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Numero 1 - Gennaio 2020
Numero 1 Gennaio 2020

La società in retrocessione

Aumenta l’ infrastruttura paraschiavistica che contribuisce al benessere delle classi medie. L’ ipersfruttamento del lavoro nelle analisi di Luca Ricolfi e di Thomas Piketty


29 Dicembre 2019 | di Fabrizio Tonello

La società in retrocessione Luca Ricolfi ha scritto un libro molto discutibile, in particolare nelle sue analisi sulla disuguaglianza (La società signorile di massa, La nave di Teseo, 2019, €18), ma sicuramente ha illuminato un tema su cui in Italia si discute poco e male: l’infrastruttura paraschiavistica che contribuisce in maniera sostanziale al benessere delle classi medie italiane. Si tratta di quelle situazioni in cui gli stranieri che vivono in Italia (e una piccola parte di italiani) “si trova collocata in ruoli servili o di ipersfruttamento”.
Ricolfi elenca sette categorie di lavori “paraschiavistici”:
1. Lavoratori stagionali in agricoltura
2. Prostitute straniere nelle mani di organizzazioni criminali
3. Donne di servizio e badanti
4. Lavoratori in nero addetti a mansioni pesanti o usuranti
5. Spacciatori di droga
6. Lavoratori delle cooperative nei settori delle pulizie, sorveglianza e assistenza
7. Precari della gig economy.


Non si può che apprezzare il tentativo di un sociologo di guardare in basso, alla parte più povera della società, in modo non moralistico, e di mettere insieme italiani e stranieri, braccianti africani e badanti moldave, lavoratori regolari (anche se sottopagati) e spacciatori di strada. Sono tutte figure sociali che vivono ai margini, in condizioni da cui è difficilissimo emergere: può accadere che una prostituta nigeriana riesca a pagare il suo debito con la maman rimasta in patria, o che un piccolo spacciatore decida di “uscire dal giro” ma sono rare eccezioni. Alla lista di Ricolfi aggiungerei  gli working poors, i lavoratori che hanno un contratto ma che non guadagnano abbastanza per sostenere se stessi, men che meno una famiglia (sono in parte quelli delle categorie 4 e 6, che però non comprendono molti addetti nel settore del turismo o dell’edilizia che sgobbano per 800 euro al mese).
 
Nei campi del Centro-sud italiano la condizione dei lavoratori è quasi letteralmente di tipo schiavistico, sia per le condizioni di vita estreme (tendopoli, baraccopoli, container), sia per le modalità di reclutamento (caporalato), sia per le paghe, il cui livello è così basso da assicurare a malapena la sopravvivenza fisica dei lavoranti: spesso 3 euro l’ora. Nessuno sa di quante persone stiamo parlando, ma molto probabilmente si tratta di almeno 300.000 persone, grazie alle quali possiamo trovare la salsa di pomodoro a 0,99 euro al supermercato.
 
Ma la parte più importante dell’infrastruttura paraschiavistica è certamente il lavoro domestico, che in una società in via di rapido invecchiamento è diventato essenziale. Le “colf” sembravano personaggi di un altro secolo, macchiette dei film neorealisti, e invece sono tornate numerosissime, sotto forma di badanti, dopo il 1989, dall’Est europeo. Una stima basata su ipotesi realistiche “porta a circa 7 milioni (una su quattro) il numero di famiglie che ricorrono a personale domestico” scrive Ricolfi, che ha incluso l’intero settore del lavoro domestico, “a prescindere dal fatto che i relativi addetti lavorino in nero o siano assunti regolarmente con tanto di contributi, tredicesima, ferie, malattia, liquidazione”. Questo perché comunque è un’area dove è prevalente il lavoro irregolare, o comunque una richiesta di prestazioni 24 ore al giorno per sei giorni la settimana di tipo giustamente definito paraschiavistico.
 
I braccianti agricoli, le badanti e i precari delle consegne a domicilio sono quei lavoratori che permettono a una famiglia di classe media, per esempio due insegnanti con due figli, di vivere decentemente con i loro miseri stipendi: garantiscono prezzi bassi quando si fa la spesa, si prendono cura di bambini e genitori anziani, portano a casa una pizza dimezzando la spesa di un’uscita al ristorante. Se non ci fossero, niente sport per i figli, niente vacanze lontano da casa, niente regali di Natale diversi da un paio di guanti di lana.
 
Su questo, Ricolfi ha un atteggiamento un po’ cinico: sia nel settore pubblico che in quello privato, scrive, gli stipendi sono bassi perché “l’Italia ha standard salariali (e quindi tenore di vita) ampiamente superiori alle sue capacità produttive, il che nel lungo periodo non può che condurre a strozzature nel processo di crescita e alla moltiplicazione dei posti di lavoro precari, irregolari, sottopagati”. Una tesi discutibile, ma che qui non abbiamo spazio per confutare.
 
Vale la pena, invece, di affrontare non solo il tema del reddito ma anche quello dell’accesso alla proprietà: l’analisi di Ricolfi su questo viene molto allargata da un altro libro recente (e ben più ricco), quello di Thomas Piketty (Capital et idéologie, Seuil, 2019, € 25, non tradotto). Nell’Europa di oggi, in particolare in Francia, Germania, Regno Unito e Italia, la metà più povera della popolazione non possiede quasi nulla: il 50% più povero dal punto di vista patrimoniale possiede ovunque meno del 10% del patrimonio nazionale e di solito meno del 5%.
 
L’economista francese ci fa scoprire che, dal punto di vista delle proprietà, non c’è molta differenza tra il fellah algerino di un secolo fa, l’autista inglese di Amazon protagonista dell’ultimo film di Ken Loach (Sorry, We Missed You) e il ragazzo italiano che porta le pizze a domicilio. Naturalmente, a Milano o Bologna il giovane precario che lavora per Uber o Deliveroo è inserito in una rete di sostegno che gli offre cure mediche, accesso alla giustizia, garanzie contro gli arbìtri peggiori, senza contare i genitori che probabilmente gli garantiscono un tetto. Le “sue” proprietà, però, si limitano probabilmente allo smart phone necessario per il lavoro o poco più, così come il fellah algerino era proprietario dei suoi attrezzi di lavoro e aveva un tetto insieme alla famiglia, ma poco altro.
 
 
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Fabrizio Tonello è docente di Scienza politica presso l’università di Padova, dove insegna, tra l’altro, un corso sulla politica estera americana dalle origini ad oggi. Ha insegnato alla University of Pittsburgh e ha fatto ricerca alla Columbia University, oltre che in Italia (alla SISSA di Trieste, all’università di Bologna).
Ha scritto L’età dell’ignoranza (Bruno Mondadori, 2012), La Costituzione degli Stati Uniti (Bruno Mondadori, 2010), Il nazionalismo americano (Liviana, 2007), La politica come azione simbolica (Franco Angeli, 2003).
Da molti anni collabora alle pagine culturali del Manifesto.
 
 
 


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Numero 1 - Gennaio 2020
Direttore Responsabile: FRANCO ROSSO
Responsabile di Redazione: RENZA BERTUZZI
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Vicecaporedattore: Gianluigi Dotti.
Antonio Antonazzo, Piero Morpurgo, Fabrizio Reberschegg, Massimo Quintiliani.
Hanno collaborato a questo numero:
Valeria Ammenti, Ave Bolletta, Giovanni Carosotti, Rosario Cutrupia, Alberto Dainese, Giovanni De Luna, Danilo Falsoni, Marco Morini, Rocco Antonio Nucera, Adolfo Scotto di Luzio, Fabrizio Tonello, Sergio Torcinovich, Ester Trevisan, Maurizio Viroli.