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Numero 2 - Marzo 2020
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Aree disagiate e scuole a rischio: è giusto pagare di più gli insegnanti che vi lavorano?

Le aree a rischio sono diffuse in Europa a macchia di leopardo ma vi sono alcuni contesti e situazioni, a prescindere dalla collocazione geografica, in cui si possono determinare dati oggettivi di riconoscibilità del disagio e della complessità dell’intervento didattico ed educativo.


17 Febbraio 2020 | di Fabrizio Reberschegg

Aree disagiate e scuole a rischio: è giusto pagare di più gli insegnanti che vi lavorano? Negli ultimi mesi si è riaperto sulla stampa nazionale lo storico dibattito sulle differenze strutturali che contraddistinguono la situazione socio-economica del Paese, dibattito che in più occasioni ha fatto riferimento alla scuola. Ciò è avvenuto, soprattutto dopo i rapporti SVIMEZ e ISTAT sulla situazione di grande svantaggio che affligge alcune le regioni del Sud.  Alcuni esperti e politici hanno prefigurato per le scuole situate in aree disagiate particolari forme di investimento, anche con riconoscimenti economici accessori nello stipendio dei docenti. Il problema è reale, investe soprattutto ampie aree del meridione ma non solo, ed è stato accentuato nella scuola, spesso in modo superficiale, mettendo a confronto i risultati INVALSI con i risultati formali degli esami di stato ingenerando il sospetto che anche la scuola in alcune regioni svolga un semplice ruolo assistenziale e di finto ascensore sociale.


Michele Piras,  de “ Il  Sole 24 h”  ha proposto “un sistema di incentivi che favorisca la permanenza dei migliori docenti nelle aree disagiate e nelle scuole più difficili. In queste scuole, i docenti cambiano spesso perché appena possono fanno domanda di trasferimento per andare in una situazione più tranquilla. È ora di iniziare a pensare a incentivi economici mirati per sostenere le situazioni più critiche, e a una carriera dei docenti, in cui lavorare in contesti difficili ottenendo buoni risultati dia dei vantaggi”. Nella stessa traccia è intervenuta anche la Dott.ssa Carmela Palumbo del MIUR con una proposta generalizzata anche se finalizzata a dare benefici maggiori alle aree depresse del Paese.


Il problema è complesso e se ne parla da anni. Chi decide quali sono le aree disagiate? Quali sono le scuole difficili? Quali incentivi dare ai docenti “missionari”? Partiamo da alcune considerazioni. La situazione di svantaggio economico e sociale di ampie parti del meridione è un problema  oggettivo ,   aggravatosi  anche a causa dei governi degli ultimi trent’anni, che hanno brillato per mancanza di politiche industriali e di sviluppo dedicate e per l’assenza di seri investimenti produttivi da parte dello Stato. Questa ultima scelta in nome del  motto “meno stato e più mercato”, laddove il “mercato” in alcune aree è stato condizionato pesantemente dalla criminalità organizzata. E’ evidente che la scuola, in territori caratterizzati da mancanza di prospettive economiche e sociali, in  un deserto delle speranze per i giovani, può fare poco o, se va bene, può produrre effetti positivi strutturali solo nel medio-lungo periodo. Diventa quindi area di parcheggio della disoccupazione o sottoccupazione giovanile e può diventare per i docenti la speranza di un “posto di lavoro” malpagato ma sicuro.


Le aree a rischio sono diffuse in Europa a macchia di leopardo, le frontiere formali degli Stati in questi contesti poco valgono. Si pensi al caso emblematico della ex Germania Est, al Galles nella Gran Bretagna, alla Grecia, a parte importante delle regioni spagnole. E naturalmente al nostro mezzogiorno. Ma le cosiddette “aree a rischio” in un sistema capitalistico iperliberista si trovano dappertutto, anche all’interno delle grandi metropoli come Londra, New York, Parigi. La diseguaglianza sociale è il tratto distintivo dell’attuale sistema di sviluppo basato sulla finanziarizzazione dei mercati sostenuti da un ipersfruttamento dei lavoratori a livello planetario.
 
Può quindi accadere che a Milano vi siano quartieri “difficili” cui corrispondono scuole “di frontiera”, come accade che a Napoli o Palermo non si possa dire che tutte le scuole sono in aree a rischio. Non lo sono certo i Licei “bene” del centro. Ma è pur vero che lavorare in una scuola in situazioni di disagio sociale  è per i docenti molto più complicato che lavorare in altri istituti scolastici, e questo determina la naturale propensione a chiedere il trasferimento in scuole cosiddette “normali”.


Ci sono però alcuni contesti e situazioni, a prescindere dalla collocazione geografica, in cui si possono determinare dati oggettivi di riconoscibilità del disagio e della complessità dell’intervento didattico ed educativo. Si tratta non solo di specifici quartieri noti a livello nazionale per le problematicità sociali che li contraddistinguono (Scampia, Zen, ecc.), ma anche di istituzioni scolastiche specifiche, caratterizzate dall’alta presenza di studenti stranieri, da bes, da allievi diversamente abili, da allievi le cui famiglie sono seguite dai servizi sociali territoriali. Si tratta di misurare, caso per caso, il livello di dispersione scolastica o di fallimento scolastico, inteso anche come inutilità del conseguimento del titolo di studio nell’ambiente socio-economico di riferimento. Si tratta anche di considerare il tasso di trasferimenti richiesti dai docenti, cartina di  tornasole del disagio di una professione incardinata in contesti di grande difficoltà lavorative.
 
E’ possibile riconoscere queste situazioni anche con elementi premiali per i docenti che vi lavorano ? E’ molto complicato dare una risposta da cui discendano provvedimenti contrattuali e stipendiali ad hoc. C’è sempre il rischio che il riconoscimento come  “area disagiata” sia utilizzato surrettiziamente per l’erogazione di finanziamenti,  con scarse possibilità di successo. Per anni abbiamo osservato  gli effetti poco rilevanti dei miliardi erogati con i PON europei a favore delle regioni di “convergenza” (Puglia, Calabria, Campania Sicilia) spesso utilizzati male per progetti privi di ricadute concrete. Non a caso i PON hanno ora un respiro nazionale e non più locale.


Il disagio esiste però anche all’interno di aree apparentemente sviluppate, concentrato in alcuni istituti scolastici al margine e in segmenti scolastici  come i CPIA e gli Istituti professionali e anche all’interno di una singola scuola nell’organizzazione delle classi e dei corsi.


Un dato oggettivo per riconoscere il lavoro aggiuntivo che i docenti sono costretti ad affrontare in situazioni difficili può essere riferito all’obbligo di compilazione di documenti complementari previsti dall’ordinamento cui corrispondono percorsi didattici differenziati e personalizzati rispetto al gruppo classe. Si tratta dei Piani Didattici Personalizzati previsti per gli allievi BES e DSA, che non sono solo oneri burocratici aggiuntivi per i docenti, ma li obbligano anche  a organizzare l’attività didattica ed educativa in maniera differenziata, con una enorme mole di lavoro sommerso dedicato alla preparazione delle lezioni (siano esse Unità Didattiche, Unità di Apprendimento, o altro). Rientrano ora a pieno titolo nel lavoro aggiuntivo, legato a situazioni lavorative difficili, i nuovi Piani Formativi Individualizzati che sono stati introdotti negli Istituti Professionali trasformati ormai nelle scuole in cui incanalare il disagio sociale di chi non ce la fa o non può permettersi di affrontare i percorsi liceali o di alcuni istituti tecnici.


Altro dato oggettivo da commensurare per riconoscere carichi di lavoro aggiuntivi per i docenti è la presenza in classe di allievi stranieri con lacune e difficoltà linguistiche cui corrisponde, formalmente o di fatto, la costruzione di Piani Individualizzati.
 
Solo partendo da questi presupposti facilmente riscontrabili si può aprire un dibattito serio e laico su elementi di premialità stipendiale per i docenti coinvolti, che potrebbero essere implementati anche dal riconoscimento in  termini di punteggio nelle graduatorie interne per la continuità didattica. Non si tratterebbe di creare insegnanti di serie A e di serie B, ma di valorizzare il lavoro didattico aggiuntivo che è posto in carico solo ad una parte dei docenti. Basta che questo sia definito chiaramente dal CCNL e non demandato a contrattazioni di Istituto e di secondo livello. Sarebbe bene aprire un dibattito su tali temi anche tra i lettori di Professione Docente.







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Numero 2 - Marzo 2020
Direttore Responsabile: FRANCO ROSSO
Responsabile di Redazione: RENZA BERTUZZI
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Vicecaporedattore: Gianluigi Dotti.
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Hanno collaborato a questo numero:
Lucio D'Abbicco, Alberto Dainese, Marco Morini, Adolfo Scotto di Luzio, Fabrizio Tonello, Ester Trevisan