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Numero 2 - Marzo 2018
Numero 2 Marzo 2018

Articolo 9: la cultura per preservare la democrazia

Nel pensiero di Calamandrei si trova una lucida consapevolezza del valore civile e politico della scuola e della cultura e mettere la cultura tra i principi fondamentali della Repubblica per lui significava rafforzarne la tenuta democratica


01 Marzo 2018 | di Tomaso Montanari

Articolo 9: la cultura per preservare la democrazia «I ‘principî fondamentali’ che sono sanciti nell'introduzione, e che possono sembrare vaghi e nebulosi, corrispondono a realtà ed esigenze di questo momento storico, che sono nello stesso tempo posizioni eterne dello spirito, e manifestano un anelito che unisce insieme le correnti democratiche degli «immortali principî», quelle anteriori e cristiane del sermone della montagna, e le più recenti del manifesto dei comunisti, nell'affermazione di qualcosa di comune e di superiore alle loro particolari aspirazioni e fedi». Con queste parole Meuccio Ruini illustrò all’assemblea il significato dei principi, in apertura della fatidica seduta pomeridiana del 22 dicembre 1947 alla fine della quale la Costituzione fu approvata. In quell’occasione egli segnalò ai deputati il «concetto aggiunto dello sviluppo culturale in genere»: era il primo comma dell’attuale articolo 9.
Questa decisiva integrazione si doveva al Comitato di redazione, e fu apportata in riunioni delle quali non si stesero verbali: evidentemente la parola ‘cultura’ e l’idea che tra i compiti fondamentali della Repubblica si dovesse indicare l’attiva promozione del suo ‘sviluppo’ stavano a cuore a qualcuno tra i Diciotto redattori.
È difficile andare oltre il livello di una verosimile ipotesi sul nome di questo fin qui sconosciuto apostolo della ‘cultura’, ma, sfogliando le biografie dei membri del comitato, saltano agli occhi i nomi di Aldo Moro, Giuseppe Dossetti e Piero Calamandrei. È soprattutto pensando alla biografia intellettuale di quest’ultimo che si potrebbe provare a dare un significato più profondo e pregnante al «concetto aggiunto dello sviluppo culturale in genere». Nel pensiero di Calamandrei si trova una lucida consapevolezza del valore civile e politico della scuola e della cultura, specie in chiave di resistenza critica contro il totalitarismo fascista. Nell’arringa di parte civile che aveva pronunciato nel 1945 al processo agli assassini dei fratelli Rosselli, egli identifica il nucleo originario dell’antifascismo organizzato e della Resistenza nel circolo che Carlo e Nello avevano voluto chiamare proprio «di Cultura»: «E allora ai Rosselli, mentre quelli bastonavano e assassinavano impunemente e la gran massa inerte li lasciava fare, si presentò in termini angosciosi il problema morale dell’Italia. Perché accadeva questo generale sfaldamento di tutta una struttura nazionale? Perché questo crollo? Perché questa indifferenza? Prima di agire bisognava poter rispondere a queste domande tormentose: bisognava capire».
Non possiamo sapere se sia stato proprio Calamandrei a suggerirlo, ma certo mettere la cultura tra i principi fondamentali della Repubblica per lui significava rafforzarne la tenuta democratica. La cultura, dunque, intesa soprattutto come senso critico, come strumento per una consapevole resistenza al potere. Poco prima, nel 1944, il più grande storico europeo – Marc Bloch – aveva spiegato, con parole altissime e assai lucide, perché la conoscenza e la pratica del «metodo critico della storia» fossero necessarie «nella nostra epoca, più che mai esposta alle tossine della menzogna e della falsa diceria» (in Bloch, 1998, pp. 102-103). Di fronte al nazismo e all’Olocausto la cultura umanistica sembrava ancora più necessaria: Bloch – fucilato dalla Gestapo perché membro della Resistenza – la definisce «una nuova via verso il vero e, perciò, verso il giusto». Il suo libro si apre con la domanda di un figlio a un padre: «Papà, spiegami allora a cosa serve la storia», e la risposta di Bloch è la risposta di una generazione che, in Italia, decide di porre la cultura a difesa della libertà a caro prezzo riconquistata.
Non è necessario presumere che si debba proprio a Calamandrei il «concetto aggiunto dello sviluppo culturale in genere» per suggerire che questa possa esserne, comunque, la chiave di lettura. Ma, in pratica, cosa voleva dire (e cosa può, e deve ancora, voler dire oggi) che la «Repubblica promuove lo sviluppo della cultura»? Una risposta particolarmente concreta viene da un appunto di un altro membro di quella generazione, un costituente ombra, anzi meglio un ‘costituente morale’ – Antonio Gramsci, che era morto in detenzione nel 1937: «Servizi pubblici intellettuali: oltre la scuola, nei suoi vari gradi, quali altri servizi non possono essere lasciati all’iniziativa privata, ma in una società moderna, devono essere assicurati dallo Stato e dagli enti locali (comuni e province)? Il teatro, le biblioteche, i musei di vario genere, le pinacoteche, i giardini zoologici, gli orti botanici, ecc. È da fare una lista di istituzioni che devono essere considerate di utilità per l’istruzione e la cultura pubblica e che tali sono infatti considerate in una serie di Stati, le quali non potrebbero essere accessibili al grande pubblico (e si ritiene, per ragioni nazionali, devono essere accessibili) senza un intervento statale. È da osservare che proprio questi servizi sono da noi trascurati quasi del tutto: tipico esempio le biblioteche e i teatri. I teatri esistono in quanto sono un affare commerciale: non sono considerati servizio pubblico» (Quaderni del carcere, 14, I, par. 56). Promuovere lo sviluppo della cultura, e renderla accessibile a tutti i cittadini: cioè fornire a ognuno gli strumenti culturali per esercitare la propria sovranità. In un’epoca come l’attuale, in cui la parola ‘sviluppo’ pare piegata all’unica dimensione economica, è invece vitale sottolineare che lo ‘sviluppo’ del primo comma dell’articolo 9 significa la stessa cosa del «progresso ... spirituale della società» cui un altro principio fondamentale della Carta, l’articolo 4, chiama a concorrere, doverosamente, «ogni cittadino». Ecco il modo più costruttivo per preservare la democrazia: è questo, sembra di poter dire, il vero senso del primo comma dell’articolo 9 della Costituzione. Introducendo il primo abbozzo dell’articolo, Concetto Marchesi aveva scritto: «E in verità non occorre chiamarsi socialisti o comunisti per riconoscere che i tre quarti della popolazione sono sottratti alla prova dell'attività intellettuale. La leva in massa degli eserciti è stata fatta da secoli, la leva dell'intelligenza mai. Ed importa all'Italia che questi milioni d'Italiani entrino nel circolo della vita nazionale. Chi darà i mezzi per questa leva dell'intelligenza? Si troveranno: non già nelle elargizioni di mecenati milionari, ma nelle finanze dello Stato che provvederà a premere nei giusti limiti e con le dovute gradazioni sulle private fortune; si troveranno nel concorde tributo di tutti i cittadini che sentiranno nella scuola il presidio della Nazione. Se i nostri bilanci militari dovranno essere contratti o aboliti, siccome impongono i vincitori, accettiamo con animo equo questa necessità che ci permette intanto di preparare e di addestrare nella scuola aperta al popolo i futuri reggitori e artefici dei nostri destini». Ora sta a noi lavorare a questo altissimo progetto, così largamente ancora inattuato.
 
 
 


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Direttore Responsabile: FRANCO ROSSO
Responsabile di Redazione: RENZA BERTUZZI
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Vicecaporedattore: Gianluigi Dotti.
Antonio Antonazzo, Piero Morpurgo, Fabrizio Reberschegg, Massimo Quintiliani.
Hanno collaborato a questo numero:
Fabio Barina, Roberto Casati, Vito Carlo Castellana, Rosario Cutrupia, Alberto Dainese, Tomaso Montanari, Marco Morini, Adolfo Scotto di Luzio, Fabrizio Tonello, Ester Trevisan