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Numero 5 - Novembre 2017
Numero 5 Novembre 2017

Mengaldo o della chiarezza: un critico che non rinuncia a valutare

In questa ultima serie di interventi, Mengaldo riprende i suoi oggetti prediletti: le traduzioni poetiche, la poesia dialettale, Montale, Primo Levi, Saba, letture e interpretazioni di singole poesie


30 Ottobre 2017 | di Sebastiano Leotta

Mengaldo o della chiarezza: un critico che non rinuncia a valutare Si può forse affermare che gli interventi di Mengaldo sulla letteratura del Novecento, ormai giunti al quinto volume, siano paragonabili per le acquisizioni conoscitive, fatte salve le differenze di metodo e psicologia, ai saggi di Sergio Solmi o agli esercizî di lettura di Gianfranco Contini (quest’ultimo in particolare accompagna l’itinerario critico di Mengaldo come il fantasma di Banquo accompagna Macbeth).
I lettori di Mengaldo sanno che si trovano di fronte a uno studioso che non si è mai limitato a una mera descrizione dei testi letterari e non ha mai rinunciato a fornire una valutazione del poeta o narratore in questione. Sacrosanto, in quest’ultima Tradizione del Novecento, il ridimensionamento di autori come Gadda, che viene ricondotto alla sua giusta cavezza, ossia la prosa d’arte e il frammentismo che ne invalidano la tenuta narrativa che è fatta, nota Mengaldo, non tanto di eccessi e di ingorghi linguistici ma di medietà e distensione;  o di correnti poetiche come l'ermetismo, la cui poesia  Mengaldo considera elusiva, dalla lingua separata e preziosa oggi pressoché illeggibile (p. 38). Ci troviamo di fronte a uno studioso che è stato sempre aderente al testo e alla sua sostanza linguistica, stilistica, retorica e infine storica e che non ha mai scritto – liquidando l’evidenza della lettera – oltre e a sproposito; da qui l’“illuminismo mengaldiano” sempre teso a contrastare l’irrazionalismo e il soggettivismo diffuso in molta recente critica letteraria italiana. Il saggismo di Mengaldo ha sempre evitato le secche dello specialismo e del tecnicismo così come quelle della pagina fine a se stessa. Punto di partenza è sempre la raccolta dei fenomeni linguistici significativi, che poi sfocia nel giudizio di valore (un titolo mengaldiano, fra l’altro: Giudizi di valore, 1999) spesso precipitato in definizioni memorabili. Il procedere induttivo del critico Mengaldo non è mai tiepido o neutrale ma è sempre evangelicamente netto – sì, sì o no, no – quando si tratta di valutare un’opera.
Gli interessi del critico dell’università di Padova spaziano dalla poesia e prosa del Novecento italiano agli studi innovativi sul fenomeno delle traduzioni poetiche (esigenza già avvertita negli anni Settanta da Fortini) e sulla poesia dialettale (si veda, per questi riferimenti, la serie completa di La tradizione del Novecento, il primo volume è del 1975); dalle opportune digressioni sulla lingua di critici letterari e storici dell’arte (Profili di critici del Novecento, 1998 e Tra due linguaggi, 2005) alla letteratura francese, terra d’elezione di Mengaldo (In terra di Francia, 2010); dagli studi sull’epistolario di Nievo (L’epistolario di Nievo: un’analisi linguistica, 1987) ai libri su la lingua del Boiardo lirico (La lingua del Boiardo lirico, 1963) e su Dante (Linguistica e retorica di Dante, 1978).
Ricordo, sperando di non andare ultra crepidam, anche il meno riuscito, e tuttavia il più eticamente sentito, dei saggi del Maestro, quello sulla lingua dei campi di concentramento (La vendetta è il racconto, 2007); qui l’indagine linguistica del critico letterario non può che mostrare il proprio limite ribadendo l’ovvio, un po’ come dipingere “grigio su grigio”, per usare un celebre epifonema hegeliano.  Infine non posso non far cenno alla splendida Antologia personale (1995), che raccoglie la scelta e il commento di scrittori (ma anche musicisti e pittori) da lui amati e sempre frequentati: un commento personale ed esistenziale, prima che professionale, del Mengaldo lettore.
In questa ultima serie di interventi, Mengaldo riprende i suoi oggetti prediletti: le traduzioni poetiche, la poesia dialettale, Montale, Primo Levi, Saba, letture e interpretazioni di singole poesie, memore di una pagina dell’Auerbach de Introduzione alla filologia romanza che ne raccomandava la pratica anche come valore pedagogico (prendano nota gli insegnanti di italiano).
In una lettera del 1922 all’editore Gallimard, Proust lamentava l’inadeguatezza della traduzione inglese della Recherche, tradotta come “ricordo di cose passate”; addirittura assurda la traduzione di Du côté de chez Swann in “alla maniera di Swann”, quando Proust intendeva semplicemente quella delle due strade di Combray che passava appunto dalla proprietà di Swann; partiamo da queste righe proustiane per rendere conto di uno dei saggi del libro: Traduzioni moderne in italiano: qualche aspetto.
Tradurre è un momento decisivo per una civiltà letteraria, in particolare Mengaldo ha sempre messo a fuoco le traduzioni da poeta a poeta, che sono importanti per la storia di un testo e la sua trasmissione e allo stesso tempo costituiscono un esercizio stilistico da parte di chi traduce, in una continua oscillazione fra costrizione linguistica, libertà personale del traduttore e lingua originale del tradotto. Sereni e Caproni traduttori di Char, le versioni poetiche di Sergio Solmi o Montale che traduce Hardy e Shakespeare, e così via. In quest’ultimo lavoro Mengaldo tocca alcune costanti del fenomeno del tradurre non solo poetico, fino ad appendersi ai suoi interessi personali, la letteratura europea (per esempio gli appunti sulle traduzioni italiane di Cechov), l’opera, il cinema. Deperibilità delle traduzioni, come quelle ormai illeggibili di Clemente Rebora dal russo e, aggiungiamo noi, quelle altrettanto illeggibili di Pietro Jahier (si provi a leggere L’isola del tesoro nella versione dello scrittore genovese), e strafalcioni veri e propri. Fra questi la traduzione sballata di Un coeur en hiver, il film di Sautet del 1992: il titolo viene reso letteralmente ‘un cuore in inverno’, ma l’inverno non c’entra niente, in realtà il titolo «significa né più né meno che ‘un cuore gelido, di ghiaccio’ (Cassola avrebbe detto ‘cuore arido’)». Questo saggio sulla traduzione che apre il volume è uno dei più belli e ariosi della scrittura mengaldiana.
Un bilancio complessivo della poesia italiana è il saggio Tracce per la poesia del Novecento, qui – sullo sfondo della poesia europea, solidamente ben frequentata da Mengaldo – l’autore non si esime, dopo tanti saggi monografici, dall’imbastire una sorta di overlook per certi versi imprescindibile della poesia del Novecento in Italia. La tesi è la seguente: «la poesia novecentesca, e non solo l'italiana, ha un aspetto epigonico rispetto a quanto hanno fondato i padri della lirica moderna fra Settecento e Ottocento». Epigonismo da non intendersi come diminuzione ma come relativizzazione di ciò che, in un’ottica esclusivamente nazionale, passa per originale. Qualche esempio, pur semplificando. I crepuscolari nel loro abbassamento di tono (il quotidiano, il piccolo-borghese) sono riportati alla poesia franco-belga; Saba ai suoi commerci con l’Heine tradotto da Bernardino Zendrini; alla linea anglossassone Montale (il più grande poeta del Novecento per Mengaldo), che «dal punto di vista psicologico è fortemente idiosincratico impossibile da ricondurre al “carattere degli italiani”» , e forse si potrebbe riprendere  a favore di Montale quello  che disse, in senso negativo però, Bizet di Verdi all'altezza del Don Carlos: «Verdi n'est plus italien; il veut faire du Wagner». Naturalmente Bizet non comprese nulla del potente intreccio di originalità e uso della tradizione della musica verdiana (e per Montale si pensi agli strabilianti Mottetti). Infine, va ricordato un drastico ridimensionamento della poesia di Ungaretti, anche quello de l'Allegria: un poeta che tende sempre a confondere «poesia ed eloquenza», e si potrebbe continuare.
Mentre scrivo queste schematiche note mi viene in mente la pagina finale di una saggio di Mengaldo sulla poesia di Michele Ranchetti (si trova in Tradizione, quarta serie). Alla fine del funerale del comune amico Franco Fortini, Mengaldo racconta che Ranchetti gli si avvicinò e gli baciò una mano: «e alla mia stupida meraviglia mi impartì la giusta lezione: non si baciano le mani solo alle donne, ma anche agli uomini. Vorrei ora, in onore alla sua poesia che mi trovo a condividere privatamente con lui, restituirgli quel bacio». Ecco perche ammiriamo e onoriamo Pier Vincenzo Mengaldo, ormai giunto agli ottant’anni, perché in ogni sua pagina, nella oggettività della scrittura, si avverte, a saperla cercare, la sua umanità e individualità e, come ha scritto in Situazione di Montale, «questo infatti è il tormento e un po’ anche la gioia del critico: immorare e fuoriuscire continuamente, contemporaneamente, da sé».
 
 
 
 


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Numero 5 - Novembre 2017
Direttore Responsabile: FRANCO ROSSO
Responsabile di Redazione: RENZA BERTUZZI
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Vicecaporedattore: Gianluigi Dotti.
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