IN QUESTO NUMERO
Numero 4 - Settembre 2018
Numero 4 Settembre 2018

Quando la pedagogia è solo instrumentum regni la scuola muore

Per superare il presunto conflitto conoscenze/ competenze occorre che i docenti escano dal sonno dogmatico della ragione pedagogica e propongano al legislatore vie radicalmente alternative.


24 Agosto 2018 | di Gianfranco Meloni

Quando la pedagogia è solo instrumentum regni la scuola muore Il dibattito sulla scuola pubblica italiana, circa un anno orsono, trovava una rinnovata, per quanto effimera, vivacità in seguito alla pubblicazione della lettera Contro il declino dell’italiano a scuola, sottoscritta da seicento accademici che certificavano quanto è sotto gli occhi degli insegnanti già da tempo, ossia l’inefficacia del sistema di trasmissione culturale offerto dalla scuola pubblica statale e le sue conseguenze disastrose sulla salute del corpo sociale.
Da decenni, la discussione sulle cause stesse di questa crisi è impaludata nel grande equivoco che essa possa trovare soluzione in un rinnovamento tecnico-metodologico, tuttavia ostacolato da antiquati sostenitori della scuola delle conoscenze, intenti a frenare il decollo della taumaturgica scuola delle competenze.
Il derby pedagogico di Conoscenze vs Competenze, tuttavia, da anni distrae dal tema politico di fondo che, necessariamente, deve restare centrale nella valutazione dei sistemi pedagogici e nell’individuazione delle cause della crisi della scuola pubblica.
Ignorare questo tema equivale, infatti, a considerare la politica come ancilla economiae e la pedagogia come mero instrumentum regni
L’embrione della politica scolastica moderna è contemporaneo, per certi aspetti, agli Stati moderni stessi. Alla loro alba, infatti, in particolare nel XVII secolo, si originano due paradigmi politico-pedagogici profondamente differenti che, nel tempo, hanno caratterizzato gli ordinamenti scolastici di molti Paesi, tra cui il nostro.
La costituzione di questi due paradigmi risale, a ben vedere, a due differenti visioni filosofico-politiche, sviluppatesi, sull’asse geopolitico del Canale della Manica, tra il XVII e il XVIII secolo.
I grandi Stati nazionali non tardarono a comprendere, fin dagli esordi della rivoluzione scientifica, l’importanza della diffusione della nuova cultura presso strati sempre più ampi di popolazione come una condizione imprescindibile dello sviluppo e del benessere socio-economico della nazione.
In Inghilterra, in modo particolare, dove la rivoluzione culturale assume, fin da subito, dei contorni pragmatici, riassunti nello slogan baconiano scientia est potentia, si indica la strada della traduzione immediata del sapere in tecnologia e dominio sulla natura e, sotto questa ispirazione, sorge la prima grande istituzione scientifica e pedagogica nazionale, la Royal Society, nel 1660.
Nei paesi dell’Europa continentale, pur meno inclini ad accettare la curvatura pragmatica anglosassone, nascono, comunque, analoghe istituzioni: l’Académie de Sciences voluta in Francia dal ministro Colbert, nel 1666 e la Königlische Preussische Akademie der Wissenschaften, fondata nel 1700, su ispirazione di Leibniz, a Berlino.
Sotto un certo profilo possiamo considerare tali atti istitutivi come altrettanti certificati di nascita della politica scolastica a gestione statale che, nel nome dell’interesse nazionale, prende le mosse dall’alta formazione, ove si costituisce l’élite scientifica e tecnologica dei singoli paesi, lasciando, invece, ancora per più di un secolo, la formazione scolastica primaria e secondaria nelle mani delle istituzioni clericali.
A partire dal XIX secolo, quando le conseguenze tecnologiche della rivoluzione industriale  si dispiegano sull’Europa con tutta la loro dirompente energia di trasformazione socio-economica, il problema della politica scolastica assume contorni nuovi, acquisendo caratteristiche di massa e prefiggendosi l’obiettivo dell’eradicazione dell’analfabetismo, grave ostacolo allo sviluppo.
È in questa fase, nel corso del XIX secolo che, a parità di obiettivi (diffondere l’istruzione), si assiste alla distinzione di due sistemi operativi politico-pedagogici profondamente diversi, se non addirittura alternativi tra di loro.
Uno di matrice anglosassone, che appare finalizzato alla formazione di una classe sociale borghese, organica al paradigma capitalista e liberista ha come archetipo iniziale il modello del gentleman elaborato da John Locke.
L’altro, di matrice europea continentale, soprattutto francese, appare finalizzato alla formazione del cittadino, costruttore del proprio mondo, nuovo ideale umano che sostituisce il suddito dell’ancien regime ed ha come archetipo iniziale il modello presentato dall’Emile di Rousseau.
Da una parte una scuola che promuove adattamento e selezione e si presenta in termini ancillari rispetto al sistema economico-politico, dall’altra una scuola come palestra di trasformazione e inclusione sociali, che aspira a una dimensione indipendente e mai, semplicemente, strumentale.
Il dibattito pedagogico contemporaneo, dimenticandosi tale fondamentale distinzione, si è, invece, consumato nella finzione di una lotta tra progressisti, sostenitori del costruttivismo e conservatori, legati al vecchio modello didattico trasmissivo, ignorando completamente il quadro politico sullo sfondo.
Il costruttivismo pedagogico, può, in effetti, subire matrimoni politici di diversa natura che possono farne le sorti felici o infelici. Quando si sposa a un modello politico-educativo di matrice aziendalistica, che considera l’istruzione come uno strumento di adattamento all’ambiente socio-economico dato, l’infelicità è dietro l’angolo, vista l’infecondità in termini di pensiero critico e qualità culturale.
La scuola dell’autonomia battezzata da Luigi Berlinguer alla fine degli anni ’90, è la versione italiana di un modello marcatamente privatistico e aziendalistico, che continuamente strizza l’occhio al libero mercato globale e che promuove una concezione della società e dell’individuo profondamente diversa da quella concepita dai nostri padri costituenti. Paradossalmente, la scuola non è mai stata più serva che nel periodo dell’autonomia.
L’intellighenzia pedagogica nazionale, perlomeno quella operativamente coinvolta nei processi di riforma dalla classe dirigente politica di turno, di sinistra o di destra che fosse, è stata, finora, incomprensibilmente indulgente verso questa deminutio capitis della scuola.
Il corpo docente stesso, parte rilevante della classe intellettuale del Paese, in questi anni è parso estremamente passivo nell’accettazione della funzione di operatore culturale o lavoratore della conoscenza, assegnatagli dal modello politico-pedagogico aziendalistico.
Constatato l’insuccesso di questo modello, dopo oltre vent’anni di verifica sul campo, persino rispetto agli scopi dello sviluppo economico per i quali era stato costruito, i docenti dovrebbero tentare di uscire dal sonno dogmatico della ragione pedagogica e proporre al legislatore una strada radicalmente alternativa.
Liberati dallo schema ingombrante del pensiero pedagogico unico, forse riusciremo ad andare oltre al presunto conflitto conoscenze/competenze ed a ripristinare un rapporto sano tra scuola e cultura, restituendo alla scuola la sua reale autonomia.
 
 
 


Condividi questo articolo:

Numero 4 - Settembre 2018
Direttore Responsabile: FRANCO ROSSO
Responsabile di Redazione: RENZA BERTUZZI
Comitato di Redazione:
Vicecaporedattore: Gianluigi Dotti.
Antonio Antonazzo, Piero Morpurgo, Fabrizio Reberschegg, Massimo Quintiliani.
Hanno collaborato a questo numero:
Giovanni Carosotti, Roberto Casati, Vito Carlo Castellana, Alberto Dainese, Michela Gallina, Antonio Gasperi, Marco Morini, Giorgio Quaggiotto, Adolfo Scotto di Luzio, Fabrizio Tonello, Paola Tongiorgi, Ester Trevisan