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Numero 3 - Maggio 2018
Numero 3 Maggio 2018

I risvolti segreti del volontario esilio di Pirandello

Accurata ricostruzione di un periodo decisivo della vita artistica di Pirandello, fra gli anni del successo mondiale e del Teatro d’Arte fino alla morte (1936), col volontario esilio fra Berlino e Parigi e il rifiuto polemico dei funerali di stato.


18 Aprile 2018 | di Emilio Pasquini

I risvolti segreti del volontario esilio di Pirandello Pietro Milone punta già nel titolo (Pirandello accademico d’Italia e il “volontario esilio”. Fascismo, vinti, giganti, Fano, Metauro, 2017) su alcune parole-chiave che alludono all’ossatura stessa del libro , nel suo oscillare fra il “volontario esilio”(così l’autore stesso definiva i suoi lunghi soggiorni in Germania e in Francia) e la triade “Fascismo, vinti e giganti”, allusiva a certi suoi scritti coevi. Da una parte, svetta quella sua estraneità non solo fisica rispetto al Fascismo, comprovata dalla nudità della sua morte, di sapore tutto francescano, e qui dimostrata da alcuni suggestivi colpi di obiettivo, ad esempio sulla celebre opposizione fra gli “scrittori di cose” (così Verga) e gli “scrittori di parole” (così D’Annunzio): si veda l’analisi del discorso su Verga (1931), patrocinato dall’Accademia d’Italia, nel solco di una memorabile  conferenza a Catania (1920). In secondo luogo, spicca la sua asserita derivazione dai grandi realisti meridionali, in primis appunto Verga (specie per il ciclo dei “vinti”), fino all’approdo terminale al “mito” incompiuto, I giganti della montagna, dove si declina attraverso il protagonista, il mago Cotrone, vero alter-ego dell’autore, il mito dell’arte come assoluto, con quel fascino dell’improbabile che si pone agli antipodi dell’ideologia fascista. Come già agli antipodi si collocava Vitangelo Moscarda, il protagonista dell’ultimo romanzo pirandelliano, Uno, nessuno e centomila, all’insegna di un geniale vitalismo nichilistico, ad onta di un apparente e occasionale omaggio a Mussolini.
Nel libro, si parte da alcuni elementi di fatto ormai pacifici (in primo luogo, il miraggio di un teatro di stato) che spiegano un evento apparentemente ingiustificabile, l’adesione ufficiale di Pirandello al Fascismo nel 1924, all’indomani del delitto Matteotti, e, cinque anni dopo, il suo ingresso nell’Accademia d’Italia, punto di forza (unitamente al grande cantiere dell’Enciclopedia italiana) del progetto culturale di Mussolini. Ma basterebbe riprendere in mano Il Novecento di Giulio Ferroni per chiudere in una formula magistrale il senso complessivo della posizione di Pirandello: “Pur nel suo bruciante distacco dalle cose, egli giunge a credere in un movimento vitale che si impone nel caos e nella contraddizione; il suo nazionalismo e il suo spirito di conservazione sociale si intrecciano ambiguamente con questa aspirazione al movimento e all’energia, e lo portano a vedere nel fascismo una specie di compimento degli ideali risorgimentali, una sintesi fra modernità e tradizione”. E tuttavia Milone non si accontenta dei dati già  acquisiti, ma cerca di cogliere i risvolti segreti di questo periodo decisivo della vita artistica di Pirandello, fra gli anni del successo mondiale e del Teatro d’Arte fino alla morte (1936), col volontario esilio fra Berlino e Parigi e il rifiuto polemico dei funerali di stato. Sullo sfondo, stanno alcuni miti storico-critici, accennati nella Premessa e nell’Introduzione, fra l’eterno fascismo italico, quasi endemica malattia nazionale, e la “linea del fuoco” del Fascismo coagulatasi nell’invenzione (volta a soppiantare la gloriosa e secolare Accademia dei Lincei nella stessa sede di palazzo Corsini) di quella Accademia d’Italia che vide Pirandello come protagonista riottoso a partire dal suo ingresso nel 1929. Su questo punto, Milone cita un pungente giudizio di Leonardo Sciascia (“Chi più è disposto a scagliare la sua pietra contro Pirandello, si auguri che non gli offrano mai lo spadino e la feluca di accademico, che forse correrebbe, spingendo e sgomitando, a precederlo”); ma dello stesso Sciascia converrà anche ricordare un giudizio fulminante che contribuisce a chiarire il rapporto Pirandello-D’Annunzio (“Chi ama Tolstoi non può amare Dostoevskij, chi ama Stendhal non può amare Proust, chi ama Dante non può amare Petrarca”): dunque, chi ama D’Annunzio non può amare Pirandello e viceversa. Per concludere, il volume è ritmato in tre corposi capitoli: il primo, sull’ingresso nell’Accademia d’Italia, cui fa riscontro il cosiddetto esilio europeo; il secondo, sul discorso tenuto nella stessa Accademia intorno al cinquantenario di Verga, in polemica con l’Italia di Gabriele D’Annunzio e del ministro Giuseppe Bottai; il terzo, sulla compresenza, col ritorno definitivo in Italia, fra la cronaca del Regime e la ricerca del mito nelle ultime opere, ma soprattutto nel dramma I giganti della montagna, vera e propria allegoria del Fascismo e del capitalismo: dove  Cutrone si erge a combattere, in nome dell’autonomia dell’arte, la nuova dimensione di violenza economica che si nasconde dietro ogni regime (in questo caso, specificamente, quello fascista). S’aggiunga infine che dietro questa immagine complessiva di un Pirandello contestatore e costituzionalmente a-fascista, stanno molti antefatti, fra il saggio sull’Umorismo (con la geniale trovata del sentimento del contrario)  e la novella (con annesso articolo) sul “guardaroba dell’eloquenza”.
 
 
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Emilio Pasquini è professore emerito presso l'Alma Mater Studiorum - Università degli Studi di Bologna, dove ha tenuto l'insegnamento di Letteratura italiana. Allievo di Raffaele Spongano, di Umberto Bosco e di Gianfranco Contini, è fra i maggiori studiosi italiani di Dante, e si è occupato di aspetti rilevanti della cultura tre-quattro-centesca, fornendo importanti contributi filologici. L’ultimo suo contributo è Il viaggio di Dante: storia illustrata della Commedia- Carocci 2015, recensito, con intervista all’autore, nel numero di gennaio 2016 di questo giornale.
 


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Numero 3 - Maggio 2018
Direttore Responsabile: FRANCO ROSSO
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