un fiume senza attraversarlo e a calcolare la circonferenza della Terra senza muoverci dal bacino del Mediterraneo, così come, più modestamente, inferivamo il tempo dell’indomani dal cielo della sera o la qualità di una trattoria dall’assieparsi di autotreni nel suo parcheggio. Oggi tutti i dati sono accessibili schiacciando qualche tasto, in tempo reale. Non abbiamo più bisogno di ragionare, e il bisogno è la molla più efficace per sviluppare un’abilità (facendo di necessità virtù). Venendo meno il bisogno, è naturale che sia minacciata anche l’attività.


► Lei crede che l’intelligenza artificiale - una delle responsabili del declino del ragionamento deduttivo - sia un pericolo per l’umanità?
 
Credo che sia, come ogni cambiamento epocale, una straordinaria opportunità e un rischio straordinario. Per poter cogliere al meglio l’opportunità, occorre essere consapevoli del rischio e saperlo gestire con perizia. In particolare, occorre fare in modo che siamo noi a usare le nuove tecnologie, non viceversa; e a questo scopo è indispensabile offrire ai nostri giovani una diversità di approcci agli stessi problemi, per renderli più liberi, più capaci di scegliere e di scegliersi. Per me, che ho imparato a fare le radici quadrate con carta e matita, una calcolatrice è un ausilio prezioso; ma per i miei figli, che le hanno sempre e soltanto fatte con la calcolatrice, non c’è mai stata vera scelta.


► A scuola e in tutti i luoghi dell’istruzione oggi prevalgono gli insegnamenti codificati, a moduli e a protocolli, e le verifiche a test. Che cosa ne pensa?
 
Penso che sia una mostruosità. Un insegnamento così concepito presto non avrà più bisogno di persone che lo pratichino; sarà interamente sostituito dalla Rete. Come gli impiegati di banca diventano inutili quando noi gestiamo le nostre finanze elettronicamente, gli insegnanti diventeranno inutili quando l’insegnamento sarà ridotto a protocolli e test. Io insegno da più di quarant’anni e sono sempre stato convinto che l’unica cosa che ciascuno di noi possa insegnare è se stesso, presentando agli studenti un modello di come si affronta un problema, di come si legge un testo, di come si risolve una difficoltà. Un insegnante che ripeta lezioni a pappagallo non ha niente da insegnare, e i computer possono solo ripetere lezioni a pappagallo.


► Ne La scomparsa del pensiero lei sostiene che la grammatica non fa che sistematizzare il senso di grammaticalità dei parlanti e non ha un’autorità indipendente. Ma non crede che la grammatica possa mettere ordine in un vocìo collettivo dominato dall’anarchia, in cui convivono usi contraddittori delle stesse parole e locuzioni?
 
Quello che lei definisce vocìo collettivo è per me il coesistere, in un discorso comune che per semplicità denominiamo «italiano», di lingue fra loro diverse, con diverse grammatiche, parlate da persone diverse o anche dalle stesse persone in contesti diversi. Alcune di queste lingue inevitabilmente diventano egemoni; fino a qualche decennio fa, l’egemonia era determinata da persone e fonti autorevoli, riconosciute depositarie di profonda cultura, mentre oggi l’egemonia è determinata da quel che fa tendenza in Rete o nella chiacchiera quotidiana. Una persona educata a forme tradizionali di espressione si sentirà a disagio in questo ambiente e cercherà, se ha un ruolo istituzionale (per esempio didattico), di «mettere ordine». Ma io credo che mettere ordine dall’alto sia una strategia illegittima, oltre che perdente, e invito a una strategia diversa: a far cogliere, attraverso l’esempio, il fascino di una lingua più complessa e articolata.
 
► Il pathos domina la vita pubblica, l’irrazionalità sembra prevalere sulla ragione. Come può la scuola educare i giovani al ripudio degli slogan e alla passione della ragione?
 
Ripeto e riassumo quanto ho già detto. Rimanendo inteso che una società malata come la nostra assegna regolarmente alla scuola compiti che quest’ultima non può espletare da sola - che un’eventuale isola di lucidità argomentativa nella scuola avrà scarso effetto finché le famiglie, la politica e i mezzi d’informazione continueranno a parlare alla pancia della gente - s’impara sempre e soltanto facendo, e imitando altri che fanno. Quindi un insegnante può educare al ragionamento solo ragionando con i suoi studenti: rispettando in ogni occasione la loro diversità e argomentando pazientemente in favore dei propri valori e delle proprie idee.


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Ermanno Bencivenga è professore ordinario di filosofia presso l’Università di California, Irvine; logico di fama, ha dato importanti contributi alla filosofia del linguaggio, alla filosofia morale e alla storia della filosofia. In Oltre la tolleranza, Manifesto per un mondo senza lavoro e Parole che contano ha elaborato un’utopia politica. Per il grande pubblico ha scritto (fra l’altro) La filosofia in sessantadue favole e Il bene e il bello: etica dell’immagine. È autore delle raccolte di racconti I delitti della logica, Case e Amori, di cinque raccolte di poesie (l’ultima è Le parole della notte) e delle tragedie Abramo e Annibale. Gli ultimi suoi testi sono Prendiamola con filosofia e La scomparsa del pensiero. Ha fondato e diretto per trent’anni (fino al 2011) la rivista internazionale di filosofia Topoi. Collabora al quotidiano Il Sole 24Ore.





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Direttore Responsabile: FRANCO ROSSO
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