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Numero 3 - Maggio 2018
Numero 3 Maggio 2018

Il racconto della scuola

Nei film italiani il professore non prende mai sul serio il suo lavoro e non c’è regista o scrittore nostro che abbia sentito il dovere di raccontare il lavoro del professore, il suo fervore, i suoi fallimenti, quelli veri però.


18 Aprile 2018 | di Adolfo Scotto di Luzio

Il racconto della scuola La scuola italiana è sempre stata un genere letterario. In nessun’ altra fase della nostra storia nazionale tuttavia essa è stata così presente sotto forma di racconto come negli ultimi trent’anni. Racconto televisivo, innanzitutto; ma anche racconto letterario, nelle sue forme più tradizionali di romanzo della scuola. Da dove viene questo bisogno di narrazione e quali conseguenze ha avuto sull’ opinione pubblica, sul suo modo di comprendere la questione scolastica italiana da un secolo all’ altro? Ora, un esercizio molto semplice da fare è quello di mettere a confronto un qualunque film italiano che in questi anni ha raccontato un anno di scuola, la notte prima degli esami, i ragazzi della terza c, quelli del muretto e così via, con un film straniero sullo stesso argomento. Due cose saltano subito agli occhi. Primo, il professore italiano è un fallito esistenziale; secondo, lo studente italiano non studia mai.
Perché?
Diciamo subito che il problema riguarda la scuola superiore e per una ragione molto semplice. I bambini fanno tenerezza, stanno ancora di qua dai conflitti destinati ad esplodere con l’adolescenza e di conseguenza l’immagine della maestra è come coperta e tutelata dalla proiezione materna dell’ infanzia. Una maestra sadica sarebbe come la strega cattiva nelle fiabe. E siccome il racconto della scuola è sempre un racconto realistico, mettere una maestra cattiva in un prodotto narrativo medio per uno spettatore medio equivarrebbe ad un attentato alla pubblica moralità direttamente in prima serata. Il professore carogna, nella sua duplice versione maschile e femminile, è pienamente coerente con l’immagine conflittuale dell’ adolescenza, ne interpreta una figura fondamentale. Se l’ adolescente è impegnato in un faticoso processo di individuazione, ebbene l’ individuazione è sempre contrastiva e ha bisogno di modelli cui opporsi.
Se questo è vero sul piano generale, nel caso italiano entrano però in gioco altri elementi. Vediamo allora di capire, più da vicino, in cosa consiste il fallimento come cifra ricorrente della rappresentazione del signor professore, perché in questo caso la cattiveria della professoressa ha sempre qualche cosa di segretamente ammirabile. È in qualche modo sexy. Dunque, il professore italiano è sempre un fallito. La sua sconfitta nel racconto della scuola è duplice, perde a destra come a sinistra, diciamo così. A destra, perché odia i giovani e in questo modo tradisce tratti morali spregevoli, invidia, neghittosità, frustrazione, che cerca di nascondere ma invano. È fondamentalmente un disperato che rovescia sugli studenti la propria afflizione. Oppure esibisce la sua sconfitta con sciatta noncuranza, con noia e trascuratezza. A sinistra, le cose non vanno meglio. C’è solo più ingenuità, la voglia patetica di cambiare il mondo, un mondo però che non si conosce. Nel professore di sinistra infatti il tratto donchisciottesco non è altro che l’espressione di un’ inettitudine più profonda, di natura sentimentale. Il professore di sinistra in realtà non conosce le donne e non conosce nemmeno il proprio desiderio, lo complica, lo seppellisce sotto strati di ideologia o quello che ne resta. Come volete che capisca il mondo?
Non è difficile riconoscere in questi profili alcuni dei personaggi visti nei film e letti nei libri di questi anni. Silvio Orlando che fa il professor VivaldiFabrizio Bentivoglio nei panni di Stefano Sperone ne La scuola di Daniele Luchetti, tratto dai romanzi di Domenico Starnone e pluripremiato ai David di Donatello nel 1995. Ma anche il professore di italiano Martinelli, interpretato da Giorgio Faletti, in Notte prima degli esami di Fausto Brizzi, fa al caso nostro. Qui il tema è la fine delle illusioni, sostenuta con virile consapevolezza, ma anche in questo caso sconfitta politica e sconfitta sentimentale si sommano. Marx è morto e la moglie lo ha piantato, per uno più ricco.
Nei film italiani il professore non prende mai sul serio il suo lavoro e non c’è regista o scrittore nostro che, parlando di scuola, abbia sentito il dovere di raccontare il lavoro del professore, il suo fervore, i suoi fallimenti, quelli veri però. La classe, del francese Laurent Cantet, ad esempio, non ha un equivalente nel cinema italiano e bisogna risalire al 1972, al film di Vittorio De Seta, Diario di un maestro, per trovare qualcosa che gli assomigli. Di fronte agli insegnanti stanno, come l’opposto assiale, gli studenti, che da noi non studiano mai, perché infatti non sono mai considerati come tali. Nel nuovo racconto della scuola ci sono sempre e solo giovani; meglio, ragazzi. Al professore oppongono un vitalismo innocuo che ha come unico obiettivo quello di far risaltare il fiato corto, greve, del loro antagonista. Il professore è vecchio e tutti i suoi valori meritano di essere soppiantati. Da cosa, non è ben chiaro. Dal nuovo, che ha sempre il volto fresco e seducente della giovinezza. Ma è anche solo questo. I giovani nel racconto italiano non annunciano un mondo nuovo, sono solo l’immagine nuova di un mondo le cui scaturigini non stanno nella loro capacità di agire, ma sono saldamente detenute nelle mani di coloro che forniscono i gadget della giovinezza, i consumi, gli abiti, le tecnologie.
Anche il professore del film di Tony Kaye Detachment-Il distacco ambientato nella Mineola High School di Long Island, il molto dolente Adrien Brody, ha preso nella vita parecchie mazzate. Ma nella sua disperazione c’è molto più fervore di tutti i colleghi che popolano le storie italiane di questi anni.
Insomma, il racconto italiano della scuola è uno specchio fedele di quello che è ormai un tratto morale distintivo della nostra condizione come nazione: la delusione, nella quale sembriamo rotolarci con un certo compiacimento. Nel discorso sulla scuola si proietta uno stato più profondo della cultura italiana che nel dileggio della figura dell’ insegnante crocefigge la propria fiducia nella possibilità di esercitare una direzione politica sul corpo più vasto della società. Il professore è l’immagine degradata del tramonto dell’ intellettuale pubblico italiano.
La rottura del nesso tra cultura e pedagogia o se volete la perdita di fiducia nella funzione educativa dell’ intellettuale incide profondamente nel tessuto della storia dell’ identità italiana e ci fornisce gli elementi per leggere la questione scolastica sullo sfondo più ampio della storia etico-politica del nostro Paese. A partire da quando? In qualche modo, un’indicazione proviene proprio dal materiale narrativo a cui abbiamo fatto riferimento nel nostro discorso. I primi esempi di questa produzione risalgono alla fine degli anni Ottanta. Riportano lì alcuni testi a loro modo significativi. I ragazzi della terza C cominciarono ad andare in onda nel gennaio del 1987, I ragazzi del muretto poco dopo, nel 1991. La scuola di Daniele Luchetti, lo abbiamo visto, era del 1995, ma i romanzi da cui in qualche modo derivava, Ex cattedra e Sottobanco di Domenico Starnone, erano rispettivamente del 1989 e del 1992. Ora queste date non sono casuali. Da un lato, l’Italia era appena uscita dal ciclo trentennale della sua lunga modernizzazione, cominciato all’ inizio degli anni Cinquanta, dall’ altro cominciava l’altrettanto lunga ricerca di un nuovo modello scolastico. Finiva allora l’Italia della democrazia politica partecipata, fondata sulla mobilitazione ideologica di milioni di cittadini, e cominciava una nuova Italia, con nuovi valori legati alla sfera acquisitiva del profitto. Il protagonista della vecchia Italia era stato l’intellettuale politico e la scuola agiva sulla base di un mandato che aveva preso forma sul terreno dei compiti e delle funzioni che questo intellettuale attribuiva alla cultura. Nella nuova Italia a prevalere erano gli orientamenti privatistico carrieristici delle famiglie. La priorità non era più quella di qualificare la partecipazione civile del cittadino democratico. La scuola doveva contribuire alla competizione individuale. Fornire un vantaggio competitivo. Non poteva perciò essere più la scuola di tutti e per questo bisognava demolirla in effigie perché dalle sue macerie potesse nascere una nuova istituzione regolata sulla logica privatistica del merito. Ma il merito non può essere di tutti e così la scuola democratica veniva relegata nello spazio dell’acculturazione elementare delle moltitudini.
Alla vigilia del governo dell’ Ulivo, Luigi Berlinguer ministro della Pubblica istruzione, La scuola di Luchetti finiva con un crollo che mai fu più anticipatore di quello che sarebbe accaduto. Sotto le macerie restava guarda caso proprio la vecchia professoressa di cui tutti andavano in cerca dall’ inizio del film, incarnazione delle virtù e dei limiti dell’edificio collassato su se stesso. E prima di congedarsi dallo spettatore, Luchetti aggiungeva un altro elemento. La «mosca», presenza altrettanto misteriosa, riprendeva a ronzare per ricordare a tutti che non c’era niente da rimpiangere. Quello che è venuto dopo è stato solo il lento dipanarsi di queste premesse.
 
 
 


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Numero 3 - Maggio 2018
Direttore Responsabile: FRANCO ROSSO
Responsabile di Redazione: RENZA BERTUZZI
Comitato di Redazione:
Vicecaporedattore: Gianluigi Dotti.
Antonio Antonazzo, Piero Morpurgo, Fabrizio Reberschegg, Massimo Quintiliani.
Hanno collaborato a questo numero:
Giovanni Carosotti, Roberto Casati, Vito Carlo Castellana, Alberto Dainese, Marco Morini, Emilio Pasquini, Adolfo Scotto di Luzio,
Fabrizio Tonello, Ester Trevisan